La normalità rappresenta senz’altro un concetto relativo, specialmente quando si sta parlando di guerra o di un dopoguerra. Eppure, quella serata di cento anni e un giorno fa, il 3 maggio 1919, si può considerare “normale” se vista nel contesto storico della Cina di quegli anni.
È vero che un’assemblea dai toni tesi ed emozionati si tenne all’Università di Pechino, convocata quello stesso pomeriggio e aperta a tutti gli studenti della capitale. Chi partecipava espresse preoccupazione per le mire giapponesi sullo Shandong, provincia costiera della Cina, e per le sorti del Paese in generale.
C’erano sensibilità diverse. Yang Zhensheng era originario proprio dello Shandong, aveva la fama di radicale e criticava la tradizione classica considerandola un impedimento per il progresso del popolo. Non diverso era lo spirito di Diario di un pazzo, la novella pubblicata nel 1918 da Lu Xun che si avviò a diventare il principale scrittore moderno della Cina.
Xu Deheng si considerava invece un patriota, era un attivista della prima ora e provava avversione per i radicali come Yang, ma era convinto della necessità di fare fronte comune. Yu Pingbo era uno tra i più giovani studenti alla riunione, tanto che i genitori gli proibirono di partecipare alla manifestazione del giorno dopo. Questo non gli impedì di diventare uno dei principali apologisti di quei giorni, celebrandoli negli anni successivi.
Fu Sinian era impegnato nella politica come i suoi compagni e, come Yang, aveva sicuramente a cuore le sorti della sua provincia natia, lo Shandong, ma le sue parole alla riunione del 3 maggio consigliavano prudenza e suggerivano di non esacerbare gli animi. Questi giovani studenti formavano insieme la redazione della rivista Xinchao («Nuova Marea»), una tra le più influenti di quell’anno.
Tutto questo era dunque vero; eppure, si trattava della “normalità” per i cinesi. Da quasi ottanta anni, le sconfitte della Cina nelle Guerre dell’Oppio e, soprattutto, la sconfitta subita contro un Paese ex tributario, il Giappone, avevano innescato una serie di crisi ininterrotte, di alti e bassi, di speranze e delusioni.
I fatti del maggio 1919 furono solo l’ultimo anello di una lunga catena. Per esempio, una ferita aperta come la statua in memoria di Clemens von Ketteler, ambasciatore tedesco ucciso per vendetta durante la Rivolta dei Boxer, era stata riaperta appena sei mesi prima: il monumento fu distrutto e l’intero memoriale dovette essere trasferito fuori città.
Proprio per questa “normalità” non sorprende che la giornata del 4 maggio, del resto, sia cominciata senza particolari sussulti.
Anzi, la prospettiva di una manifestazione pacifica fu confermata dalla scelta di Fu Sinian come presidente del comitato organizzativo. La sua figura sembrava concentrare un misto di determinazione e cautela.
Richiamava i suoi continuamente alla moderazione, ma come i suoi sodali era intenzionato a portare avanti una pubblica protesta contro la corruzione dei politici cinesi e l’espansionismo giapponese. Per farlo scelse di partire da piazza Tian’anmen, il cuore della Cina imperiale e poi di quella repubblicana.
All’una di pomeriggio, 3mila studenti da 13 istituti scolastici e universitari si riversarono al punto di incontro designato ed elaborarono un manifesto con la pretesa di rappresentare “tutti” gli studenti di Pechino.
Il testo riprese le questioni del giorno precedente estremizzandole, quasi che l’espansionismo giapponese segnasse nel 1919 un punto di non ritorno.
I manifestanti presero a marciare verso il Quartiere delle Legazioni, la zona a sud della Città Proibita in cui sorgevano le ambasciate straniere. Come era successo nella riunione della sera precedente, la manifestazione del 4 maggio aveva tante anime e nel suo breve percorso emersero anche quelle dotate di una carica rivoluzionaria.
La devastazione della casa di Cao Rulin, ministro dei Trasporti filogiapponese, e il pestaggio di Zhang Zengxiang, ambasciatore in Giappone, espressero la rabbia incontenibile degli studenti per il lassismo delle alte sfere politiche. L’idea che una rottura fosse necessaria fu forse simboleggiata da un gesto: il taglio del codino, retaggio di devozione e fedeltà verso la decaduta dinastia mancese dei Qing.
A nulla valse l’intervento del Ministero dell’Istruzione, della polizia e delle autorità accademiche che tentavano di calmare la protesta. Sun Yat-sen, leader del movimento nazionalista, salutò «l’entusiasmo patriottico» dei giovani scesi in piazza, anche egli avrebbe dichiarato in più occasioni di non avere interesse per le idee politiche di quel periodo.
Il Movimento del 4 maggio è considerato infatti il momento in cui iniziarono a circolare nuove dottrine e si sperimentarono nuove iniziative, specialmente quelle ispirate all’anarchismo e al marxismo.
Quest’ultimo filone, in particolare, ricevette un certo impulso dalla rinuncia di Mosca ai diritti extraterritoriali russi in Cina e alle relative Concessioni, anche se questo processo si rivelò più lungo e complesso di come viene spesso ricordato.
Il caso di Sun Yat-sen mostra come non ci fossero soltanto anime diverse tra i giovani del Movimento del 4 maggio, ma le risposte cambiavano anche tra una generazione e l’altra.
I riformatori come Liang Qichao o i rivoluzionari come Chen Duxiu, futuro primo segretario del Partito Comunista Cinese, avevano più anni alle spalle e si mostrava scettici sul significato del movimento e sull’idea di un patriottismo puro e semplice.
Alcuni storici, come Vera Schwarcz, hanno spiegato questa perplessità osservando che i più vecchi avevano vissuto la delusione delle riforme ottocentesche e della rivoluzione repubblicana.
Il vero tratto distintivo del Movimento del 4 maggio diventerebbe allora l’idea che, secondo i più giovani, la Cina poteva cambiare partendo dal basso. Non a caso, diversi storici cinesi, come Bai Shouyi, indicano questo momento come l’ingresso delle masse sulla scena pubblica, una novità ricca di conseguenze negli anni Venti.
In generale, un “incidente” (shijian) nella storia cinese, come fu quello del maggio 1919, assomiglia a un cristallo rifrangente che scompone la luce neutra in colori diversi a seconda di come lo si guarda. Dunque, qual è il senso di un avvenimento come il Movimento del 4 maggio, teso tra fatti e mito?
Uno storico che ha studiato l’altro Paese simbolo della rivoluzione nel Novecento, cioè la Russia comunista, ha tratto una considerazione generale sul rapporto tra passato e presente mentre rifletteva su alcuni nodi della storia sovietica: secondo Michael Confino, «il vero problema non è imparare qualcosa sul passato a partire dal presente, ma imparare in quali modi il presente interviene costantemente sulla nostra comprensione del passato».
Si potrebbe dire quindi che la storia è una maniera per liberarsi del passato. Ovviamente, “passato” in questo caso indica un insieme di stereotipi su quello che è stato nonché sui vantaggi o gli svantaggi che ciò comporta nel presente. Il nazionalismo, per esempio, può essere concepito come una giustificazione per riaffermare alcuni diritti esclusivi oltreché come un trait d’union tra ieri e oggi.
Basterebbe domandare cosa sia il Movimento del 4 maggio a un cinese istruito o a uno studente italiano di un corso di Storia della Cina: si comprenderebbe quanto la risposta possa risultare assertiva e priva di qualsivoglia dubbio, scandita dalla ferrea successione di soggetto, verbo essere all’indicativo e complemento oggetto.
Questo tipo di risposta è davvero tanto diversa dalle spiegazioni presunte e presuntuose dei nazionalisti di oggi, i cui antenati avrebbero scritto i confini dell’Italia? (Specialmente quelli costieri…). Il 4 maggio 1919, come si è visto, fu tutt’altro che un fenomeno omogeneo e semplice da interpretare.
Proprio perché considerato intimamente cinese, ci si dimentica spesso di una sfaccettatura tra le più importanti: la dimensione internazionale. In diversi casi, si sono citati in questo articolo l’espansionismo giapponese e la corruzione politica.
A che cosa ci si riferisce precisamente? Alle decisioni prese alla Conferenza di Parigi che chiuse la Prima Guerra Mondiale e assegnò le Concessioni dei Paesi sconfitti al Giappone, Potenza vincitrice e, al contempo, principale nemico della Cina in Asia orientale.
Che titolo avevano i cinesi per pretendere una conclusione diversa da questa? Quello di avere “partecipato” al conflitto. Alleato dimenticato, Pechino aveva insistito a lungo per schierarsi a fianco della Triplice Intesa e, quando era stata accettato, aveva messo a disposizione l’unico capitale di cui disponeva: la forza lavoro. Proprio in questo periodo cominciò oppure aumentò, se già iniziata, l’emigrazione cinese in Europa. Molti, imbarcati sulle navi dirette a ovest, morirono sotto i colpi dei sommergibili tedeschi.
Come ha mostrato lo storico Xu Guoqi, questi altissimi costi e la scelta stessa di prendere parte al conflitto non furono casuali: la guerra “europea” fu vista dal Ministero degli Esteri cinese come un rischio e un’opportunità allo stesso tempo.
Intervenendo, Pechino sperava di riottenere le Concessioni dei Paesi sconfitti. Quando le Potenze vincitrici, gli Stati Uniti di Woodrow Wilson in primis, disconobbero l’impegno cinese alla Conferenza di pace e favorirono invece Tokyo a fine aprile, la notizia arrivò velocemente a Pechino e fu all’origine della rabbia esplosa nelle proteste di maggio.
Oggi, cento anni dopo, il Movimento del 4 maggio rappresenta quindi un evento di rilievo non soltanto per la storia cinese ma per la storia globale.
In qualche modo, la Cina era ormai parte di dinamiche che oltrepassavano i suoi confini nazionali, ben più ampie di quanto non fosse stato in passato.
Il mondo appariva interconnesso in termini non soltanto di idee ma anche di azioni e progetti politici concreti. Chiaramente, il nazionalismo faceva parte di questa temperie culturale, ma per l’appunto ne fu solo una parte.
Quando ripensiamo al 4 maggio e sottolineiamo questo aspetto più di altri, la nostra prospettiva è condizionata dall’odierna Repubblica Popolare Cinese così come la conosciamo oggi o, meglio, come ci viene spesso presentata: un attore in pieno sviluppo, attivo in contesti delicati come il Mar Cinese Meridionale, che ha interessi nazionali ben delineati in un mondo che, però, è nettamente diverso da quello del primo dopoguerra e della Guerra Fredda.
Il multimedia interattivo dedicato al Movimento del 4 maggio in Cina