4 Maggio 2020
In un contesto regionale che viveva grandi e profonde rivolte, l’emergenza sanitaria è stata utilizzata dalle istituzioni per restringere ancora gli spazi del dissenso
L’America Latina sta vivendo questa pandemia con molte preoccupazioni, che non si fermeranno certo alla fine dell’attacco del virus.
Il 2019 poteva essere definito come l’ennesimo risveglio di vari paesi, con le grandi mobilitazioni in Nicaragua, Ecuador, Colombia e Cile che hanno scosso gli “insani” equilibri presenti in quei paesi, mentre in Bolivia, Brasile e Venezuela la situazione politica si è fatta sempre più complessa. Un contesto sempre particolare e singolare è rappresentato dal Messico.
Secondo il rapporto 2019 di Amnesty International, ben 208 attivisti sono state uccisi per il loro impegno nella difesa dei territori e, invece, sul fronte delle proteste, riporta sempre Amnesty, sono state 210 in tutta l’America Latina le persone che hanno perso la vita durante le mobilitazioni più accese, registratesi in particolare in Cile, Haiti e Honduras.
La repressione, il coprifuoco e gli eserciti in strada in molti casi erano già presenti, ma adesso tutto ciò viene “rafforzato” e amplificato a causa della pandemia. Ormai possiamo affermare che solo con il tempo capiremo che ne sarà delle libertà in America Latina.
Intanto l’attacco del virus vede alcuni paesi particolarmente sotto pressione come Brasile, Perù, Ecuador, Cile, Messico e Panama, che hanno il maggior numero di infetti in proporzione al numero di abitanti. Questa singolare dinamica globale della reazione alla diffusione del COVID-19 sta diventando sempre più un teatrino, in cui ogni paese viene colto alla sprovvista nonostante gli avvertimenti dell’OMS. Centro e Sud America non fanno eccezione, purtroppo.
A rischio diventa la tenuta socio-economica dell’intera America Latina, dove secondo l’ILO ci sono 140 milioni di lavoratori informali che, nella maggior parte dei casi, se non lavorano in strada oggi, non mangiano domani. Ma i governi non sembrano avere altra ricetta che militarizzare il territorio e tutelare gli interessi economici delle grandi imprese.
“La reazione al Covid 19 in Cile è alquanto ambigua” – ci spiega A.C., un’attivista cilena. “Da un lato le bugie del governo vengono diffuse alla velocità della luce su tutti i mezzi di comunicazione, dall’altro la macchina produttiva non smette di funzionare senza rallentare nemmeno per un momento. Tutto questo accompagnato dai fucili dei militari durante il coprifuoco, che servono solo a proteggere la proprietà privata delle grandi catene di supermercati dalle 22 alle 5 del mattino, per almeno 90 giorni, sotto la minaccia di presunti saccheggi che adesso appaiono come un lontano ricordo dei mesi del risveglio dei cileni”, conclude A.C.
Anche militarizzare paesi come Colombia e Messico significa assumersi il rischio consapevole dell’incremento dei crimini contro la persona. La storica connivenza tra gruppi paramilitari o narcos con le forze dell’ordine è ormai tristemente nota, così come la percezione della popolazione che ripone sempre minore fiducia in queste ultime.
In Colombia dal 6 marzo, quando è stata certificato il primo caso di COVID-19 nel Paese, sono stati uccisi 13 leader sociali e 4 ex combattenti delle FARC, a cui va aggiunta la strage perpetrata nelle carceri il 23 marzo, che ha causato 23 morti e 83 feriti. Va sototlineato che in tutta l’America del Sud, secondo i dati a dispisizione a inizio aprile, sono state 40 le persone decedute nelle prigioni, mentre non si hanno dati certi sulla diffusione del virus nell’ambito della popolazione carceraria.
Tornando alla martoriata Colombia, una delle situazioni più critiche si registra nella regione della Guajira, al confine con il Venezuela. Lì le comunità wayuu e afrodiscendenti colombiane hanno bloccato le strade della per protestare contro l’inazione del governo, subendo la violenta repressione delle forze dell’ordine. La storica carenza d’acqua potabile della regione, l’impennata dei prezzi del cibo e l’impossibilità di lavorare informalmente – come riferisce S.A., leader comunitario afrodiscendente – “sembra a molti guajiros l’ennesimo segnale di abbandono da parte dello Stato”.
Quello Stato che ha concesso alla Cerrejon Coal, di proprietà delle multinazionali occidentali BHP, Glencore e Anglo American, la gestione di 68mila ettari di terra e l’uso dei pochi corsi d’acqua per estrarre il carbone di cui è ricco il sottosuolo della regione. La mancanza ormai cronica di risorse idriche è stata risolta con una sorta di elemosina da parte delle autorità: quantità di acqua e cibo insufficienti che finiscono solo per dividere ancor di più comunità allo stremo.
Tutti questi questi rischi sono calcolati? Quello che in America Latina ha già preso il nome di “Colonia Virus”, sta mostrando il lato più oscuro della maggior parte dei governi locali.
Questo virus sembra veramente il prodotto dell’estrattivismo e della globalizzazione. È figlio dell’accellerazione delle merci e delle persone, si annida nelle disuguaglianze sociali ed economiche, amplificandole. E il rischio è che in molte parti del mondo tutto cambierà, ma in peggio.
*Filippo Taglieri è un ricercatore di ReCommon