Argentina, game over

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19 Agosto 2019

Il fantasma della crisi incombe di nuovo sul paese latino-americano

“Game Over”. Con questo titolo il Financial Times ha reso pubblico il verdetto dei poteri finanziari internazionali sul governo di Mauricio Macrì in Argentina.

Lo ha fatto dopo la strepitosa, e forse inattesa, batosta ricevuta dalla coalizione di centrodestra da lui guidata, alle elezioni primarie di domenica 11 agosto scorso.

E la notizia ha subito avuto le sue ripercussioni. Macrì, infatti, era considerato il candidato dei mercati, l’unico in grado di ottenere il beneplacito di banche e investitori internazionali per mantenere l’Argentina a galla. Eppure, gli ultimi comizi hanno scatenato una crisi di legittimità ormai nell’aria da tempo.

I big dell’economia si sono fatti sentire il giorno dopo le elezioni primarie col pesante crollo della borsa di Buenos Aires e la drastica svalutazione del peso. Il risultato: un governo in bilico e un’economia sul punto del tracollo. Di nuovo. Ma come si è arrivati a una situazione così drammatica?

La fine del programma neoliberista di Macri

Secondo la legge elettorale argentina tutti coloro i quali vogliano essere candidati a una carica elettivo devono prima essere confermati alle Primarie Aperte Simultanee e Obbligatorie (PASO). Per candidarsi ad ottobre devono essere stati votati da almeno l’1,5% degli aventi diritto e tutti i partiti sono tenuti a dirimere divergenze interne e per scegliere i propri candidati.

Tutte le coalizioni a livello nazionale hanno presentato lo scorso 11 agosto una sola proposta, trasformando le primarie in una grande simulazione del voto per le presidenziali del 27 ottobre prossimo.

La lista dell’opposizione peronista del Frente de Todos, capeggiata da Alberto Fernandez e l’ex presidente Cristina Fernández de Kirchner come sua vice, ha ottenuto più del 47% dei voti, contro il 32% di Juntos por el Cambio, la coalizione di governo.

In Argentina, se un candidato a presidente ottiene più del 40% dei voti e una differenza maggiore a 10 punti percentuali rispetto al secondo, o supera il 45%, vince l’elezione senza bisogno di secondo turno. Pochissimi credono dunque in una possibile rimonta. E, a quanto pare, nemmeno i poteri finanziari che restano dubbiosi sul ritorno del peronismo ma non credono più nel presidente attuale.

Macrì era arrivato al potere nel 2015 presentandosi come una alternativa “di buon senso” al centrosinistra “populista” che governava il paese da dodici anni. Sostenuto dai potentissimi settori dell’agrobuisness e della finanza, con l’appoggio dei partiti conservatori delle diverse provincie argentine, Macrì ha sostenuto il proprio governo con un discorso liberal-repubblicano e una politica economica nettamente neoliberale.

Appena arrivato al potere ha aperto il mercato di valute, ridotto la spesa pubblica, riformato le pensioni, abbassato le barriere all’importazione di prodotti industriali.

Insomma, misure che hanno beneficiato i settori più potenti dell’industria e dell’agro, e che hanno avuto durissime conseguenze sui ceti medi e bassi.

La svalutazione del peso (nel 2015 ci volevano 14 pesos per comprare un dollaro oggi ce ne vogliono 60), l’inflazione (attestata intorno al 55% fino alle elezioni PASO ma in rialzo topo il tonfo post-elettorale), il crollo dell’attività industriale (-10,9% da un anno all’altro) l’altissimo tasso d’interesse (al 74% annuo, il più alto del mondo), hanno provocato un aumento siderale della povertà (34% della popolazione, 48% tra 0 e 17 anni secondo Unicef) e della disoccupazione (10,1%, il più alto dopo la ripresa della crisi del 2001).

Il modello economico di Macrì si basava inoltre sulla fiducia che un governo market-friendly avrebbe ricevuto dagli investitori di tutto il mondo, e la conseguente “pioggia di investimenti” internazionali avrebbe accelerato la ripresa.

Nulla di tutto ciò è accaduto, ed anzi il governo ha chiesto aiuto al Fondo Monetario Internazionale, che a giugno 2018 gli ha concesso il pacchetto stand-by più grande della storia dell’organismo, di 57 miliardi di dollari. Il governo ha già ricevuto il 90% di quei fondi e li ha usati principalmente per mantenere il prezzo del dollaro e pagare interessi esorbitanti al sistema finanziario.

Come nel 2001? Insomma, se l’Argentina prima dell’11 agosto non dava troppi segni di solidità, dopo la sconfitta del governo l’incertezza la fa da padrona. Poche ore dopo il voto dei cittadini, è toccato ai mercati votare. I titoli delle aziende argentine sono crollati immediatamente, toccando un picco di -48% (il secondo crollo più grande del mondo negli ultimi 70 anni dopo quello dovuto alla guerra civile in Sri Lanka nel 1989) chiudendo poi a -38%.

Il peso ha perso il 32% del suo valore: se venerdì 9 agosto un dollaro si poteva comprare per 46 pesos, lunedì 12 bisognava spenderne 62.

L’Argentina è estremamente sensibile agli sbalzi di valuta. Il prezzo di quasi tutto ciò che esporta è regolato in dollari nella piazza di Chicago; dalla seconda metà del XX secolo i beni durevoli nel mercato quotidiano si esprimono in dollari; le continue svalutazioni del peso hanno portato gli argentini a scegliere il dollaro per i propri risparmi. Insomma, l’aumento della moneta statunitense provoca un aumento quasi immediato dei prezzi al supermercato, e un vero e proprio terremoto nell’economia domestica.

Per le strade si sono riproposte nuovamente scene che sembravano copiate dalle drammatiche crisi economiche del 1989 e del 2001. Mercati e fornitori chiusi, in attesa di avere un valore stabile del dollaro e così ristabilire i prezzi. Alcuni negozi di elettrodomestici hanno sospeso le consegne ai loro clienti con le scuse più stravaganti pur di non vendere prodotti a prezzi vecchi (di un un paio di giorni).

Per cercare di lenire gli effetti immediati della crisi, il governo ha varato una serie di misure straordinarie: azzeramento dell’IVA sul paniere alimentare basico, congelamento dei prezzi della benzina e bonus salariali che oscillano tra i 2mila e 5mila pesos mensili fino a dicembre. Tutte misure che creano un deficit fiscale di 50 miliardi di pesos (circa 800 milioni di dollari) e che contraddicono gli impegni presi col Fondo Monetario, che esige riduzione delle spese via riforme del lavoro e delle pensioni.

La prossima revisione dei conti da parte dell’FMI è prevista per il prossimo 15 settembre, e lo spauracchio di un rifiuto a elargire l’ultima parte degli aiuti come nella crisi del 2001 è tornato alle prime pagine dei giornali, anche se il bisogno di preservare la carriera politica dell’ex presidente del FMI, Christine Lagarde, e prossima presidente del Banca Centrale Europea potrebbe aiutare a ammorbidire la decisione. Insomma, i mercati internazionali hanno abbandonato Macrì, ma non hanno ancora abbracciato Fernandez, facendo sprofondare il paese nell’incertezza per almeno due mesi.

Eppure, la parola default è nella testa di tutti. Lo stesso Fernandez lo ha spiegato bene: oggi l’Argentina non può pagare i propri debiti. Secondo dati ufficiali sono circa 324 miliardi di dollari, l’89% del Pil, a cui si aggiungono le restrizioni imposte dal proprio FMI.

Una situazione angosciante, in cui media e mercati chiedono a Fernandez di rassicurarli anticipando le sue posizioni in quanto “futuro presidente”.

Dal punto di vista politico istituzionale, la situazione è quasi da realismo magico: un presidente-candidato ormai orfano del suo potere, ma in carica, e un candidato-presidente da cui ci si aspetta di tutto ma che non può firmare nessuna misura di governo.

A differenza del 2001, inoltre, i movimenti sociali sono oggi molto più legati alle vicende istituzionali ed elettorali.

Se 18 anni fa per le strade sconvolte di Buenos Aires si gridava que se vayan todos, oggi circolano via reti sociali e whatsapp severi ammonimenti per coloro che vogliono scendere in piazza a denunciare le politiche di governo, perché potrebbero compromettere la campagna di “Alberto”.
Che nel frattempo qualche cenno ammiccante ai mercati l’ha fatto.

Per ora, quindi, le mobilitazioni si limitano a denunciare l’insufficienza delle misure palliative di Macrì, ma badando bene di non assumere un carattere “anti-sistema”.

Su questa strada l’Argentina si appresta a vivere una campagna elettorale più simile a un calvario che a una discussione politica sul futuro del paese. Alcuni alleati del presidente hanno anche proposto di anticipare le elezioni per evitare maggiori sofferenze, ma Macrì ha riaffermato la sua determinazione nel cercare di rimontare il risultato avverso. Ma per ora sta solo sprofondando sempre più.