6 Settembre 2018
La Mostra del Cinema di Venezia, la ricerca documentaria, qualche idea
“La fotografia è verità, e il cinema è verità ventiquattro volte al secondo.”
Jean-Luc Godard
Al cinema, molto più che a qualunque altra forma d’arte, sono stati assegnati, nel corso del tempo, ruoli molto diversi, spesso perfino antitetici tra loro, e a seconda del periodo storico e
degli orientamenti politico-culturali che quel periodo caratterizzavano, il cinema poteva assumere i colori della propaganda, oppure porsi come semplice evasione, comicità o invenzione.
Poteva raccontare un’intera generazione e un passaggio cruciale della storia di un paese con le pennellate dirette e commoventi del neorealismo o “semplicemente” divertire il pubblico con opere fantastiche e fantascientifiche, terrificanti e orrorifiche. Poteva, perfino, diventare strumento fondamentale al servizio della denuncia sociale e della rivoluzione, ma sempre – qualunque fosse il suo ruolo in quel momento – restituiva verità, che fosse quella diretta e senza filtri di un documentario o quella che si districava, fotogramma dopo fotogramma, tra le maglie tessute sapientemente dagli sceneggiatori, poco importava.
Alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, giunta quest’anno alla sua 75ma edizione, si stanno alternando da giorni, sui molti schermi del Lido, film e cortometraggi in grado di rappresentare tutto l’ampio spettro di narrative e di ruoli che la settima arte è stata sempre in grado di interpretare.
Non è difficile, però, pur nell’ambito di una proposta così variegata ed eterogenea, identificare un denominatore comune, se non a tutta la programmazione, almeno ad una buona parte di essa.
La verità, appunto. Un’onesta, e a volte necessariamente cinica, ricerca della verità e delle cause ed effetti che, concatenandosi, hanno innescato le dinamiche responsabili della profonda e innegabile crisi sociale, culturale, morale ed economica che caratterizza questo nostro tempo e questa nostra umanità.
Una ricerca sviluppata utilizzando stili narrativi e compiendo scelte registiche anche molto diverse, raccontando tempi e luoghi spesso lontanissimi tra loro, ma legati indissolubilmente dal fil rouge di una profonda ingiustizia sociale ed economica.
What you gonna do when the world’s on fire è il documentario che Roberto Minervini ha girato tra la Louisiana e il Mississipi, in quel profondo “sud del sud” degli Stati Uniti che già aveva voluto esplorare con i tre documentari precedenti (la cosiddetta “Trilogia del Texas”),
consapevole di muoversi in una terra di nessuno, di molti nessuno, in una terra che rappresenta un concentrato emblematico di tutte le contraddizioni e le tensioni generate dalle politiche economiche e sociali messe in atto negli ultimi decenni, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto l’Occidente.
L’elegantissimo bianco e nero di Minervini ci accompagna in punta dei piedi nella vita di chi, solo per il colore della sua pelle, è ancora costretto a subire discriminazioni e violenze (puntualmente impunite), come se il tempo si fosse fermato a settant’anni fa e gli anni bui dei
cappucci bianchi del Ku Klux Klan non fossero mai stati superati.
E immergendoci nel viaggio di Minervini, scopriamo che in quel sud-del-sud del paese più potente del mondo il tempo si è davvero fermato, che non solo il Ku Klux Klan esiste e continua ad operare esattamente come 70 anni fa, ma che per contrastarlo e per contrastare le sistematiche violenze delle forze dell’ordine nei confronti degli afroamericani, è stato ricreato anche il leggendario Black Panther Party for Self- Defense, dando vita ad un movimento di attivisti straordinari che quotidianamente si dedicano a supportare le troppe vittime di un razzismo ormai istituzionalizzato.
Scopriamo, poi, che in Louisiana la gentrification di molti quartieri storicamente popolati dai blacks sta letteralmente buttando in mezzo alla strada moltissime famiglie ovviamente prive dei mezzi che sarebbero necessari per poter acquistare le case in cui vivono da generazioni (il numero di senza-tetto negli Stati Uniti è enorme e continua ad aumentare).
Scopriamo che essere adolescenti neri nel sud degli Stati Uniti significa dover imparare a mettere in atto strategie di difesa quotidiane perfino nei confronti degli insegnanti, sempre pronti a tendere trappole non certamente destinate a mettere in difficoltà ragazzi bianchi. E mentre impariamo a conoscere Judy, che ha appena dovuto rinunciare al suo bar, strozzata dai debiti, e sua madre ottantenne che finirà a breve in mezzo ad una strada, ci pare quasi che la Louisiana non sia poi così distante e che certi scenari potrebbero, in un futuro non troppo lontano, non esserci più così estranei.
El Pepe, una vida suprema è il documentario di Emir Kusturica (presentato fuori concorso) che racconta la vita (suprema, senza alcun dubbio) di Pepe Mujica, l’ormai leggendario rivoluzionario, politico, senatore e presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015.
Lo stile di Kusturica, che normalmente permea ogni fotogramma dei suoi film, in questo caso quasi scompare, timidamente e rispettosamente, lasciando tutta la scena a questo monumentale e carismatico protagonista della storia del Sud America, ma non solo.
El Pepe è diventato un’icona internazionale, il simbolo di un modo altro di fare politica, altro da quello ormai praticato universalmente, un modo umano, onesto, al servizio del popolo e non dei propri interessi.
Mujica racconta di come abbia sempre devoluto il 70% del suo stipendio ai progetti su cui lavorava, quasi tutti destinati ad abbattere il livello di povertà ed indigenza del suo paese (che grazie a lui sono praticamente scomparsi in Uruguay), dare abitazioni a chi era costretto ad abitare nelle baracche, istruzione a chi non aveva mai avuto la possibilità di studiare, produrre uguaglianza, produrre felicità.
El Pepe ricorda il suo passato da rivoluzionario, quando con i Tupamaros (Movimiento de Liberación Nacional) diede vita ad uno dei più efficaci sistemi di guerriglia urbana della storia, ricorda il carcere, l’evasione, la lotta contro la dittatura di Jorge Pacheco Areco, sostenuto anche nei momenti più difficili dalla convinzione che un giorno il socialismo sarebbe stato possibile.
Kusturica lo ascolta come si ascolta un guru, un dio, un padre. E anche noi, a dire il vero.
Quando, poi, ci dice che non si è mai pentito di aver rapinato banche ai tempi della lotta contro Areco, perché si trattava di espropri nei confronti dei peggiori criminali che esistano sulla faccia di questa terra, le banche appunto, in sala scrosciano gli applausi.
È un racconto fluido, familiare quasi, Mujica coltiva la terra, si prepara il caffè, va dal macellaio a comprare il macinato per la cena della sua cagnetta, canta vecchi pezzi di tango con la sua adorata compagna di vita e di battaglie, Lucia Topolansky, e a Kusturica, con il tono che avrebbe un padre saggio e affezionato, spiega: “Kusturica, tu devi capire che se non hai mai sofferto, se non hai mai perso niente, se non hai mai perso nessuno, se non hai mai perso, il tango non lo capirai mai.”
Peterloo, in concorso, è l’ultima opera di Mike Leigh, straordinario regista e sceneggiatore inglese, padre di capolavori come Segreti e bugie e Il segreto di Vera Drake (che vinse il Leone d’Oro nel 2004), che in questo film sceglie di affrontare una delle pagine meno raccontate, ma più importanti, della storia britannica e di quella europea: il massacro di Peterloo.
L’Inghilterra è appena uscita vittoriosa, ma provata, dalla battaglia di Waterloo, è un paese vincitore che, però, si ritrova ad affrontare un riassestamento interno complessissimo. Lo scollamento tra la monarchia e le classi più agiate, e un popolo ridotto allo stremo delle forze, costretto a lavorare duramente per salari sempre più ridotti e senza alcuna possibilità di veder riconosciuto il proprio diritto ad una vita dignitosa, è enorme.
La magistratura è ormai uno strumento repressivo nelle mani di una oligarchia incurante dello stato di indigenza in cui si trova la popolazione ed è in questo scenario che i primi movimenti di protesta popolare cominciano a nascere e ad operare.
Il 19 agosto 1819 nella piazza Peter’s Field di Manchester si raduneranno centinaia di persone, uomini, donne e bambini disarmati, per manifestare pacificamente e pretendere a voce alta quanto dovrebbe essere un diritto: avere una rappresentanza in parlamento, essere ascoltati, poter avere voce in capitolo nei processi decisionali, essere trattati da cittadini e non da bestie da soma.
La protesta fu repressa violentemente, la Guardia Nazionale si gettò contro la folla inerme, morirono 15 persone e 400 furono gravemente ferite.
“Questo è un film sulla nascita della democrazia moderna europea e parla direttamente alle persone del XXI secolo.” ha dichiarato Mike Leigh in conferenza stampa. “Ha attinenza con il quotidiano perché ogni giorno ci troviamo davanti al potere che viene tolto al popolo. Rifugiati e migranti si spostano e perdono il tetto del loro mondo a causa di politiche repressive, nell’impossibilità di esercitare i propri diritti”.
Raccontando un episodio di 200 anni fa, Mike Leigh è riuscito ad essere contemporaneo e attuale, ricordandoci come la storia tenda davvero a ripetere se stessa, nel bene e nel male, e se fossimo più saggi di quel che siamo da lei dovremmo già aver imparato molto.
Quel tentativo di conquista dei propri diritti fu represso nel sangue, ma quel giorno a Peterloo erano presenti anche dei giornalisti, alcuni dei quali, senza curarsi delle possibili ritorsioni, decisero di raccontare i fatti del 19 agosto, accusando esplicitamente l’operato della magistratura, della monarchia e della Guardia Nazionale.
Quei giornalisti furono i padri di The Guardian e da quella sconfitta nacquero mille altre battaglie che portarono al suffragio universale.