All’epoca della terziarizzazione

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10 Luglio 2019

Con la chiusura della Whirlpool a Napoli tramonta la produzione di manufatti

Volevano il vertice della multinazionale al tavolo, volevano guardarlo in faccia, osservarlo bene mentre decretava la sorte di 420 lavoratori dello stabilimento di Napoli, più circa 200 dell’indotto mono commissione dell’avellinese, e i 60 del casertano.

Lo hanno preteso, lo hanno avuto, ha parlato, non lo hanno capito. Non lo hanno compreso perché ha parlato in inglese, tanto è bastato affinché il ministro Di Maio fraintendesse con un “non c’è mai stata l’intenzione né della chiusura, né del disimpegno da parte della multinazionale” quello che il luogotenente della multinazionale su Napoli ha dovuto esplicitare in italiano e quindi con maggior chiarezza: “a Napoli siamo in perdita, non bastano gli incentivi”.

Fino ad allora, agli appuntamenti precedenti, il titolare dei dicasteri del Lavoro e dello Sviluppo economico aveva parlato come un sindacalista di prima formazione mentre i sindacati, a fasi alterne e con piccole sfumature, a secondo dell’organizzazione di appartenenza, aprivano e chiudevano come una fisarmonica a prospettive di terziarizzazione per lo stabilimento e i lavoratori napoletani.

A rendere tutto più chiaro Carlo Calenda, autoproclamatosi ministro ombra nel ludico esercizio di mostrarsi più autorevole di un evanescente Di Maio (non ci vuole molto), spiegava sulla propria bacheca facebook quella che dovrebbe considerarsi la massima aspirazione per i lavoratori di via Argine: “Whirlpool cederà l’impianto all’imprenditore identificato, terrà una quota e lo aiuterà. Quello che voleva fare dall’inizio, il resto è sceneggiata. Ciò detto non c’erano oggettivamente alternative e adesso occorre valutare la solidità del business plan”. Esercizio di realismo tetro, terrificante, perché il ricorso ai “terzisti” è storia di lenta dismissione pagata quasi sempre dal contribuente.

 

A partire dalla Danone sul finire degli anni Novanta, fino alle recenti storie dell’Alcatel di Battipaglia o della Jabil (ex Ericson) di Marcianise il nostro territorio è una epistassi industriale che sembra inarrestabile. Napoli non ha più una zona industriale, Bagnoli è una spianata con qualche sporadica start up, l’area orientale un deposito a disposizione della logistica per container a ridosso del porto. A Napoli il manifatturiero è quasi estinto.

 

 

Non se la passano meglio nel resto dell’Europa. In Francia ad esempio, tra gli stessi ex impiegati della multinazionale Whirlpool.  Ad Amiens, città di 130mila anime nel nordest transalpino, la multinazionale in questione fabbricava lavatrici e asciugatrici, nel 2002 ha delocalizzato la produzione in Slovacchia perché il personale francese incideva il 12% sui costi di fabbricazione contro il 2% degli slovacchi.

Sedici anni più tardi la mazzata: il terzista locale Nicolas Decayeux preleva lo stabilimento e fonda WN (che sta per Whirlpool Nicolas, sic!), la multinazionale liquida  la propria responsabilità sociale contribuendo con 45mila euro per ogni operaio riassunto e Macron regala dalle casse di stato 4 milioni di euro.

Sono assunti di nuovo 162 gli operai sui 282 precedentemente impiegati con l’impegno di recuperare i livelli occupazionali nel giro di due anni. La multinazionale avrebbe contribuito fornendo know how per una missione produttiva in continuità perché si andavano a produrre armadietti e bagagli refrigerati per l’ultimo miglio della filiera distributiva e mezzi di trasporto elettrici per chi non ha la patente: la WN Lander.

Macron ha tagliato il nastro della ripresa dei lavori, dopo un anno Libération riferisce che nulla dei beni prodotti è stato mai venduto, stabilimento oggi chiuso e governo francese costretto a pagare  la disoccupazione a chi oggi non ha più mansioni.

 

In Cracking, romanzo di Gianfranco Bettin, recentemente uscito per Mondadori, la  dismissione del polo industriale di Porto Marghera viene così raccontata:

Era l’epoca delle grandi ristrutturazioni che, ogni volta, comportavano tagli di posti, chiusure di reparti. La proprietà veniva spezzettata e cambiava di continuo. Si firmavano accordi con una controparte che poi cedeva la sua quota ad altri e quindi spariva, mentre i subentranti non si sentivano vincolati dagli accordi sottoscritti in precedenza. La proprietà pubblica diventava privata e poi di nuovo pubblica e poi partecipata tra pubblico e privato e poi multinazionale e poi più niente, si chiudeva e basta. Era diventata un’area di crisi: il rischio ambientale, il rischio sanitario, il rischio del licenziamento. E spesso era quest’ultimo a essere temuto di più. Almeno finché potevi non pensare alla salute.

L’attuale governo, in continuità con i precedenti si limita ad ammortizzare le difficoltà dei lavoratori in esubero. L’attuale governo, in continuità con i precedenti, non ha la più pallida idea di come si possa rilanciare le attività produttive o di come si possano arginare  iniziative predatorie da parte di pseudo imprenditori senza scrupoli. Spesso, anzi, l’attuale governo, in continuità con i precedenti,  se ne rende complice finanziando opere di terziarizzazione.