“Il mare. Capriccioso. Ma va a cagar’”. Io e Angelo Miotto eravamo là, girando attorno a lui, come due che riflettono all’ombra di una quercia. Gianni Mura sfogliava la nostra promessa, quel cartaceo che io e Angelo ci eravamo giurati – prima o poi – di tornare a fare dopo la dolorosa chiusura di E-il mensile.
Sfoglia. Legge. Coglie tutto. Ci dice quel che non va. Partiva sempre da quello. E poi, sornione, con quella voce da orso, ci guarda: “Sette più”. Io e Miotto non ci siamo abbracciati per la gioia solo per dignità.
E sono le immagini quelle che ti tornano in mente, perché i suoi scritti sono dentro di te. Per me Gianni Mura è stato uno dei motivi per cui ho amato sempre questo lavoro. Io lo chiamo giornalismo narrativo, Gianni direbbe burbero che è solo buon giornalismo. E ha ragione. Non si arriva quando le cose sono accadute a chiedere ‘come ci si sente’, ma si lavora a denunciare che potrebbero accadere. Non si lavora sulla commozione, ma sull’indignazione, civile e politica. Non si usano le storie, si trattano con cura.
Una sera, con Antonio Marafioti, nella sede di Repubblica, attorno alla sua scrivania colma di libri e fogliacci, assistemmo alla dettatura di un pezzo di una partita di Champions. Lo stavamo ascoltando come si ascolta la radio. Era ipnotico per la chiarezza, per come quel pezzo esisteva già nella sua mente, mentre io e Antonio vedevamo solo qualche appunto scarabocchiato su un foglio.
E dopo a cena, a giocare ai nomi di calciatori. Ho vinto io, Gianni. Ce la siamo giocata su Bogdani e Boghossian. Il Mura giornalista mi mancherà come manca a tutti, quel Gianni, l’orso che quando ti faceva un complimento guardava sempre altrove, con l’austerità che solo gli amori veri sanno praticare, non potrà sostituirlo niente. Mi hai onorato dei tuoi consigli, della lettura delle cose che ti mandavo. La trasmissione dei saperi, senza arroganza, ma senza scorciatoie, è la qualità più grande di un maestro vero. Sei stata la mia redazione quando una redazione non c’era più.
Questi giorni orribili sono ancora più pesanti, perché ci impediscono di andare a cena, tutti assieme, per brindare a te, venendoti a salutare. Lo faremo lo stesso Gianni, lo faremo presto. Perché mica non l’avevo capito che le persone le valutavi attorno a un tavolo. Non ricordo se te l’ho detto, ma ti sono grato di avermi insegnato come ‘esser duri senza perdere la tenerezza’ sia una linea editoriale bellissima.
Christian Elia
Hola Jefe! Gianni al telefono e quei due minuti in cui facevamo i cretini in spagnolo. Mancheranno.
Gianni lo immagino mentre bestemmia stizzito e si accende una sigaretta, leggendo i ricordi e le parole che scriveremo oggi. Per questo cerco di ricordare solo poche cose e come ci ha insegnato lui.
Ciao sono Gianni Mura.
Mi giro e c’è Gianni, primo giorno in redazione da Direttore di E il Mensile.
Ci facciamo una scopa? E tira fuori un mazzo di carte, ce lo ho ancora in un cassetto. La redazione si fa così, diceva, con carte e ristorante, non con quei cazzo di computer a cui siete sempre incollati. Un’altra era, che ci raccontava, noi bambini a bocca aperta ad ascoltare e con quella passione che ti fa dire: voglio essere così.
Angel! Quanto esplosivo serve per far saltare un dodici metri in mare?
Ehh?
Gianni e il suo giallo Ischia, che mi chiede una valutazione da artificiere perché esperto di lotta armata basca. Incredibile.
Il titolo più bello ricevuto in dono: la ricognizione del dolore. Era per un reportage dai Paesi Baschi sulle vittime di Eta e del terrorismo di stato spagnolo.
Quando Gino Strada ci chiuse il giornale Gianni provò rabbia e dolore. L’ultima cena ci fece trovare – trenta e passa coperti – un libro pensato per ciascuno di noi redattori e un mazzo di fiori per le nostre compagne.
Della felicità per i suoi commenti per il nuovo QCODE cartaceo ha scritto qui sopra Chicco. Io lo abbraccio, come abbraccio Antonio, Assunta, Gabriele, Valentina e tutti quelli che sono eredità di una esperienza unica.
Gianni era bello. Da giovane bellissimo, e questo lo diranno i suoi amici di vecchia data. Era bello nelle sue rughe e le mani grassocce, le dita corte e la sigaretta che spuntava, si spegneva, si accendeva, le parole precise, l’immensa cultura, un’umanità generosa e spigolosa timidezza.
L’ultimo racconto è per quando ci chiusero il giornale. Mi invitò a un ristorante e mentre andavamo era imbarazzato, faceva fatica a iniziare un discorso. Poi si fermò, con il suo borsello, la maglietta rossa e il gilet senza maniche blu e con molta fatica e tono pacato mi disse: «Senti Angelo, hai figli a casa e voglio dirti che se hai bisogno di un sostegno economico io ci sono, chiedi a me e poi me li darai quando puoi». Io ero un misto di commozione forte e voglia di sorridere per quella faccia imbarazzata di fronte a me. Se mi servirà, sarai il primo che chiamerò. E poi al ristorante.
Ciao Gianni. Siamo più soli. Il giornalismo era già andato da un’altra parte, ma abbiamo combattuto e combattiamo ancora per riportarlo a quello che hai sempre fatto. Raccontare storie, avere un punto di vista. E scrivere bene, per dio. Con umanità e intelligenza.
Ciao amatissimo Gianni. Amatissimo.
Angelo Miotto
Mi mancheranno le mnemoniche. Mi mancherà vedere il posticipo in redazione con te. Mi mancherà vederti scrivere i pezzi, a volte dettarli al telefono, con l’entusiasmo di un giovane cronista del secolo scorso. La tua memoria storica, la tua eleganza sociale, le cene insieme fino a tarda notte. Le risate. Il tuo amore per Paola. I tuoi ricordi di Jannacci. La tua venerazione per Endrigo. Mi mancheranno le storie sulla Milano che non c’è più. Quelle sul Tour, i suoi luoghi, i suoi campioni, i vini francesi che nessuno conosceva tranne te. Mi mancherà, il tuo sorriso sornione, i tuoi rimbrotti da ragazzo del ‘45. Mi mancherà, soprattutto, la tua generosità, il tuo modo di trattare il prossimo. Rose per tutte le donne in redazione, risposte certe ai tuoi lettori, conforti senza riserve a quelli che vengono considerati gli ultimi che, invece, per te erano i primi. Te ne vai in un giorno di marzo, dopo 74 primavere e centinaia di corse. Le hai raccontate tutte, col tocco antico dei grandi scrittori, la macchina da scrivere di Brera, e il cuore sempre in scia dei più forti, dei più veloci. E oggi che il mondo rallenta, il tuo cuore decide che va bene così, che è tempo di lasciar andare il gruppo di testa. È l’ultima corsa, bagnata dalle lacrime. Il più grande non può commentarla.
Mi diresti, ora, “ragazzo di Calabria, smettila di fare il terrone sdolcinato”.
Ti sorriderei, pensando che hai ragione.
Poi ti abbraccerei forte per ricordarti l’enorme bene che ti voglio, che sempre ti vorrò.
Ci sono alcune persone, poche persone speciali, che anche se non le conosci davvero quando
muoiono è come se sia morto uno zio, un amico, un compagno, un maestro. Gianni Mura è stato tra
queste persone, ed è con questo magone spaesato che scriviamo in sua memoria.
Non abbiamo conosciuto bene Gianni, ma come tanti conserviamo un ricordo indelebile di quando
le nostre strade hanno incrociato la sua.
È la fine di gennaio 2016, e Gianni viene a Torino per partecipare, in quelle che erano le nostre
Officine Corsare, alla serata inaugurale di un ciclo di incontri su calcio e politica, sport e società.
Però arriva prima di pranzo, e uno di noi ha il privilegio di partecipare alla nascita di una puntata
della celebre rubrica Mangia e Bevi (tenuta con la moglie Paola, cui vanno ora le nostre
condoglianze).
Tavolo per due al ristorante del Circolo dei Lettori, prenotato rigorosamente in incognito: a nome “Moretti”, se la memoria non inganna. Pranzo spettacolare. Due bottiglie di vino buonissimo in due. Una convivialità che è difficile descrivere: non si parla assai, la loquacità è un’altra cosa; ma ciò non impedisce a Mura di confrontarsi su tutto, condividendo i suoi agnolotti e la sua trippa con uno sconosciuto. Chissà se lo chef ha mai saputo che Gianni è rinfrancato dal pranzo, e rivelando la sua identità ha chiesto di lui per fargli i complimenti ma lui no, è già andato via.
Quella sera sono in programma parole in libertà, a partire da Eduardo Galeano e da un suo piccolo
capolavoro, Splendori e miserie del gioco del calcio. Si tratterà di un incontro memorabile, pieno di
gente e di intelligenza. E, se possibile, ancora migliore sarà il “terzo tempo”, con Gianni
bonariamente impegnato a soddisfare, fino a tirar tardi, la nostra curiosità di storie di aneddoti di
opinioni, con quella sua socialità così strana, perché insieme misurata e generosissima.
Del resto, possiamo scommettere sul fatto che questo strano connubio sia stato una delle cifre della
vita di Gianni. Mura, infatti, è stato un uomo molto appassionato e curioso, ma allo stesso tempo
timido, e forse capace, in questo senso, di incarnare un modo un po’ milanese di stare al mondo.
Così era anche la sua penna, come hanno scritto Maurizio Crosetti ed Emanuela Audisio su
Repubblica: Mura è stato un grande amante della parola e della sua variopinta potenza, ma ha
scritto (e parlato) parole pensate, parole concise, parole mai compiaciute. In ciò, probabilmente,
Gianni è stato un allievo un po’ agli antipodi rispetto a Brera. E forse anche per questa divergenza –
che, si sa, va a braccetto con l’affinità – è stato l’unico erede possibile del suo omonimo maestro.
Con lui perdiamo uno dei suoi più straordinari, colti e versatili giornalisti e scrittori italiani. E non è esagerato dire che con la sua morte comincia un po’ a morire un’intera epoca del giornalismo,
sportivo e non. Gianni Mura ci ha insegnato che fare giornalismo è un privilegio e una
responsabilità, perché significa raccontare la vita con curiosità ma anche con tatto.
Mettendosi in ascolto delle persone e delle cose, andandosi a cercare con pazienza storie e notizie; ma anche difendendo il diritto/dovere di mantenere le giuste distanze – una sensibilità, questa, in cui si riassumeva (e, ne siamo convinti, si riassume anche oggi, in un mondo del giornalismo
radicalmente mutato) il ruolo sociale di un’intera professione.
Mura ha detestato la crescente tendenza del giornalismo a risolversi nello sciacallaggio, nella
pornografia, nelle urla acchiappaclick. Di questa sua postura, umana prima ancora che
professionale, è facile dare due indizi tra tanti. Da un lato, il suo rapporto così intimo e longevo con
Repubblica, e in particolare con l’eccellente redazione sportiva: che oggi, infatti, si raccoglie a lutto
attorno al proprio maestro.
Dall’altro lato, un fatto meno noto: Gianni Mura è stato il direttore di E-il mensile, rivista che Emergency ha pubblicato una decina di anni fa. Ebbene, quando nel 2012 si decise di interrompere le pubblicazioni di E-il mensile, il direttore Mura, nel suo ultimo editoriale, diede la notizia usando, tra le poche altre, le seguenti parole: “Non ci trovo nulla da eccepire: prima vengono gli ospedali, poi i giornali. E-il mensile è nato per trasmettere una cultura di pace e credo l’abbia fatto. Credo, ancora, che questo modo di fare giornalismo abbia un futuro, anche se si è scontrato con il presente. Me lo fanno pensare i tanti messaggi di colleghi d’altre testate (“bravi, finalmente qualcosa di nuovo”), ma soprattutto i messaggi delle lettrici, dei lettori, di voi che state leggendo queste pagine e che ci avete dato attenzione, fiducia, calore. Grazie a tutti, è stato bello finché è durato, come si usa dire. Molti dei messaggi elogiativi non li abbiamo pubblicati, per modestia. Uno sì, di una lettrice che ci ha definito “un manuale di umanità”: ecco, un pezzettino di quello che considero una medaglia me lo porto via”.
Questo ci lascia in eredità Gianni Mura. La consapevolezza che il bello della vita è avere il pane
tanto quanto coltivare le rose. La certezza che, a titolo individuale e collettivamente, vale sempre la
pena di fare cose e di usare parole che servano a scrivere manuali di umanità.
La sua gentilezza ci aveva consentito di mantenere contatti saltuari: «caro Gianni, mi permetto di
mandarti un articolo che ho scritto»; «caro Gianni, grazie per gli spunti dei tuoi cento nomi
dell’anno»; «caro Gianni, che tappa incredibile oggi!»; e così via. Avremmo dovuto accoglierlo
ancora l’anno scorso, in occasione di una serata per i quindici anni dalla morte di Marco Pantani.
Purtroppo Gianni dovette dare forfait all’ultimo momento, non mancando di dirci che ci sarebbero
state nuove occasioni di incontro. Così non è stato. La sua palla di lardo, che ogni anno gli
consentiva di fare le previsioni sul campionato alle porte, non aveva previsto che se ne sarebbe
andato così, un po’ all’improvviso. Nel primo assolato giorno di una primavera che la pandemia sta
privando delle passeggiate, dell’aria aperta, delle mangiate in compagnia, della Milano-Sanremo,
della Roubaix e delle Fiandre. Come lui usava dire: gli sia lieve la terra.
Rocco Albanese e Andrea Aimar