“La mancanza in inglese di un pronome di terza persona singolare che sia neutrale, ha portato molti autori a utilizzare “he” (lui) per rendere questa idea. […] L’utilizzo di “he” solo per i ruoli in cui, nella cultura occidentale, vediamo una prevalenza di uomini suggerisce che le donne non possano assumere tali ruoli; trovo questa insinuazione inaccettabile. Per citare il New Oxford Dictionary of English, l’utilizzo di he per riferirsi a soggetti dal sesso non specificato è diventato un segno distintivo di un linguaggio arcaico o sessista. Gli autori sono diventati sempre più sensibili a questo argomento […] e una soluzione comune è stata quella di utilizzare piuttosto il pronome plurale “they” (loro) […]. Questa alternativa può creare ambiguità; inoltre non sempre suona molto naturale. Io ho scelto un’altra soluzione. Uso esclusivamente “she” (lei). Ovviamente questa scelta, come quella di usare “he”, non è neutrale; tuttavia potrà forse controbilanciare il diffuso uso di “he”, e in ogni caso non mi sembra che provochi alcun danno”.
Queste parole, in calce all’introduzione del manuale di teoria dei giochi del professor Martin Osborne, potrebbero portare qualcuno ad alzare gli occhi al cielo o, quantomeno, a sorridere.
Come quando l’Accademia della Crusca propone l’ennesima femminilizzazione di sostantivi tipicamente maschili o un qualche giornalista presenta Virginia Raggi come “sindaca” di Roma.
Le solite paturnie da femministe, come se il rispetto venisse dalla declinazione del sostantivo, o dall’utilizzo di un pronome piuttosto che di un altro. In fondo le parole sono solo parole.
Eppure, istintivamente lo sappiamo che le parole contano. E se le parole hanno un’influenza su come costruiamo le nostre strutture sociali allora anche il fatto di utilizzare prevalentemente pronomi e sostantivi maschili ha effetti sulla posizione delle donne nella società e sul bilanciamento dei poteri tra i sessi.
È la tesi di tre studiosi di Yale, April Bailey, Marianne LaFrance e John Dovidio, sostenuta nel loro articolo Is Man the Measure of All Things? A Social Cognitive Account of Androcentrism, uscito all’inizio del 2018 su Personality and Social Psychology Review.
Lo studio sostiene l’influenza dell’androcentrismo, quello che per Simone De Beauvoir era il fenomeno culturale per cui gli uomini sono trattati come umani e le donne come qualcos’altro, sulle strutture sociali, i bias psicologici e linguistici.
È interessante notare che la visione androcentrica del mondo non coinvolge necessariamente l’idea esplicita della superiorità maschile, ma va da sé che considerare i maschi come migliori rappresentanti del genere umano conferma il dislivello di potere nella società.
Aspetto centrale dell’androcentrismo è l’esasperata caratterizzazione delle donne con il loro sesso, anche in aree e situazioni dove la distribuzione di uomini e donne è pressoché uguale. Agli uomini, per contro, non viene applicata nessuna specificità sulla base del sesso, e di conseguenza sono visti come un gruppo più “generico”. Questo concetto viene chiamato default male hypothesis.
L’androcentrismo è estremamente radicato nel modo in cui la nostra cultura vede e classifica il mondo, e di conseguenza ha influenza sul nostro modo di pensare e classificare la realtà che si circonda.
Secondo diversi studi citati nel paper è emerso che, ad esempio, gli uomini sono più presi in considerazione delle donne per rappresentare categorie inclusive. Esempio calzante è che in molte lingue si usi il maschile plurale per parlare di gruppi misti, un fenomeno chiamato maschile generico.
Come poche righe sopra, quando ho scritto “gli studiosi” quando di fatto di studioso ce n’è solo uno: le altre due sono donne.
Il linguaggio, tuttavia, non è l’unico canale attraverso cui si manifesta questa tendenza. Infatti, soggetti coinvolti negli esperimenti sull’androcentrismo tendono anche ad usare più frequentemente immagini maschili per indicare gruppi che sono in realtà inclusivi.
Questa tendenza emerge anche al contrario, ovvero i partecipanti agli studi associano più facilmente un’immagine maschile che una femminile quando si parla di gruppi misti. Nello specifico, i soggetti tendevano ad abbinare immagini di uomini invece che di donne alla parola “gente”.
Un altro elemento emerso da ricerche sull’androcentrismo è che quando alle persone viene chiesto di stilare una lista di soggetti di un gruppo misto, la tendenza è quella a mettere i nomi degli uomini per primi.
Infine, esiste l’attitudine generalizzata ad estendere a tutto il gruppo le informazioni relative agli uomini. Questo si nota particolarmente nella letteratura accademica, dove per anni gli studi di psicologia hanno utilizzato campioni di soli uomini senza che questo impedisse ai loro autori di generalizzare i risultati a tutta la popolazione. Ancora oggi, seppure i campioni siano scelti in modo più accurato e misto, gli studi che includono solo partecipanti femminili si riconoscono già dal titolo, come a voler avvisare il lettore della loro specificità, al contrario di quello che succedeva nel caso di studi esclusivamente maschili.
Le cause dell’androcentrismo non saranno una novità per molti di noi, ma vale la pena comunque evidenziarle. Gli autori del paper ne identificano principalmente quattro.
Causa numero uno: in proporzione siamo più esposti a esempi maschili che femminili. Seppure a livello numerico i due gruppi siano all’incirca di uguali dimensioni, gli uomini sembrano più numerosi perché sono più visibili. Non ditemi che siete sorpresi. Storicamente le donne sono state relegate nella sfera privata mentre gli uomini si sono riservati (e l’hanno difesa anche abbastanza bene) quella pubblica. Ne volete la prova? Guardatevi le foto dell’ultimo summit del G20, o scorrete i nomi dei giudici della corte costituzionale italiana o del senato statunitense. E giusto per dovere di cronaca, il fenomeno per cui gli uomini sono generalmente più rappresentati delle donne nelle istituzioni, nei canali di comunicazione e nei media si chiama “annientamento sociale”.
Causa numero due: gli uomini sono più visibili perché catturano di più l’attenzione. Questo sia per una questione fisica (hanno una corporatura più massiccia) che per una questione psicologica (in generale ci sentiamo più minacciati da un uomo che da una donna). Questa affermazione a può sembrare una generalizzazione gratuita, un credere che tutti gli uomini siano dei buzzurri ingombranti e potenzialmente pericolosi. Sappiamo che non è così. Tuttavia non possiamo negare che secoli di inculturazione maschilista hanno lasciato qualche segno ben visibile.
Causa numero tre: gli uomini sono considerati più “tipici” del genere umano perché i tratti che nell’ideale comune li caratterizzano sono considerati la normalità, il giusto. Studi hanno dimostrato che, nonostante i tratti tipicamente percepiti come femminili (quelli più legati alla moralità e alla socialità) vengano considerati positivi dai soggetti, essi non vengono considerati altrettanto desiderabili. Del resto non c’è da stupirsi. Il contesto culturale tende a prediligere i tratti maschili di forza, aggressività e potere: sono quelli che muovono il mercato e tutte le altre mani invisibili che manovrano i fili della nostra società. Sono gli attributi “giusti” da avere per sopravvivere. Qualunque donna lavori in un contesto prevalentemente maschile sa di cosa sto parlando.
Causa numero quattro: i tratti maschili sono più socialmente accettati, anche in un’ottica trasversale. Ovvero, le donne hanno più margine di manovra per poter adottare attributi maschili di quanta non ne abbiano gli uomini per poter adottare attributi femminili. Questo è sicuramente un ambito su cui potrebbe aprirsi un dibattito infinito. È però innegabile che una donna che si comporta da uomo soffre molto meno ostruzionismo sociale di un uomo che si comporta da donna. In qualche modo le regole legate al proprio genere sono più labili per le donne che per gli uomini, e questo porta ad un rafforzamento della visibilità degli attributi maschili nella società.
Gli autori concludono dicendo che una delle “cure” possibili per questa tipicità maschile del genere umano altro non sarebbe che rendere più visibili le donne, controvertendo le quattro cause che abbiamo discusso sopra.
Ovviamente noi nel nostro piccolo non possiamo rovesciare istituzioni o cambiare le strutture del linguaggio. Possiamo però diventarne consci, tanto per cominciare, rendere le donne più visibili nei modi che ci competono, incoraggiare gli uomini che si sentono di assumere attributi femminili o magari, come il professor Osborne, smetterla di usare il maschile generico se non è strettamente necessario. Fidatevi. Non provocherete alcun danno e forse chissà, sarete anche agenti del cambiamento.