Afghanistan, votare non basta

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27 Settembre 2019

Le cronache restano quelle di ordinario orrore. Un drone Usa, alla ricerca di miliziani legati a Daesh, ha sterminato trenta civili in Afghanistan, come riposta la Reuters, che ha verificato fonti locali.

Erano contadini, avevano finito la giornata di lavoro, erano seduti tutti assieme. I droni, si sa, reagiscono e agiscono in base a certi parametri. Un assembramento, che sia un matrimonio, un funerale o un gruppo di braccianti agricoli che torna a casa, equivale a una condanna a morte.

Una delle infinite stragi di civili di questi anni che, dopo un primo, assurdo, diniego di aprile scorso, potrebbero finalmente diventare oggetto di un’inchiesta della Corte Penale Internazionale.

Alcune ore dopo l’attacco del drone americano, almeno venti persone sono morte in un attentato fuori da un ospedale a Qalat, nel sud dell’Afghanistan, poi rivendicato dai talebani. È stato l’ennesimo attentato di queste settimane in Afghanistan. Altri civili, altro sangue.

Questo il clima di morte nel quale si avvicinano le elezioni presidenziali del 28 settembre prossimo, che vorrebbero essere un banco di prova credibile per Kabul all’estero e all’interno, dopo che le precedenti son state un pasticcio, che ha visto il paese dotarsi di una sorta di amministratore delegato nazionale per non scontentare il rivale del prediletto dell’Occidente, Ashraf Ghani.

Al voto, l’Afghanistan, ci arriva sanguinante. Perché le cronache degli ultimi giorni sono un elenco di morti: almeno 20 morti nell’esplosione di un camion bomba a Zabul; 9 feriti in un attentato suicida contro un centro governativo a Jalalabad; 26 morti per un’esplosione a un raduno elettorale nella provincia di Parwan e 22 vittime in un attacco vicino all’ambasciata americana a Kabul.

Sul voto pesa come un macigno la politica interna Usa. Le elezioni del 2020, per Donald Trump, saranno un incontro con le promesse fatte all’elettorato statunitense più feroce e il destino dei 14mila soldati Usa in Afghanistan è una di quelle.

La storia dell’intervento militare più lungo della storia a stelle e strisce peserà sul voto e preoccupa Trump e il suo entourage. Una preoccupazione così profonda da produrre veri e propri momenti schizofrenici, come è avvenuto il 9 settembre scorso, quando in un unico tweet è riuscito prima ad annunciare un vertice a Camp David con una delegazione talebana e – allo stesso tempo – di averlo annullato.

E’ ormai un anno che l’amministrazione Usa tratta, in Qatar, con i taliban, senza il governo di Kabul, che pure sulla carta è sotto la protezione di Washington. Un accordo ci sarebbe pure: un ritiro immediato di una parte del contingente militare statunitense subito, il resto scaglionato in sedici mesi. A fronte di un impegno dei talebani a convivere con il governo di Kabul e a non ospitare ‘nemici’ degli Usa.

Ma come può essere mai credibile, nel lungo periodo, un accordo che non vede allo stesso tavolo talebani e governo afgano?

I talebani, vedendo all’orizzonte un accordo che alcuni immaginavano come necessario già nel 2001, cosa che avrebbe risparmiato l’inferno a milioni di afgani, puntato a rafforzare le loro posizioni per negoziare da una posizione di forza. A qualunque costo. Anche perché – a livello di controllo e di immagine – la concorrenza dei miliziani targati Daesh rischia di diventare ingombrante, mentre è già riuscita a polarizzare la società afgana su posizioni sempre più settarie.

Cosa potrebbe cambiare questo voto? Poco, dovrebbe vincere Ghani, che può contare su un appoggio più solido tra i vari attori che – da sempre – giocano un ruolo chiave nel teatro della geopolitica dove gli unici a pagare sono i civili.

Per comprendere quanto le forze di sicurezza afgane, addestrate e armate dagli Usa e dagli alleati, sono in grado di garantire il controllo del paese basti pensare che l’attentato a Charikar, che ha colpito il check-point di ingresso a un centro di addestramento reclute della polizia, è avvenuto mentre dentro la struttura 5mila persone ascoltavano proprio il presidente Ghani.

La soluzione non sarà il nuovo vice-presidente, quell’Amrullah Saleh, ex capo dell’intelligence, dominus oscuro di infinite trame, tra traffico di armi e droga, che più che la soluzione è parte del problema.

Le elezioni presidenziali in Afghanistan si tengono su un cumulo di macerie. Solo nella prima metà del 2019 sono 4mila le vittime civili del conflitto, dati Unama.
L’Afghanistan resta il primo produttore al mondo di oppio e derivati con 263.000 ettari, anche se si registra un calo del 17% dei terreni coltivati a papavero. Nonostante questo, e nonostante la grave siccità, nel 2018 il Paese asiatico ha prodotto 6.400 tonnellate di oppio. L’82% del totale mondiale, dati Unodc. Sanità, istruzione, corruzione. Tutti gli indici della qualità della vita sono a pezzi.

Quello che potrebbe cambiare la situazione – nel lungo periodo – è al momento molto lontano. Un totale cambio di passo degli attori regionali e internazionali, un cambio della logica del sostegno a personaggi compromessi e un atteggiamento totalmente differente rispetto all’allocazione dei fondi internazionali.

Quello che potrebbe cambiare la situazione – nel breve periodo è la rimozione dell’accordo infame di rimpatrio verso l’Afghanistan come ‘paese sicuro’ che l’Ue ha fatto sottoscrivere al governo afgano nel 2016, con il ricatto degli aiuti umanitari. Perché almeno questo allevierebbe la condizione dei civili, che potrebbero fuggire da un inferno che non hanno voluto, ma che qualcuno ha generato per loro.

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Unama

United Nations Assistence Mission in Afghanistan

Unodc

United Nations Office on Drugs and Crime

Icc

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