12 Luglio 2018
Suicida uno dei deportati afgani dalla Germania verso Kabul, in un’Ue sempre più disumana
Le autorità tedesche hanno preferito tacere il nome. Perché senza nome, si sa, è più facile disumanizzare, ridurre a numero, a effetto collaterale.
Di lui si sa solo che aveva 23 anni e che faceva parte del gruppo di 69 persone, tutti afgani, deportati dalla Germania verso Kabul. E che si è impiccato nella struttura dove ha passato la prima notte dopo il rimpatrio forzato, prima di essere smistato verso il luogo di provenienza in Afghanistan, che si è saputo essere la provincia di Balkh, vicino Mazar-i-Sharif, verso il confine con il Tagikistan.
Probabilmente era un hazara, in maggioranza sciiti, massacrati dai Taliban, dalla guerra e indifferenti alle autorità afgane vicine alla coalizione internazionale che, dal 2001, occupa l’Afghanistan, dopo averlo fatto diventare un incubo peggio che negli anni Novanta.
Non lo sappiamo, non lo sapremo, perché devi raccontare numeri, non persone. Possiamo, però, immaginare, conoscendo bene l’Afghanistan, come possa essersi sentito questo ragazzo, mentre aspettava l’alba.
Strappato alla nuova vita che aveva sognato, dopo un viaggio che lo avrà portato prima a Kabul, poi in Iran, poi magari in Turchia, in Grecia, magari lungo la Balkan Route, oppure verso l’Italia. Un viaggio lungo, nel quale probabilmente la sua famiglia avrà impegnato tutto quello che aveva. Un viaggio nel quale avrà conosciuto fame, freddo, sete, caldo. Violenze, mazzette da pagare a ogni infame che l’ossessione europea per i rifugiati ha reso potente. E ricco.
Possiamo immaginare come quell’alba sia diventata troppo pesante da portare. Tornare in un paese dove il livello di violenza ha raggiunto apici sconosciuti nell’Afghanistan pre invasione, dove si combatte in ogni provincia, dove alla violenza tra insorti e truppe della coalizione si è aggiunta quella tra forze armate afgane e insorti, dove Daesh ha posto una base e fomenta la guerra settaria, dove la criminalità comune dilaga.
L’Afghanistan ci prova, da solo, con quei civili che da decenni pagano il prezzo dei grandi giochi degli altri. in occasione dell’Eid el-Fitr, la festività che segna la fine del sacro mese del Ramadan, in tutto il Paese c’è stato un giorno di tregua, accettato da tutti, e festeggiato dalla popolazione civile.
Come ha scritto sul suo blog Emanuele Giordana “una giornata storica: da Kabul alle città più periferiche, in molti sono scesi per strada per celebrare la pace, per quanto provvisoria ed effimera. Sulle reti social, per tutto il giorno si sono alternate immagini mai viste prima: soldati in uniforme al fianco di Talebani, funzionari governativi a braccetto con barbuti col turbante nero, strette di mano, sorrisi, pacche sulle spalle, bandiere tricolori dell’Afghanistan unite allo stendardo bianco con scritte nere degli studenti coranici”.
Ma sono soli. Perché la comunità internazionale, fatta la guerra, non ha idea di come fare la pace. E lui non ha sentito di farcela, preferendo la morte all’idea di ricominciare, da zero, di nuovo, tutto l’orrore di una quotidianità dove la tua vita vale meno di una pallottola vagante, dove il taglio dei tuoi occhi può significare, solo per questo, avere molti nemici pronti a ucciderti.
Il rimpatrio dalla Germania rientra negli accordi che l’Unione Europea ha firmato con l’Afghanistan nel 2016, chiamati Joint Way Forward. In poche parole, in cambio degli aiuti umanitari, le autorità afgane dovevano accettare il rimpatrio di afgani giunti in Europa come richiedenti asilo.
Bruxelles si macchia, ogni giorno, di una vergogna. Quella di definire l’Afghanistan un paese sicuro. Quell’Afghanistan che, secondo i dati della Unama – agenzia Onu per l’Afghanistan – e di organizzazioni internazionali come Amnesty International, è ogni giorno un contesto più violento e insicuro per i civili, per gli hazara ancora di più.
Non conosciamo il suo nome, ma conosciamo la sua paura, la sua frustrazione, la fatica che ha fatto per tentare di vivere una vita che non sia una condanna.
Inflitta dal destino che ti ha fatto nascere in Afghanistan, hazara, senza aver mai potuto scegliere di essere al sicuro. Conosciamo l’idea che aveva di Europa, un posto sicuro, dove trovare protezione. E immaginiamo quanto possa essere stata oscura quell’alba, che assomiglia molto al tramonto di quell’Europa dei diritti che ormai esiste solo nel marketing.
*foto di copertina tratta dal lavoro di 31mag.nl
Il rapporto di Amnesty sui rimpatri forzati degli afgani
Il testo dell'accordo tra Ue e Afghanistan
Il blog di Emanuele Giordana
L'agenzia Onu per l'Afghanistan, con i dati della violenza sui civili