È il 25 aprile. Evviva la festa nazionale della Liberazione dal Nazifascismo. C’è il sole e si sfila. Anche e nonostante il voto del 4 marzo, anche, soprattutto e e nonostante chi dice che la destra e la sinistra non esistono più e chi dice fesserie che tutti si affrettano a riportare dappertutto, per poi scandalizzarsene sdegnati.
Allora è il 25 aprile e questo è il canto del partigiano, penso, mentre Bella ciao passa con le sue note di canto dei campi e di voci di campagna nei miei pensieri. Eppure qualche cosa non torna.
Sei bella come l’antifascismo, c’è scritto su un muro che una amica riprende sul suo social come immagine copertina. E la frase è bellissima. Ma oltre a essere belli come l’antifascismo, siamo anche così resistenti?
Mi spiego: la destra è tornata a farsi sentire, o forse l’eco mediatica amplifica una visibilità di una xenofobia che dialoga, complici i fatti criminali di cronaca che paiono già ampiamente dimenticati. Ma è anche vero che girano indisturbati per il Paese loschi figuri fascisti, che non se ne vergognano e anzi concorrono a libere elezioni, mentre il Viminale non muove un mignolo.
Ma quelli sono loro. E noi? Noi siamo belli; siamo anche resistenti?
Un comune vieta una manifestazione per il 25 aprile. La vogliamo celebrare ugualmente o ne esce solo la denuncia sdegnata? Che cosa facciamo quotidianamente per mantenere la nostra beltà antifascista? Non è solo un abito elegante e moralmente comodo e incredibilmente confortevole da indossare. È una pregiudiziale che dovrebbe innervare tutto il nostro essere cittadini. È nei piccoli gesti e non solo nelle canzoni di lotta. È tremendamente contemporaneo e non solo e non più legato a doppia mandata a un esercizio di memoria che è indispensabile, ma che non ci può bastare. Loro, i partigiani, stanno morendo. La loro memoria vivrà per sempre, e perpetuarne il ricordo è cosa buona e giusta.
Ma cosa dobbiamo fare di più per essere davvero resistenti?
Provo a fare qualche esempio. Siamo belli e resistenti quando riusciamo a vivere pratiche che scalzano il luogo comune, che uccidono l’indifferenza, che combattono i soprusi, le dittature dei pensieri deboli. Guardatevi intorno: quando riusciamo a far tornare di moda la cultura, laddove l’ignoranza è sempre stata l’humus fertile del fascismo del popolino, gretto e arrogante.
E non è questione di licei o di istituti tecnici, né di ricchezza o povertà – anche se il dato non è per nulla scontato -. Ma di un disinteresse e avvilimento del necessario impegno etico e sfida per un progredire del pensiero, un progredire costante, sintomo di una civilizzazione in buona salute. Guardatevi intorno, non c’è.
Ecco. Non basta più Bella ciao, dai cortei che in quelle note trovano forza alle serie tv che la ergono a sintomo di una rivendicazione di classe, un baluardo a difesa dalle ruberie del capitalismo. E però, che paradossi che viviamo! Nella Casa di carta di Netflix quella canzone, che viene cantata da un gruppo di rapinatori mentre non rubano il denaro di una banca, ma stampano nuovi bigliettini che non sono sottratti a nessuno, è più contemporanea di come spesso venga usata nelle piazze.
E che festa sia, senza le solite polemiche sterili, che sia davvero festa di Liberazione. Anche dei cliché, che son tanto comodi da portare con sé. E che sia un momento di riflessione per tutto quello che ci attende.
Belli e resistenti. Con ancora la voglia di cantare, ché il canto è gioia e dolore, ma soprattutto è espressione e sentimento e, quando le voci vanno insieme, è il sale di una comunità.
È il 25 aprile.