16 Maggio 2020
La fuga dai partigiani nel ’45 verso l’Austria, i processi e la riscrittura odierna di quei fatti
Anni fa, a Trieste, mi trovai per caso a una cena in cui mi presentarono varie persone. I loro nomi non mi dicevano nulla, ero una profuga appena arrivata in città, ma poi mi resi conto che lì erano presenti ministri, sottosegretari, presidenti, direttori, gente nota e famosa.
C’era uno che m’incuriosiva particolarmente. Accigliato, dall’aspetto severo, parlava poco e quel poco lo pronunciava a bassa voce quasi sussurrando. Ci presentammo.
Appena sentì il mio nome mi prese sottobraccio e mi disse nella lingua che lui chiamava croato e io serbo-croato: “Siamo dei nostri, noi ci capiamo bene”.
In seguito fui spesso sua ospite. Era di origine croato-bosniaca. Volendo, avrei potuto cenare con lui ogni sera, non c’era niente di tenero tra di noi, io sapevo ascoltare e lui raccontava particolari della sua vita, come se avesse aspettato proprio me per liberare quello che teneva dentro.
Ante, chiamiamolo così, era una delle persone più ricche della regione, mi dicevano i ben informati, ma lui non ostentava la sua ricchezza. Proveniva da un piccolo villaggio bosniaco, da adolescente fu mandato a Spalato per studiare.
Quando i fascisti italiani giunsero in Dalmazia, all’inizio della Seconda guerra mondiale, proibirono l’uso della lingua croata.
“Non mi andava bene”, mi diceva. Lasciò tutto e si unì all’esercito dello Stato Indipendente di Croazia (NDH), uno stato fascista e filo nazista.
Quando Ante combatteva per lo stato indipendente croato, i miei genitori, che erano partigiani, lottavano contro quelli come lui, cioè gli occupatori e i loro collaborazionisti.
Non è escluso che da qualche parte, tra le montagne bosniache, in qualche momento si fossero guardati attraverso il mirino, i fascisti da una parte e gli antifascisti dall’altra.
Quando la vittoria degli alleati era ormai imminente, nel maggio 1945, Ante si ritirò verso nord- ovest, con una massa di decine di migliaia di persone, quasi tutte, se non tutte, collaboratori dei fascisti e dei nazisti.
Fuggiva chi si era macchiato di sangue, chi temeva di essere riconosciuto dai torturati, o dai famigliari delle vittime innocenti, scappavano i semplici esecutori nonché i criminali di spicco come Ante Pavelić, il “duce” dello Stato Indipendente di Croazia, i vari oberlightant, i colonnelli, gli ufficiali di alto rango che si erano guadagnati il grado torturando i prigionieri, gli aguzzini del campo di stermino di Jasenovac, i miserabili simpatizzanti degli occupatori, i ladri che si arricchivano occupando le ville dei deportati nei campi di concentramento, i cittadini comuni che tradivano un vicino per una catenina d’oro o un po’ di denaro, i nazionalisti serbi četnici, i collaborazionisti cosacchi e anche coloro che si fidavano degli occupatori e temevano un regime diverso.
Gli ustascia fuggirono in fretta e furia da Sarajevo, ma trovavano il tempo per saldare ultimi conti: sui pali della luce impiccarono 55 cittadini antifascisti di Sarajevo, svuotarono il carcere e trasportarono gli ultimi 460 prigionieri nel campo di sterminio di Jasenovac, dove furono tutti uccisi. Scappavano dalla città nella quale in quattro anni avevano ucciso 10mila cittadini ebrei, serbi, zingari, bosniaci.
Verso la metà di maggio del 1945 questa massa di uomini si ritirò verso l’Austria per arrendersi agli americani e agli inglesi, e per sottrarsi alla giustizia dei partigiani.
Ma gli alleati non li volevano come prigionieri, non sapevano nemmeno cosa farsene di loro, e lasciarono che fossero i partigiani di Tito a gestire “i propri” nemici.
Decine di migliaia di questi uomini si trovarono bloccati sul confine vicino al villaggio austriaco di Bleiburg si arresero ai partigiani. Ante era tra di loro.
Mi diceva che passò per un tribunale del popolo, fatto sul posto, che giudicò che Ante, a 21 anni, era ancora giovane e che sarebbe potuto cambiare, così lo lasciarono libero.
In seguito Ante fece carriera in Jugoslavia diventando ben presto presidente di una regione nella Jugoslavia comunista, poi si innamorò di un’italiana e clandestinamente si trasferì in Italia. Quando lo conobbi io, Ante era un cittadino distinto, di una certa influenza, cavaliere della Repubblica Italiana.
Un altro sopravvissuto a Bleiburg lo conobbi a Milano. Era lo zio di una mia cara amica. Mi accolse come se fossi sua nipote, mi disse di considerare la sua casa come mia e, se mai avessi avuto bisogno, di contare sul suo aiuto. Nikola, così si chiamava, era di origine serba e dovette scappare dalla Jugoslavia nel 1945 perché suo padre, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, era stato accusato e giustiziato dai partigiani come traditore e collaboratore dei nazisti.
Anche lo “zio serbo” si trovava in quella lunga colonna che, ritirandosi davanti all’avanzata dei partigiani, cercava di raggiungere Bleiburg. Riuscì a varcare il confine e visse in Italia fino alla fine dei suoi giorni. Per decenni gli fu vietato di tornare in patria, ma ugualmente – e ciò mi stupiva- lo “zio serbo” elogiava la Jugoslavia di Tito, mi sventolava sotto il naso i vari passaporti jugoslavi, dal primo all’ultimo, a lui rilasciati e che gli permettevano, da uomo d’affari, di girare per il mondo senza alcun problema.“E questi idioti…”, c’è l’aveva a morte con i nazionalisti che avevano distrutto la Jugoslavia negli anni Novanta.
Ante invece era entusiasta dei nazionalisti croati durante la guerra degli anni Novanta. Li aiutava finanziariamente, mandava armi e, anche se in età avanzata, andava al fronte a combattere, così per dire. Ma poi rimase deluso, e mi confidava: “Sai, in confronto a questi ladroni di oggi, Tito era un vero signore.”
Nella storiografia mondiale “il caso Bleiburg” non esiste, da nessuna parte viene menzionato come un evento rilevante per la seconda guerra mondiale.
Ci hanno pensato però i nazionalisti croati. Ogni 16 maggio si radunano nella cittadina austriaca per commemorare con una messa quelle “vittime innocenti”.
L’evento religioso è diventato via via la celebrazione del “massacro dei croati”, e la Chiesa cattolica croata ricorda quell’evento come la “via crucis dei croati vittime dei comunisti”. Sarebbe come commemorare la fuga di Mussolini come un sacrificio pari a quello di Cristo stesso, oppure il suicidio di Hitler come un atto di eroismo e martirio per l’umanità.
“La sofferenza di Gesù Cristo non può essere equiparata alla sofferenza dei membri delle SS o della Wehrmacht, degli ustascia o dei četnici, è una bestemmia”, ha detto lo storico prof. Stefan Dietrich per il programma di DeutscheWelle.
Il numero preciso delle persone intrappolate a Bleiburg e uccise dai partigiani non è mai stato accertato. Ciò ha lasciato spazio alle speculazioni, e così da diecimila si è arrivati a seicentomila, secondo gli storici croati.
Con il passare del tempo la messa per i morti di Bleiburg è stata strumentalizzata diventando un mito storico-politico, non più “un massacro di innocenti croati”, ma “un olocausto dei croati”, fino a paragonare quell’eccidio al campo di concentramento di Jasenovac e di recente anche al genocidio di Srebrenica.
Slavko Goldstajn, autore del libro Olocausto in Croazia (The Holocaust in Croazia) scrive che le vittime erano al massimo 20mila. L’ex presidente della Croazia, Stipe Mesić, diceva che “a Bleiburg non c’erano vittime, c’erano i membri dell’esercito sconfitto, le forze ‘quisling’ che combattevano contro i partigiani anche dopo la dichiarazione della vittoria del 9 maggio 1945”.
Negli ultimi anni la commemorazione a Bleiburg è diventata il più grande raduno di fascisti in Europa: si esibisce liberamente il saluto romano, lo stesso che si utilizzava per salutare il Führer, e sventolano le bandiere dello Stato Indipendente di Croazia.
Dal 2018 l’Austria vieta esplicitamente l’esposizione della bandiera e degli emblemi ustascia e impone l’obbligo che l’evento si limiti a una cerimonia religiosa.
“Bleiburg è diventato un luogo di rammarico per il crollo dello Stato indipendente di Croazia”, ha detto il neo-presidente croato Zoran Milanović.
Quest’anno, a causa della pandemia di coronavirus, le frontiere sono chiuse e chi voleva partecipare all’evento di Bleiburg non può recarsi sul posto. Ed ecco che arriva, come una bomba, l’annuncio della chiesa cattolica in Bosnia, che la messa e la commemorazione per le vittime di Bleiburg si terrà nella cattedrale di Sarajevo e che la messa sarà celebrata dal cardinale bosniaco Vinko Puljić.
Così dopo 75 anni dalla grande fuga dei fascisti da Sarajevo, i fascisti simbolicamente ci ritornano.
Incredulità, costernazione, rabbia, vergogna da parte di cittadini, politici, attori, scrittori, poeti, ambasciatori. Tutti hanno alzato la voce contro questa decisione vista e sentita come un’offesa alla città. I sarajevesi si sentono traditi dall’amato cardinale Puljić con il quale avevano vissuto insieme quattro anni d’assedio.
La cantante lirica Margit Tomik Levy ha scritto al cardinale: “Lei non vuole la pace a Sarajevo. La sua non è una messa per le vittime innocenti della seconda guerra mondiale ma per tutte le vittime di Bleiburg.”
“Con questo atto non si vuole esprimere pietà verso le singole vittime innocenti, ma si vuole promuovere e riabilitare i responsabili delle uccisioni di massa”, ha dichiarato il prof. Husnija Kamberović.
Il presidente della comunità ebraica in BiH, Jakob Finci, e il presidente della comunità ebraica di Sarajevo, Boris Kožemjakin, in una lettera aperta hanno espresso “la più forte protesta e condanna di questo atto assolutamente ingiustificabile. Si commemorano i carnefici delle nostre madri, padri, nonni, dei nostri compatrioti e di tutte le altre vittime innocenti dello stato fantoccio fascista NDH”.
Il metropolita di Dabro-Bosnia Crisostomo, capo della chiesa ortodossa in BiH ha annunciato di chiudere definitivamente la porta della cooperazione e di tutte le relazioni della propria arcidiocesi con l’arcidiocesi di Vrhbosna “e personalmente di Sua Eminenza il metropolita di Dabro-Bosnia con il cardinale VinkoPuljić”.
La chiesa cattolica della BiH ha respinto tutte le accuse, anzi ha lanciato contraccuse dicendo che si tratta degli ennesimi attacchi sui croati bosniaci, sulla libertà di culto, e ha condannato gli “attacchi sul reverendo cardinale Puljić”.
Ivo Tomasević, segretario generale della Conferenza episcopale, insieme all’assemblea permanente dei vescovi cattolici in Bosnia ed Erzegovina, ha detto che “la messa per commemorare le uccisioni delle truppe croate naziste e civili da parte dei partigiani jugoslavi alla fine della seconda guerra mondiale non sarà cancellata nonostante la condanna da parte di politici, attivisti antifascisti e molti personaggi pubblici”.
L’Assemblea nazionale croata della BiH ha dichiarato che “condanna all’unanimità e con fermezza gli attacchi infondati alla Chiesa cattolica e al cardinale Puljić”.
Da quando è stata pubblicata la notizia della “Bleiburg a Sarajevo” le proteste non diminuiscono, si lanciano appelli per annullare la commemorazione, personaggi pubblici rilasciano dichiarazioni, alcuni invitano i cittadini a protestare davanti alla cattedrale, altri propongono di fare una contro commemorazione alle vittime degli ustascia, nel centro della città. E molti vedono la messa alle vittime di Bleiburg nella Sarajevo antifascista, il prossimo 16 maggio, come una provocazione.
Il fondatore del “Jazz festival” di Sarajevo,Edin Zubčević, avverte i cittadini che “stiamo affrontando sfide che richiedono più intelligenza che coraggio. Forse verrà il giorno in cui saremo costretti in tutti i modi a difendere ciò che resta da difendere. Ma il 16 maggio 2020 non è quel giorno… Non importa quanto doloroso. Ad ogni modo, non importa quanto sia difficile, i cittadini di Sarajevo devono semplicemente rinunciare a qualsiasi tipo di violenza e non cedere a questa e altre provocazioni: loro ci chiamano nell’oscurità, dove ci attende solo il male. Scegliamo la strada della luce. Lascia che ci sia luce!”