Caso Regeni: due obiezioni alle semplificazioni mediatiche

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21 Dicembre 2020

Quali reali opzioni rispetto al regime di al-Sisi?

Il dibattito che periodicamente infuria sulla stampa italiana relativamente alla tragica uccisione di Giulio Regeni è certamente comprensibile, se non addirittura doveroso.

Le direzioni che il dibattito può prendere, però, sono molteplici, e si prestano a pericolose derive e semplificazioni.

Prima di entrare nel merito, sono opportune due premesse: in primis, sarebbe ovviamente giusto che i colpevoli della morte di Giulio identificati dalla magistratura italiana, tanto gli esecutori quanto i mandanti, venissero processati in Italia e – presumibilmente – condannati all’ergastolo.

In secundis, è a dir poco vergognoso (come osservato da più parti) che un Paese europeo come la Francia, teoricamente nostro alleato anche nella sedicente comunità di valori dell’Unione Europea, conferisca la Legion d’onore – che l’etichetta diplomatica lo imponga o meno – a un dittatore dichiaratamente coinvolto in una sistematica repressione come Abdel Fattah Al-Sisi, peraltro nei giorni in cui la magistratura del Cairo si prendeva gioco di quella italiana propinandoci nuovamente la storiella del furto.

La riflessione che segue non intende mettere in discussione i fatti accertati, né tanto meno la necessità di ottenere giustizia – morale e giudiziaria – per Giulio.

Ci sono, tuttavia, due obiezioni al dibattito italiano che sarebbe rischioso ignorare.

RAPPORTI CON L’EGITTO

Come ad ogni nuovo sviluppo della vicenda, anche questa volta si sono levati da più parti inviti al boicottaggio del Cairo, al richiamo dell’ambasciatore, a dichiarare l’Egitto “paese non sicuro” e ad altri metodi di sospensione delle relazioni diplomatiche e commerciali. Per quanto il disinteresse della classe politica italiana sia effettivamente indecoroso (un’interrogazione parlamentare, per quanto sterile, avrebbe almeno una valenza simbolica), viene da chiedersi quale sarebbe l’utilità effettiva di eventuali cesure e boicottaggi, e chi ne verrebbe danneggiato. Interrompere i rapporti diplomatici, e a cascata impedire od ostacolare quelli commerciali e culturali, non ha certo ricadute – se non estremamente indirette – sull’apparato militare colpevole del barbaro omicidio di Giulio.

Ma rischia invece di avere pesanti ricadute su tutti i settori, da quello turistico a quello accademico, passando per il manifatturiero e l’agricolo, nei quali Italia ed Egitto hanno storicamente un vivace interscambio.

Si andrebbero così a colpire quegli italiani e quegli egiziani che commerciano con profitto senza avere nulla a che spartire con i rispettivi sistemi di potere, nonché quegli studiosi e studenti – proprio come Giulio, o come Patrick Zaki – che vorrebbero trascorrere un periodo di ricerca e approfondimento sull’altra sponda del Mediterraneo. Inaridendo così, in ultima analisi, il dialogo tra due popoli che mai come oggi avrebbero bisogno di comprendersi.

Non meno importante, l’idea che soggiace alla pretesa di collaborazione giudiziaria da parte di un paese terzo, alla necessità di “mostrare i muscoli” come non ci sogneremmo mai di fare – ad esempio – al cospetto degli Stati Uniti (basti pensare alla vicenda Amanda Knox, o ai marines del Cermis) e, più in generale, alla velleità di insegnare ad altri – ma solo ad alcuni, e a intermittenza – la democrazia ha sinistri risvolti di neocolonialismo, da cui dovremmo ben guardarci.

A maggior ragione se si constata che molti dei deprecabili sviluppi sociopolitici dei paesi del Medio Oriente sono il frutto più o meno diretto di precedenti politiche di State-building e “democratizzazione” occidentali, in primis da parte degli alfieri della democrazia europea Francia e Regno Unito.

Un’ultima osservazione su questo punto: chi sostiene che il governo italiano disponga delle leve diplomatiche per ottenere maggiore collaborazione dalle autorità egiziane dovrebbe forse illuminare il dibattito pubblico esponendone i dettagli.

Appurato che la presenza o meno dell’ambasciatore italiano al Cairo non cambia alcunché, che il ricatto degli armamenti sarebbe altrettanto inutile (vedi sotto) e che non si può certo imporre a ENI di interrompere lo sfruttamento dei giacimenti di gas che essa stessa ha scoperto al largo delle coste egiziane, quali altre opzioni ci sono?

Pur riconoscendo l’agire talvolta dilettantistico delle nostre autorità governative, è davvero difficile immaginare azioni tanto efficaci da indurre Al-Sisi a consegnarci cinque dei suoi uomini di fiducia, anche nel caso in cui si procedesse formalmente a una richiesta di estradizione o trasferimento a condanna pronunciata (tra Italia ed Egitto esiste dal 2013 un accordo sul trasferimento delle persone condannate, ma non prevede questa fattispecie).

Qualcuno ha proposto l’espulsione di alcuni cittadini egiziani, ad esempio i membri della National Security Agency, ma forse dovremmo prima chiederci cosa ci facciano gli agenti segreti egiziani sul suolo italiano.

E magari scopriremmo che, per quanto sgraditi, possono risultare preziosi nello sgominare le reti di radicalizzazione islamiche, tanto indigeste ad Al-Sisi nella sua paranoia laico-assolutista quanto pericolose per la diffusione di idee fondamentaliste tra i musulmani d’Europa.

Altri hanno tirato in ballo le famigerate sanzioni mirate, panacea delle impasse geopolitiche partorita dagli statunitensi e abbracciata dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea. Ma la cui efficacia per lo scopo prefisso (ossia colpire pochi individui ben identificati senza ripercussioni sulla popolazione) è tutt’altro che empiricamente accertata, e anzi totalmente sconfessata da svariati studi. Insomma, cercando di prendere di mira gli autori materiali dell’omicidio e i suoi mandanti (l’ex ministro degli interni Ghaffar? Al-Sisi stesso? E su quali basi probatorie?), si finirebbe probabilmente per infierire su comuni egiziani che – a differenza di noi, che pontifichiamo da questa parte del Mediterraneo – vivono ogni giorno sotto lo sguardo orwelliano del mukhabarat cercando di arrabattarsi in un regime governato da logiche clientelari.

In cui le difficoltà sociali ed economiche del quotidiano, al di là degli indicatori macroeconomici, sono ben superiori a quelle – pur comprensibili – dei tanti italiani che in questi giorni si appellano a ristori e cashback.

VENDITA DI ARMAMENTI

Lo schiaffo all’opinione pubblica italiana – e in particolare alla famiglia di Giulio Regeni – che ha riacceso le polemiche in primavera è rappresentato dalla vendita di due fregate Fremm alla marina egiziana.

Fregate che, a sentire gli ufficiali italiani, avrebbero fatto molto comodo anche alla nostra Marina Militare, a conferma che la scelta di Fincantieri – approvata dal governo – non è stata probabilmente molto ben consigliata. Tuttavia, ancora una volta, guardando solo alla situazione contingente l’analisi risulta inevitabilmente limitata.

L’Italia, com’è noto, è tra i principali produttori al mondo di armamenti, e tra i suoi migliori clienti annovera il Qatar, la Turchia, gli Emirati Arabi Uniti, ma anche l’India, l’Indonesia e le Filippine nel quadrante asiatico.

Tutti paesi non certo esemplari in termini di libertà democratiche e rispetto dei diritti umani. E che dire delle decine di milioni di euro fatturati agli Stati Uniti per gli armamenti impiegati nelle erratiche campagne militari statunitensi in tutto il globo (che – dati alla mano – hanno causato quasi 40 milioni di sfollati negli ultimi 20 anni), o delle armi vendute a Israele (l’Italia è il quarto esportatore europeo di armamenti verso lo Stato sionista) con cui contribuiamo all’occupazione illegale della Palestina?

La levata di scudi contro la vendita di attrezzature militari al regime di Al-Sisi non è stata accompagnata da simili appelli contro gli affari conclusi con governi altrettanto deleteri per la pace globale e il rispetto dei diritti umani.

Quasi che le migliaia di “Giulio” arbitrariamente arrestati, fatti sparire o assassinati dai regimi di mezzo mondo contino meno sotto il profilo umano. Senza contare che la repressione del dissenso popolare non si fa certo con le fregate e i siluri (quelli, semmai, ci fanno comodo nell’ottica geostrategica di contenimento della Turchia), quanto piuttosto con le armi di piccolo calibro, le tecnologie di spionaggio informatico e i servizi di addestramento.

Tra tutte le forniture belliche che si potevano eleggere a simbolo del boicottaggio ai regimi antidemocratici, insomma, le fregate sono le meno azzeccate. E anche ci rifiutassimo in toto di vendere armamenti al Cairo, questo servirebbe forse a lavare la coscienza del governo agli occhi dell’opinione pubblica, ma non certo agli occhi dei dissidenti turchi o degli arabi di Palestina messi nel mirino con le nostre tecnologie belliche. Per di più, oltre a indebolire ulteriormente la posizione geopolitica dell’Italia, non servirebbe nemmeno a lasciare sguarnito l’esercito egiziano, che non farebbe altro che rifornirsi altrove riempiendo – tra le altre – le casse dei produttori francesi.

È per questo che, per lavorare ai fianchi i regimi dittatoriali, l’unica strada da seguire sarebbe quella di un’azione a livello internazionale, almeno europeo: la strutturazione di un meccanismo istituzionalizzato e concertato con cui tutti i paesi UE si impegnassero con coerenza a non consegnare armi (in particolare di piccolo taglio) né tecnologie militari ai governi che non soddisfano determinati standard democratici.

Una sorta di sanzioni militari. Il tutto, idealmente, accompagnato da politiche energetiche che riducano il potere di ricatto dei paesi esportati di gas e petrolio. Un simile fronte europeo (tra i primi 10 paesi esportatori di armi a livello globale figurano Francia, Italia, Regno Unito, Germania e Spagna) potrebbe contare su leve politiche e commerciali molto superiori di quelle di un solo Stato membro, e potrebbe portare risultati concreti anche in ambito giudiziario.

Un’utopia? Certo, soprattutto se la Francia di Macron, con la sua linea geopolitica utilitaristica e la sua incipiente islamofobia, continuerà a dividere il mondo tra dittatori amici e dittatori cattivi. Ma iniziative di singoli paesi, per quanto encomiabili, non sortiscono alcun effetto su regimi forti come quello del generale Al-Sisi.

Ciò non significa, tuttavia, che non si possa fare qualcosa anche indipendentemente, a livello nazionale, per renderci un paese più virtuoso e meno direttamente coinvolto con le violenze di mezzo mondo. In tal senso si potrebbe auspicare un drastico cambio di rotta del nostro governo, il varo di una strategia di lungo termine volta a convertire parte dell’industria bellica italiana in un’industria più etica, ad esempio quella della produzione di energia da fonti rinnovabili (sempre nell’ottica di una minor dipendenza da petrolio e gas mediorientali) ma anche, in un orizzonte temporale più breve, un riposizionamento nel settore delle armi da caccia e tiro sportivo, allontanandosi gradualmente dall’ambito del law enforcement.

Indignarsi invece per la vendita di due imbarcazioni all’Egitto, mentre milioni di persone in ogni regione del mondo vengono quotidianamente minacciate e uccise con armi uscite dalle nostre fabbriche, è quantomeno ipocrita.

Peggio, inumano: sposando questa logica, infatti, si alimenta la contrapposizione huntingtoniana “noi-loro” con il mondo arabo, e con il Sud del mondo in generale. Quando la vittima è uno dei “nostri” ci indigniamo e chiediamo a gran voce conseguenze giudiziarie, diplomatiche e commerciali, ma se nel frattempo innumerevoli dei “loro”, nello stesso e in altri Paesi, marciscono in prigioni infestate dal Covid anche solo per essersi espressi sui social media, l’opinione pubblica non è altrettanto scossa e i dittatori passano magari per partner “moderati”.

Insomma: quello che si reclama, soprattutto da certi ambienti della destra che del mondo arabo conoscono solo i racconti orientalisti, non è in realtà il rispetto dei diritti umani, bensì giustizia (o vendetta?) per un nostro concittadino.

Quello dei diritti umani è solo un pretesto, uno specchio in cui poterci rimirare mentre ci ergiamo a paladini degli alti ideali democratici contro gli “incivili” che disconoscono le nostre conquiste illuministe. Così lo scontro di civiltà cavalcato da tanti politici xenofobi galoppa a gran velocità.

La perdita di Giulio ha colpito emotivamente tutti noi, e d’ora in poi nessun italiano potrà rimanere indifferente passando davanti al tetro palazzo di Meidan Lazoughly. Ma non dobbiamo cadere nel tranello di alimentare narrazioni di scontro di civiltà, subdole invettive neocolonialiste e approcci semplicistici a questioni di immensa complessità.

Benché l’Italia se ne sia accorta solo dopo quel tragico gennaio 2016, quando Giulio Regeni si trasferì al Cairo la macchina di repressione di Al-Sisi funzionava già a pieno regime. Giulio stava entrando nelle viscere della società egiziana probabilmente proprio perché ne comprendeva la complessità, la stratificazione, le contraddizioni e le ingiustizie che scandiscono la vita dei cittadini egiziani al pari di quella dei tanti popoli che vivono sotto il giogo di una dittatura.

L’Italia e l’Europa hanno urgente bisogno di un’articolata riflessione (che vada ben oltre le invettive di singoli parlamentari e le risoluzioni del Parlamento UE, destinate a rimanere lettera morta) sul proprio ruolo politico ed economico nelle dinamiche di potere mediorientali, ma non è con soluzioni populiste, eurocentriche ed impulsive che si troveranno soluzioni durature per il bene di tutti. A meno che non si decida di rinchiuderci nella Fortezza Europa e confessare la nostra programmatica indifferenza ai patemi del resto del mondo.