Attivismo ambientale on the road

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23 Febbraio 2022

The Climate Route lo fa per il clima, dalle Dolomiti alla Siberia

Agire oggi per un domani che solo in parte sarà nostro, farlo insieme per riscoprirci vicini e superando i confini per darci un limite. Ecco la filosofia di chi partirà per un lungo viaggio alla scoperta dei luoghi che abiteremo.

Far sapere che è possibile rendere il mondo un posto migliore per tutti noi.

Dichiarazione di intenti ma non di impegni? Pretesa urlata a qualcuno che non ascolta? Slogan per colorare di verde la coscienza? Tutti rischi ormai frequenti, ma nessuna risposta affermativa.

È la prima frase in cui ci si imbatte leggendo la sezione “Chi siamo” del sito dell’associazione The Climate Route APS, nata nel 2020 per girare un documentario sulla crisi ambientale da un capo all’altro per l’Eurasia e finalmente pronta a partire, nel mese di maggio, per una spedizione di 18.000 chilometri per il clima. È la risposta di un gruppo di attivisti, il cui progetto emana già una luce fortissima, all’interrogativo umano per eccellenza – qualcosa che ha a che fare col nostro posto nel mondo.

Si tratta dunque in primo luogo di un’identità. Poi di una missione. E solo infine di un’azione.

Parte del team di The Climate Route durante le spedizioni italiane della scorsa estate

“Tutti noi” – Chi sono i viaggiatori per il clima

In un passo di Biofilia – Il nostro legame con la natura, il biologo statunitense da poco scomparso Edward O. Wilson azzarda un’ipotesi riguardo una questione che dall’anno di pubblicazione del libro (1984) ad oggi non ha fatto altro che inasprirsi e aggravarsi: “Tutti i guai dell’uomo potrebbero nascere dal fatto che non sappiamo cosa siamo e non riusciamo a metterci d’accordo su ciò che vogliamo diventare”.

Tale proposta risulta allettante perché in essa è contenuta anche una potenziale soluzione al problema. Scoprire, o riscoprire, ciò da cui non possiamo “disunirci”, citando la scena più citata dell’ultimo film di Sorrentino; e cominciare a identificarci con la massa informe ed eterea di idee, ideali, convinzioni, speranze e, perché no, responsabilità e paure che è da qualche parte dentro ciascuno di noi. Non è affatto scontato che accada e neppure come avvenga: può essere una rivelazione improvvisa e, molto probabilmente, casuale.

Ha senso parlare di epifanie in un’epoca in cui niente è più sacro perché tutto è distruttibile? Forse no, ma è proprio quando si diventa davvero consapevoli di elementi che fino a un attimo prima sono stati un incomprensibile e talvolta fastidioso rumore di fondo che cambia tutto.

Ad Alberto, Andrea, Giorgio e Luca, fondatori dell’associazione The Climate Route APS, che hanno studiato come costruire un mondo più sostenibile per la maggior parte delle loro diversamente lunghe vite, è capitato di mettere a fuoco una questione che accettiamo dagli anni Ottanta e che dopo trent’anni ci è già e ormai indifferente. Una faccenda, che riguarda proprio l’identità umana, così scontata da essere al tempo stesso sottovalutata e indispensabile: siamo i responsabili di un lungo elenco di disastri ambientali.

Siamo quelli che nella primavera del 2020, quando un serbatoio di carburante in una centrale elettrica vicino alla città di Norilsk, Siberia, è crollato a causa dello scioglimento del permafrost, hanno contribuito allo sversamento di 20.000 metri cubi di gasolio nel fiume Ambarnaya – che indirettamente, attraverso il lago Pyasino e poi il fiume Pyasina, arriva nel Mar di Kara. E dobbiamo, vogliamo diventare quelli che provano a rimediare o che almeno non si danno per vinti: una spedizione dal ghiacciaio della Marmolada fino allo Stretto di Bering per creare un documentario sugli effetti del cambiamento climatico non può essere che l’emblema di un accordo.

Estate in Chukotka, regione dell’estremo oriente russo sempre più accessibile a causa del cambiamento climatico

Zaino in spalla e vesciche ai piedi, mezzi di trasporto poco rassicuranti, un’alta probabilità di mangiare cibo in scatola per mesi e dati che non sono solo numeri ma hanno il volto di milioni di persone (secondo il rapporto pubblicato lo scorso agosto dall’International Panel on Climate Change, per esempio, nell’ultimo decennio l’estensione dei ghiacci dell’Artico durante l’estate è stata la più bassa degli ultimi 1.000 anni e la riduzione dei ghiacciai terrestri non ha precedenti negli ultimi 2.000; di conseguenza, sempre per esempio, a inizio 2022 il parlamento indonesiano ha dato il via libera al trasferimento della capitale e dei suoi 30 milioni di abitanti da Giacarta a una remota località sull’isola del Borneo, a 2.000 km di distanza, per far fronte al progressivo innalzamento del livello del mare) hanno fatto in fretta a creare una vera comunità – anzi, una famiglia.

In meno di un anno, infatti, oltre 40 tra volontarie e volontari di qualsiasi età e professione hanno sentito che questo progetto e la loro personale massa eterea di cui prima potessero assomigliarsi; che la forma astratta dell’una potesse plasmarsi su quella definita dell’altro. Si sono uniti, ai quattro attivisti e prima di tutto a sé stessi. Si sono identificati. E le loro identità hanno nutrito la mission dell’associazione facendola diventare una missione.

“Il mondo un posto migliore” – Luoghi che non vivremo

“Chiedo scusa a tutti quelli di voi che sono coetanei dei miei nipoti. E molti di voi che state leggendo questo libro probabilmente sono coetanei dei miei nipoti. Loro, come voi, si stanno beccando una sonora inculata, nonché una bella manica di menzogne […]. Sì, questo pianeta si trova in un gran brutto casino.”

A parlare, anzi, a scrivere è Kurt Vonnegut, autore e studioso americano di Indianapolis tanto dissacrante e (black) umorista da essersi guadagnato il titolo di romanziere della controcultura, che nella raccolta di saggi Un uomo senza patria più volte dichiara preoccupazione e rabbia per il mondo contemporaneo.

Gli scritti risalgono alla fine del secolo scorso e ai primi anni dell’attuale, e con dispiacere gli dovremmo dire (se potessimo intercedere con l’aldilà) che anche i dati più recenti non indicano un cambio di rotta, e anzi rendono sempre più reali le sue emozioni. Secondo il già nominato rapporto dell’IPCC, nel corso degli ultimi cinque decenni la temperatura della Terra è cresciuta ad una velocità che non ha uguali negli ultimi 2.000 anni e nell’arco temporale 2011-2020 è stata di 1.09°C superiore a quella del periodo 1850-1900.

Stiamo assistendo a secoli di scomparse, e di conseguenti nuove comparse: il lago d’Aral, situato al confine tra l’Uzbekistan e il Kazakistan, negli anni Sessanta era il quarto più esteso del pianeta, alla fine degli anni Novanta si era ristretto tanto da dividersi in quattro bacini distinti, nel 2020 la porzione più orientale vantava l’appellativo di deserto e, seppur i governi stanno provando a risolvere la situazione, non è da escludere che pronipoti di Vonnegut saranno costretti a chiamare così l’intera area.

È per loro che il documentario di The Climate Route APS è una missione necessaria, urgente. È per chi, cercando sulle mappe uno specchio d’acqua salata nel cuore dell’Asia, troverà il Deserto di Aralkum. A causa del cambiamento climatico, la geografia sta cambiando, la geopolitica sta impazzendo e la geopoetica, strana entità che esiste solo nel legame viscerale dei popoli con la propria terra, sta morendo. Come vivono i pescatori del lago di Aral da quando coltivazioni intensive e siccità li hanno separati da una componente fondamentale della loro essenza e della loro sopravvivenza? Non si tratta forse della stessa tristezza che potrebbero provare gli abitanti della Sicilia quando si renderanno conto che il processo di desertificazione è implacabile? E che dire delle difficoltà che si presenteranno quando l’esplosiva vitalità dell’isola del Sole sarà messa alla prova?

Abbiamo un disperato bisogno di testimoni, per diventare capaci di tenere insieme lo sguardo sul mondo e l’attenzione ai luoghi. Abbiamo un disperato bisogno di ascoltare le parole di chi sta affrontando in anticipo un futuro probabilmente e prossimamente anche nostro. Eppure imparare o insegnare non è la pretesa di nessuno.

Ma allora che senso ha? “Papà, siamo qui per darci una mano l’un l’altro ad affrontare questa cosa, qualunque senso abbia”, risponde uno dei giovani Vonnegut al padre vecchio e sconfortato di fronte al senso di ciò che è stato e di ciò che sarà. E in attesa di conoscere altre teorie, è possibile praticare l’empatia; abbattere le barriere tra noi e loro, tra primo, secondo e terzo mondo, tra chi è costretto ad abbandonare secolari abitudini e chi crea nuove e nocive dipendenze.

Viaggiando per quattro lunghi mesi attraverso Italia, Slovenia, Bosnia, Bulgaria, Turchia, Georgia, Azerbaijan, Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Cina, Mongolia e Russia, la spedizione per il clima proverà a testimoniare la comunione tra crisi, bisogni e desideri di luoghi e persone solo apparentemente lontane e diverse. I confini creano distorsioni, perché nessun Paese è un’isola – proprio come nessun uomo lo è – e l’unico limite da porci è il rispetto del Pianeta nel suo essere un arcipelago, fatto di connessioni e nessun centro.

“È possibile” – La ragione delle alternative collettive

Era il 1994 quando Alexander Langer, uno dei più grandi uomini politici che l’Italia abbia mai conosciuto (e non compreso, verrebbe da dire), si interrogava sul perché tutti i segnali che l’ambiente, naturale e non, ci stava mandando non avessero ancora prodotto una svolta. “Allarmi catastrofisti, lamenti, manifestazioni, boicottaggi, raccolte di firme… tutto ciò ha aiutato a riconoscere l’emergenza”, ma “appare tutt’altro che assicurata la volontà di guarigione”.

Ragionamenti senza pace prima e senza speranza poi lo hanno portato, il 3 luglio 1995, a togliersi la vita, lasciandoci però una richiesta che tradisce la sua estrema rassegnazione – “non siate tristi, continuate in ciò che era giusto” – e che le generazioni successive alla sua hanno in parte accolto. Oggi la svolta è in atto, grazie anche a un indizio che lui già ci aveva indicato: “le cause dell’emergenza ecologica non risalgono a una cricca dittatoriale di congiurati assetati di profitto e di distruzione (per quanto esistano e l’impatto delle loro decisioni sia significativo, vedi Bolsonaro; n.d.a), bensì ricevono quotidianamente un massiccio e pressocché plebiscitario consenso di popolo”.

In poche decadi dalla sua nascita, l’ambientalismo ha assunto una dimensione tanto globale quanto personale, tanto di piazza quanto di casa, tanto ufficiale e accademica quanto quotidiana e dal basso. Dalle spedizioni transcontinentali alle campagne social, dalle giornate mondiali alle modifiche costituzionali, le iniziative per salvare il pianeta Terra, in quanto iniziative per salvare noi stessi, diventano sempre più diffuse e variegate e vanno prese come quei “segnali ben più determinati” che negli anni Novanta secondo Langer ancora mancavano.

La scelta di The Climate Route: attivismo ambientale on the road, dalle Dolomiti alla Siberia

Forse sbagliamo e dovremmo continuare a pretenderlo, ma abbiamo smesso di credere che di fronte a un problema grande la soluzione venga solo dai grandi. I provvedimenti restano pezzi di carta se “noi – il pezzo mancante del puzzle del cambiamento climatico – non ci mettiamo in moto” confessa Grammenos Mastrojeni, svestendosi del proprio ruolo di diplomatico italiano e indossando abiti comuni.

La Conferenza delle Parti numero 26, che si è svolta a Glasgow, Regno Unito, lo scorso novembre, ha confermato un accordo preso già sei anni prima, durante la Cop21 di Parigi: mantenere l’aumento di temperatura entro gli 1,5°C dai livelli pre-industriali, o comunque al di sotto dei due gradi. Tra i cinque futuri possibili previsti e descritti dall’IPCC, uno solo ci garantirebbe il raggiungimento di tale obiettivo. Si tratta, senza sorprese, dello scenario più impegnativo: perché l’aumento massimo sia di 1,8°C entro il 2100, le emissioni dovrebbero arrivare a uno zero netto intorno al 2050 ed essere negative negli anni a venire.

Che fare? La narrativa apparentemente più consolidata tenderebbe a ridimensionare o addirittura a non considerare il peso degli individui, sorvolando sul fatto che la loro somma si chiami società. E dimenticando che la società ha un ruolo decisionale all’interno dell’ingranaggio economico – le cui ragioni violano in maniera massiccia la biosfera nel suo insieme di ambienti e organismi.

Non è stato necessario che tutti iniziassero a ritenere non valido questo orientamento di pensiero perché molti ne iniziassero a creare uno alternativo, che ci impedisse di delegare o di aspettare l’azione di altri e che allo stesso tempo ci liberasse dal giogo della colpa e ci scagionasse dal peccato originale nei confronti dell’ambiente. Un’inclinazione propositiva che ha portato alla ribalta e avvalorato il cosiddetto effetto farfalla: piccole variazioni nelle condizioni iniziali producono grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema.

Farsi carico, non senza fatica e senza sacrifici, di un frammento del reale – che potrebbe rivelarsi facile da individuare paradossalmente proprio in virtù della natura sempre più frammentata della realtà. Non avendo conosciuto gli sviluppi in atto dall’inizio del nuovo secolo, le idee di Langer appaiono a maggior ragione consigli profetici: “non esiste il colpo grosso, l’atto liberatorio tutto d’un pezzo; i passi dovranno essere molti”. Singoli, molteplici, diversificati e condivisibili.

È sufficiente scegliere una meta verso cui muoverli – ed è necessario sperare che ciascuno piano piano individui la sua. Percorrere la strada e accogliere chiunque voglia essere coinvolto, ognuno con mezzi e risorse specifiche e speciali. Centinaia di persone hanno imboccato la direzione Chukotka, Siberia, insieme a The Climate Route APS, offrendo chi i propri piedi, chi il proprio sostegno economico e chi, tantissimi, le proprie parole e il proprio pensiero.

Uno vale molto più di quanto si possa immaginare (o almeno, questa è una delle tante visioni disponibili). In pochissimo tempo può diventare due. Poi dieci. Cento. Mille. Fino a perdere il conto.

Basta iniziare a camminare.

E dunque, buon viaggio.

Ovunque vi porti.