18 Maggio 2020
Il virus ha messo a nudo le contraddizioni di un sistema basato su precarietà ed esclusione
Molte persone sono convinte che il COVID19 sia un grande livellatore sociale perché può colpire potenzialmente chiunque. In realtà è vero il contrario: ha messo a nudo le contraddizioni di un sistema basato sulla precarietà e l’esclusione, dove alcuni gruppi sociali sono comunque molto più colpiti di altri, paradossalmente anche senza venire infettati. Si tratta di contraddizioni che in alcune regioni del mondo, ad esempio in America latina, in assenza di reti di protezione sociale si manifestano in maniera particolarmente drammatica.
La caratteristica del COVID19 é contraddittoria. Da un lato, a differenza di altre malattie ed epidemie provocate da virus, batteri o parassiti, non è circoscritta quasi esclusivamente ai paesi del sud del mondo come lo sono, ad esempio, la dissenteria, che uccide annualmente almeno un milione e mezzo di persone, oltre un terzo delle quali bambini minori di cinque anni, soprattutto in Africa; oppure la tubercolosi, la malaria, il dengue, la chikungunya, la febbre di lassa o l’ebola – malattie che la maggioranza delle persone in Europa neppure conoscono – ma che complessivamente uccidono almeno altri due milioni di esseri umani.
No, il COVID19 non é rimasto relegato ad aree distanti o dimenticate. Ha colpito (anche) noi.
Da qui il grande equivoco, che si sia tutti coinvolti. A prima vista può sembrare vero, perché effettivamente il COVID19 può colpire chiunque in qualsiasi paese del mondo. Se però approfondiamo l’analisi, appaiono innumerevoli differenze. Perché è altrettanto evidente che la pandemia non colpisce tutti allo stesso modo.
Alcune differenze sono ovvie: esiste il triste fenomeno della mortalità in relazione all’età o alle patologie pregresse dei malati; la differente intensità della sintomatologia dei pazienti, oppure la notevole variabilità della qualità delle cure, non solo a livello di singoli Stati ma, spesso, anche all’interno dello stesso paese.
Oltre alle variabili relative alla condizione del paziente e del servizio sanitario, esistono però altre differenze rilevanti che dipendono, da un lato, dalla latitudine di residenza e, dall’altro, dal gruppo sociale di appartenenza.
Per le famiglie che vivono in condizioni socio economiche che possono essere garantite, anche senza essere particolarmente abbienti, che nel mondo occidentale avanzato sono ancora (fortunatamente) la maggioranza, se qualcuno di loro non si ammala gravemente, il lockdown determinato dal virus passa via come una pur forte scocciatura.
Certo il malessere aumenta passando i giorni più o meno chiusi in casa, magari in appartamenti non molto grandi, con i figli che non vanno a scuola, le file per la spesa al supermercato, l’uso della mascherina ed altre limitazioni.
Magari anche la cassa integrazione e certo molte preoccupazioni per il futuro. Ma tutto sommato, per la maggioranza delle persone nei paesi occidentali, diciamo almeno il 70%, in linea di massima, se non si soffrono dei lutti, il COVID19 ha rappresentato sinora sostanzialmente solo un periodo critico, forse il più critico vissuto socialmente. Che però come altre crisi si spera passi presto.
Per altre famiglie, costituite da persone che provenivano da precedenti situazioni di vulnerabilità a causa di lavori precari e mal retribuiti, attività in “nero” o occupati in settori particolarmente colpiti dagli effetti economici del lockdown provocato da COVID19, circa il 30% delle famiglie nei paesi occidentali avanzati, la situazione è certamente molto più difficile. Spesso drammatica.
Anche per loro però, in Europa e negli altri paesi del nord del mondo esiste comunque (per fortuna esiste ancora) una rete di supporto, ammortizzatori sociali e una diffusa rete di solidarietà del volontariato, che assicura la sussistenza ed evita almeno la fame e, nella maggioranza dei casi, anche la disperazione.
Nei paesi del sud del mondo succede invece esattamente il contrario. Non è la maggioranza della popolazione che può sentirsi comunque almeno protetta, ma è la maggioranza che, letteralmente allo sbaraglio, soffre la crisi sanitaria e la crisi economica derivante dalla sospensione delle attività dovute al lockdown provocato dal COVID19.
In America latina, ma lo stesso discorso vale sostanzialmente per tutte le aree del sud del mondo, il COVID19 ha infatti scoperto tutte le contraddizioni di una società che si basa sulla precarietà. Da un lato la precarietà di un sistema sanitario senza risorse a causa di investimenti minimi, in media inferiori al 4% del PIB, che corrispondono appena a circa US$ 1.000 annuali per abitante – spesso meno – nella maggioranza dei paesi della regione.
Sistemi sanitari che in molti casi non sono neppure in condizione di offrire i servizi essenziali alla popolazione più vulnerabile, che ovviamente si sono presentati alla sfida con la pandemia sguarniti di qualsiasi strumento per farle fronte.
Per citare un esempio di tale situazione, al momento di iniziare ad affrontare COVID 19 il Perù poteva contare con appena 250 ventilatori per una popolazione di oltre 30 milioni di abitanti. La Lombardia, con 10 milioni di abitanti – pur non preparatissima -all´inizio della crisi ne contava oltre 700.
Ma la precarietà del sistema non si limita ai servizi pubblici. È la precarietà della vita quotidiana. È la precarietà e informalità del lavoro per la grande maggioranza della popolazione latino americana.
Secondo dati aggiornati della Banca Interamericana di Sviluppo (BID) almeno il 60% della forza lavoro dei paesi della regione – oltre 140 milioni di persone – erano occupate nei settori informali prima dell’inizio della pandemia. In paesi come il Perù questa percentuale superava il 70%.
Si tratta di milioni di persone occupate in micro imprese, venditori ambulanti, titolari di piccole attività commerciali o di servizio, attività agricole, domestiche, lavandaie, uomini di fatica, lustrascarpe, operai, manovali e una miriade di altre occupazioni che non contribuiscono al sistema con il pagamento di tasse e contributi. Ma che nello stesso tempo non ricevono neppure nulla dallo Stato: nessun diritto all’assistenza sanitaria, alla sicurezza sociale, agli ammortizzatori social e, ovviamente, a una pensione.
Sono persone migranti dalle zone rurali, arrivate a milioni poverissime nelle grandi metropoli come Lima negli ultimi 30 anni a causa della violenza, dei disastri naturali e dell’abbandono delle zone agricole che caratterizzano l´America latina.
Si tratta di lavoratori e addirittura a volte titolari di piccole unità economiche che con sacrificio e spesso in condizioni estreme di difficoltà svolgono attività che con frequenza riescono anche ad assicurare un reddito che supera la soglia della povertà.
Anche quando superano la soglia di sussistenza sono però categorie sociali estremamente vulnerabili. Per la loro condizione di informalità e l’assenza di reti sociali di protezione corrono infatti permanentemente il rischio di (ri)cadere nella povertà di fronte a qualsiasi circostanza che possa interrompere il ciclo quotidiano delle attività, anche solo per pochi giorni.
È in questo contesto che il COVID19 é entrato a disintegrare questi gruppi sociali come uno tsunami. Pur contando con azioni di supporto promosse per evitare la rivolta sociale, come ad esempio i bonus di sussistenza e la distribuzione puntuale di alimenti di emergenza distribuiti dal Governo peruviano, rispetto alla dimensione problematica questi limitatissimi contributi non rendono la situazione sociale dei paesi latino americani meno drammatica e potenzialmente esplosiva.
La drammaticità della situazione si vive soprattutto nelle città dove, dopo una resistenza più o meno passiva al lockdown durante le prime settimane, sono andate progressivamente evidenziandosi scene sempre più emblematiche di disperazione tra la popolazione.
In Perù, ma anche in altri paesi della regione, da alcune settimane si sono iniziate a vedere sempre più spesso bandiere bianche, le c.d. bandiere della fame, attraverso le quali le famiglie evidenziano la mancanza di cibo. Queste bandiere, esposte inizialmente alle finestre delle baracche dell’immensa periferia di Lima, negli ultimi giorni si iniziano a vedere sempre più numerose anche nei quartieri popolari delle zone centrali della città, a dimostrazione del progressivo peggioramento delle condizioni di vita di sempre più strati sociali della popolazione.
Ormai da parecchi giorni, famiglie intere rimaste senza soldi per pagare l´affitto e sostenere le spese in città, a causa della mancanza di lavoro, stanno lasciando le case in cui vivevano a Lima per mettersi in cammino verso le comunità rurali delle province di origine, dalle quali probabilmente i padri e forse i nonni se ne erano andati molti anni prima per cercare un futuro migliore nella capitale.
Si tratta di un fenomeno incredibile di emigrazione al contrario realmente credo mai visto, se non nel caso dei bombardamenti durante la guerra. Queste persone, a fronte del divieto assoluto di circolazione dei veicoli imposto dal governo peruviano, preoccupato anche del fatto che l’epidemia si possa diffondere dalla capitale verso i centri minori, si mettono in cammino a piedi, disposte se necessario a percorrere centinaia di chilometri.
Sino al momento sono state censite nei centri di identificazione oltre 170 mila persone, ma secondo alcune fonti le persone in cammino sarebbero già quasi mezzo milione.
Il COVID19 come tutto un giorno passerà. La maggioranza di queste famiglie torneranno. Starà a tutti noi – e anche a loro – finalmente prendere coscienza. Fare in modo che le contraddizioni messe a nudo dalla pandemia vengano, almeno in parte, risolte. Se così fosse questo maledetto COVID19, oltre ad aver portato tanto dolore, sarebbe almeno servito a qualcosa.