di Erica Grossi
2 Giugno 2020
In Italia, la donna è (ancora e sempre) la madre e la Madrepatria, la maternità e la cura, la donna-angelo, l’essere gentile, amorevole, la consolazione, l’infermiera servizievole, la crocerossina
Una donna bianca indossa una cuffia e un camice azzurro da sala operatoria, un paio di guanti in lattice blu e una mascherina bianca a coprire naso e bocca. Tiene la testa inclinata in avanti, di profilo a guardare quel che ha tra le braccia: una figurina rossa, miniatura bidimensionale della penisola italiana il cui perimetro si indovina fino all’estremo del tacco della Puglia.
Le braccia si incrociano all’altezza della Calabria che, come le isole della Sicilia e della Sardegna, si può solo immaginare sotto la bandiera tricolore che sembra avvolgere le estremità del modellino e rimanere sospesa sul fondo bianco del disegno.
Il resto del corpo della donna non è tracciato: sotto la bandiera niente. Lo sfondo è tirato su una pasta bianca che all’altezza delle spalle della donna rivela due ali distese color oro-ocra ritagliate dal riquadro dell’illustrazione.
È il 10 marzo quando l’illustratore Franco Rivolli pubblica questo disegno sui suoi profili Instagram e Facebook con il commento-didascalia: DAI ITALIA!! ANGELS [sic]. I commenti e i like al post aumentano di minuto in minuto e nel giro di qualche ora l’immagine, di profilo in profilo, è già virale.
Anche l’Associazione Nazionale Carabinieri di Chiaravalle Centrale in provincia di Catanzaro – da quella Calabria indovinata sotto la striscia verde della bandiera nazionale – la sceglie per la sua pagina Facebook ufficiale come omaggio al personale sanitario «in prima linea» per fronteggiare l’emergenza covid-19. È così che sull’illustrazione oltre alle iniziali dell’autore, compare anche il logo dell’anc di Chiaravalle, a cui fanno seguito più di mille commenti e oltre 50mila condivisioni.
Da lì in avanti è tutto un moltiplicarsi di usi e adattamenti della stessa immagine e di messaggi-didascalie personalizzati ma con una eco assonante all’interno della stessa intenzione retorica e comunicativa: Grazie! A tutti voi grazie! Andrà tutto bene ecc.
Non avendo profili social, dopo averla vista ovunque e in vari formati – intanto ne è comparsa una gigantografia con logo della Regione Lombardia sulla facciata dell’ospedale Papa Giovanni xxiii di Bergamo, zona rossa nella penisola rossa – e come illustrazione di articoli online sul tema e sul decreto #Curaitalia –, mi rendo davvero conto del successo mediatico di questa immagine quando, un paio di mesi fa, me la trovo davanti all’accesso al registro elettronico della scuola superiore in cui lavoro come insegnante per il Sostegno.
Sul disegno collocato al centro della home della piattaforma, all’altezza delle ali è stato sovrapposto un GRAZIE con le lettere verdi bianche e rosse a coppie e un #andràtuttobene bianco sullo sfondo azzurro del camice della donna.
Quanto scritto fin qui potrebbe essere letto come una Breve storia di un disegno e della sua circolazione “ai tempi del coronavirus”. Tanto potrebbe bastare a ricostruirne il successo, la diffusione, la condivisione e le successive personalizzazioni di profilo social in profilo social, di giornale in giornale, di pubblicità in pubblicità.
Del resto la questione della ricezione e circolazione – la condivisione nell’era social – ha guidato gli articoli e le interviste all’autore usciti su giornali e riviste online che hanno così individuato il come e il dove del successo e dell’apprezzamento pubblico di quest’immagine, moltiplicata e personalizzata nel wild web.
Sappiamo così dov’è arrivata e come ci sia riuscita, ma le interviste e la circolazione del disegno di Rivolli lasciano inesplorate ancora due questioni, forse perché sfuggenti anche alle esplicite e dichiarate intenzioni dell’autore e alla volontà dei followers e commentatori del disegno.
Da dove arrivano quel disegno e gli elementi che lo compongono? A quale immaginario fanno capo se riescono a “parlare” a e a farsi mettere in circolo da così tante persone – reali e virtuali – in questo preciso momento?
Nel 1921, al concorso per il manifesto celebrativo della traslazione della salma del Milite Ignoto al Vittoriano in piazza Venezia a Roma, vince il bozzetto di Anselmo Ballester. Il disegno, su uno sfondo oro-ocra in cui si riconosce la sagoma cerulea del Vittoriano, ritrae una donna tutta bianca, marmorea, con le ali distese ritagliate dal riquadro dell’illustrazione.
Ha una stella irradiante luce sulla cima della testa; la testa è cinta di alloro, lo stesso alloro che ella tiene tra le mani sopra l’elmo di un soldato che di profilo, con gli occhi chiusi e le braccia lungo i fianchi, levita sopra un ulteriore cespuglio di alloro. Il soldato è avvolto dalla bandiera italiana: sulla fascia bianca c’è lo stemma del Regno, è il 1921 e l’Italia è una monarchia; la fascia rossa invece vela il volto del milite, rendendone ignota l’identità; e quella verde gli avvolge i piedi quasi a celare l’arcano che gli permette di librarsi nell’aria sopra una siepe di ulteriori allori. Il corpo del soldato e quello della donna si sovrappongono all’altezza del «ventre fecondo» di lei a suggerire la diretta filiazione di sangue e di intenti tra l’allegoria della Madrepatria italiana e il Milite Ignoto, il rappresentante scelto dei suoi figli caduti, sacrificati sull’altare della Grande guerra.
Nel 1921 non ci sono social media né sharing ma il disegno di Ballester gode di un successo paragonabile a quello del disegno di Rivolli, mutatis mutandis.
È possibile ricostruire anche il percorso di questo successo: dalla pubblicazione nei manifesti ufficiali alla diffusione sulla stampa nei giorni relativi alla consacrazione, il 4 novembre 1921, del Vittoriano ai caduti della quarta guerra d’indipendenza italiana, com’è chiamata in lingua locale la Prima guerra mondiale.
Il rimando tra le due immagini è pressoché immediato non che questo significhi dedurre, laddove non ci sia, una diretta filiazione o ispirazione della seconda dalla prima. È plausibile, o quasi certo, che il disegnatore del 2020 non conosca quello del 1921 e neanche le migliaia di produzioni iconografiche analoghe alla sua che nel corso del conflitto e dopo – quando della memoria di quella guerra si impossessa la macchina della propaganda nazionalista e militarista del Regime fascista – riempiono la cultura di massa e i media italiani: dai giornali alle riviste, dai volantini alle cartoline. Come quella in «Onore al Milite Ignoto» illustrata da Ezio Anichini, nella quale si ripete la scena dell’ascensione già presente in Ballester, con in più la rappresentazione di una seconda “donna aerea” che di profilo allo spettatore tiene tra le braccia il corpo del soldato, completamente avvolto dalla bandiera.
Come non pensare alla figurina italiana del disegno del 2020? Per non parlare dell’immediata catena di rimandi tra emergenza-ospedali-infermiere (femminile plurale) e crocerossina: ovvero, la donna e l’antonomasia della donna che cura gli eroi in prima linea, che ha nutrito e nutre l’immaginario nazional-patriottico del “ruolo della donna nella storia”.
Inizia così a risuonare nella seconda immagine l’eco culturale centenario della prima.
Gli elementi che compongono i due disegni e l’impalcatura che li tiene insieme sono in effetti gli stessi: una donna alata, una bandiera usata a mo’ di drappo/velo/coperta, l’Italia – evocata in modo diretto nel 2020 con la figurina della penisola, e in modo indiretto nel 1921, con l’Altare della patria sullo sfondo – e l’intenzione esplicita dei loro autori – rendere omaggio a chi è (caduto) in prima linea nell’emergenza nazionale. Si tratta cioè, per utilizzare un’espressione più tecnica, di un palinsesto iconografico: una stessa superficie dell’immaginario sulla quale si ridispongono e reiscrivono i tratti associati all’idea della nazione italiana.
È proprio a questo secondo livello, quello dell’interpretazione dei segni, che in entrambi i disegni tutto si tiene al fine di comunicare un messaggio altro da quello immediatamente evidente.
Essi non sono cioè la rappresentazione di qualcosa per com’è ma di qualcosa che si vuole intendere e che si sa che verrà inteso da chi “mastica”, frequenta ed è in grado di decifrare quel codice iconografico, avendolo visto continuamente in azione, ripetuto, rianimato ad ogni emergenza nazionale negli ultimi cento anni di storia del Paese.
Di donne bianche indifese (l’Italia) che tengono tra le braccia bambini bianchi (gli italiani) per proteggerli da un pericolo, spesso subdolo e meschino come il pacifismo (o come un virus invisibile), è piena la propaganda nazional-patriottica che accompagna la storia italiana almeno per tutta la prima metà del Novecento.
A quelle si affiancano e via via si sovrappongono le donne moderne (le casalinghe italiane ben truccate e pettinate) che tengono tra le braccia bambini bianchi e rossi (l’Italia dei baby boomer) per accudirli, curarli e nutrirli al seno della loro virtù di perfetti “angeli del focolare”.
Queste figurine popolano la cultura visuale e l’immaginario italiano dalle pagine di riviste, sulla stampa e ancora di più nella pubblicità alla televisione. Il disegno del 1921 attinge dalla prima serie di immagini e nutre la seconda, ma ancora di più lo fa quello del 2020.
Ancora di più perché nel disegno del 2020 gli elementi costitutivi del messaggio alla nazione del secolo scorso – Difendila! Salvala! Cacciali via! urlati da donne indifese con in braccio i piccoli italiani minacciati dai soldati stranieri nei manifesti per la sottoscrizione al prestito della Prima guerra mondiale e per l’adesione alla Repubblica sociale della Seconda – entrano in uno strano corto circuito iconografico e biopolitico.
Nel disegno del 2020 è una donna – già allegoria dell’Italia e angelo del focolare – a tenere tra le braccia in segno di protezione la nazione – l’Italia figurina-zona rossa.
Il corto circuito è concentrato in questa Italia che #curaitalia: una donna che rappresenta l’Italia-che-cura che cura l’Italia. «Perché proprio una donna?» chiede la giornalista de La Stampa al disegnatore di DAI ITALIA!! ANGELS. «Il disegno che ho realizzato è un simbolo e la donna rappresenta meglio chi si prende cura di qualcuno, chi lo accudisce nei momenti di difficoltà e di bisogno».
Ecco il corto circuito spiegato, ecco spiegato il primato della donna nell’illustrazione del 2020 con la diretta eredità culturale e iconografica del disegno del 1921: la donna è (ancora e sempre) la madre e la Madrepatria, la maternità e la cura, la donna-angelo, l’essere gentile, amorevole, la consolazione, l’infermiera servizievole, la crocerossina appunto.
È un corto circuito potente, evidentemente: lo dicono i dati della circolazione e della condivisione dell’immagine online. Ma lo dicono soprattutto i commenti, le dichiarazioni di commozione collettiva e individuale, l’adesione al messaggio e alla sua diffusione dal Nord al Sud della penisola unita dalla comune condizione di zona rossa devastata della pandemia, tra i profili di rappresentanti delle forze dell’ordine come di medici e personaggi noti, ma anche dell’“uomo qualunque” passato dal commento di strada a quello dietro lo schermo del pc o di uno smartphone.
È un corto circuito che confonde l’osservatore, anche quello più attento e critico: questa immagine, diventata il manifesto dell’identificazione nazionale, non mette al centro una figura di donna, non ne sottolinea forse il primato?
In un momento nel quale praticamente il 100% dei membri di commissioni e comitati convocati per rispondere all’emergenza è costituito da uomini, e le facce delle istituzioni responsabili della gestione e della conta dei morti – la Protezione civile e l’Istituto superiore di Sanità – sono di uomini, questa immagine torna a dirci che no, la donna del disegno è (solo) un simbolo. La guerra del resto la fanno gli uomini: ce lo dicono i manifesti della propaganda interventista di cent’anni fa, e ce lo dicono le parole e i vocaboli bellici scelti per costruire retoricamente il racconto – anche iconografico – di quanto accade, perché sia riconoscibile da un’opinione pubblica terrorizzata dal contagio, obbligata dai decreti a restare chiusa per mesi in casa (sempre ad averla una casa), alla quale bisogna dar qualcosa attorno a cui stringersi.
È sempre intorno alla retorica della minaccia di una guerra, infatti, che si risveglia e si attiva il demone dell’identità nazionale – se ci sono gli “angels”, si deve ammettere che ci siano anche i demoni.
Non importa se ci troviamo nel 1915 o nel 2020, non importa che parli dalle cartoline postali o da Instagram, che sia incarnato in un leader novecentesco o si faccia avanti per bocca di qualche conduttore televisivo o spot commerciale, il demone dell’identità nazionale arriva nell’emergenza travestito da misure eccezionali; soffia sulle bandiere tricolore lasciate a scolorire alle finestre dall’ultimo campionato di calcio o flashmob sul balcone a supporto di qualche zona colpita dal terremoto o da un’inondazione mai risanata; risuona nell’inno nazionale cantato tra le lacrime dagli stessi balconi alle 18 suonate a scandire il lungo assedio della quarantena.
E così eccolo comparire di nuovo all’inizio di marzo, quando le autorità dichiarano prima singole regioni e territori, poi tutto lo Stivale, zona rossa della guerra alla pandemia. È comparso e ha fatto il suo lavoro senza sbavature: ha riattivato quell’immaginario e le sue decorazioni, i cori e gli slogan, tutti #hashtaggati come si conviene “ai tempi social del coronavirus”.
La difesa della patria e il sacrificio dei martiri, il valore degli eroi consacrato in versioni digitali di Memoriali-monumento, e l’eccezionale spirito di unità vengono invocati ed evocati da tutti i lati degli schieramenti politici – Siamo come in guerra, Questo è il nostro 11 settembre, Sapremo rialzarci come dopo la fine della guerra, Questa è una guerra in cui il nemico è invisibile e meschino, Onoriamo gli eroi in prima linea in questa guerra ecc.
Strano che a qualcuno di questi commentatori – tutti rigorosamente uomini – non sia venuto in mente di affermare anche qualcosa del tipo: Le nostre infermiere sono le moderne crocerossine della Grande guerra e simili. Ci si riunisce e ci si riconosce nel racconto di valori e ideali che il demone dell’identità nazionale torna a far apparire qua e là nei discorsi istituzionali come negli spot televisivi, nonostante i tentativi espressi da più parti di ricordare che questa pandemia non è una guerra.
E le donne in questa guerra? Le donne muoiono della cura che il demone dell’identità nazionale, della famiglia eteronormata, del modello di welfare statale che presuppone e sfrutta la predisposizione, anzi l’attitudine biologica ed emotiva delle donne alla gestione della famiglia – bambini, ammalati, anziani –, impongono loro quotidianamente.
Fin dai primi dati dell’inail sugli infortuni sul lavoro da covid-19, si parla di un 45,7% di denunce di contagi nella categoria dei tecnici della salute, di cui oltre tre casi su quattro sono relativi alle donne; categoria seguita dagli operatori socio-sanitari con il 18,9% di cui l’80% donne, poi i medici con 14,2% di cui la metà circa donne e gli operatori assistenziali con il 6,2%, a maggioranza di donne.
Nello stato di emergenza e di eccezione nel quale si vive in questi mesi, c’è qualcosa che invece funziona come sempre: la violenza contro le donne e la violenza di genere.
La differenza sta nel fatto che il demone dell’identità nazionale, come in ogni condizione emergenziale nella quale l’attenzione si concentra nello sforzo bellico, provvede a stendere un velo di invisibilità sulle cifre del fenomeno. Ma le morti violente e gli abusi subiti dalle donne continuano nelle stesse case in cui viene loro imposto di rimanere in stato di convivenza forzata e che sono la loro prigione e tomba per mano degli uomini: mariti, padri, partner.
È il caso di Viviana morta a 34 anni a Bergamo non per il contagio in una delle zone più rosse della Lombardia, ma perché picchiata brutalmente dal suo compagno. È il caso di Lorena, studentessa di Medicina, uccisa a 27 anni dal compagno infermiere, un eroe evidentemente perso alla patria.
Ecco che il demone dell’identità nazionale prende tutte queste donne vive, vissute e morte e di cui #nonsenecuraitalia e ne fa «un disegno che è un simbolo», un’allegoria, idealizzata e trasposta in un corpo aereo e alato che cinge i valori patri, i valori buoni per le emergenze che parlano con il linguaggio della guerra e del sacrificio di tutti che è poi la vita quotidiana di molte.
La predisposizione naturale alla cura, all’accudimento e al sacrificio di sé per gli altri della donna che «rappresenta meglio chi si prende cura di qualcuno, chi lo accudisce nei momenti di difficoltà e di bisogno» è, anche nel 2020 della pandemia, una condanna, un dato culturale suggerito e messo in circolazione come dato naturale, da una retorica – anche visuale e iconografica – maschile e maschilista, col vezzo della galanteria.
Cosa ci sia di naturale in un mezzo busto di donna alata che tiene in braccio una miniatura dell’Italia non è forse la domanda più adeguata da porsi di fronte a fenomeni culturali come quello che si è provato ad interpretare qui.
E forse nemmeno quella che, accettando la dimensione simbolica del disegno, potrebbe chiedere al popolo dei followers: non è naturale allora che un uomo, per quanto alato e idealizzato, tenga in braccio un essere da accudire, da curare? Non è altrettanto naturale associare la paternità al corpo dell’uomo e al gesto dell’abbraccio? O forse la paternità non si misura con la cura e la carezza ma, ancora nel 2020, con la forza, il coraggio, l’eroismo – magari nel disegno di un uomo con la divisa della Protezione civile che porta sulle spalle la miniatura dell’Italia avvolta nella bandiera?
E allora, forse, potrebbe essere più adeguata la domanda che chiede se nel 2020 sia ancora, come cent’anni fa, necessaria quest’attrezzatura retorica e iconografica che fa perno sul corpo maternizzato e martirizzato della donna per comunicare i valori civili e democratici della Repubblica italiana, fondata sul diritto all’eguaglianza, al lavoro e alla salute anche “ai tempi del coronavirus”?