Ciad, la fine di Déby

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26 Aprile 2021

L’uomo che combatteva il terrorismo, e terrorizzava ogni forma di opposizione democratica

Martedì 20 aprile, a poche ora dalla conferma ufficiale della sua rielezione con il 79% dei suffragi, la televisione nazionale ciadiana ha annunciato la morte del presidente, Idriss Déby Itno.

Secondo la versione ufficiale, Déby è stato mortalmente ferito sul fronte durante gli scontri con i ribelli del Front pour l’Alternance et la Concorde au Tchad (FACT). Il FACT è uno dei numerosi gruppi militari armati che controllano varie zone del Sahara e, dopo il fallito assalto a Tripoli al seguito del generale Haftar lo scorso anno, si è posizionato nella zona di frontiera tra Libia e Ciad.

L’11 aprile, giorno dello scrutinio elettorale in Ciad, il FACT ha annunciato l’inizio di una campagna militare contro il governo di Déby. La stampa ciadiana ha riportato aspri combattimenti nella regione del Kanem Bornou, circa 300 km a nord della capitale, tra il 17 e 18 aprile, conclusisi con la “ritirata strategica” dei ribelli.

Sarebbe in questi scontri che il presidente ciadiano è rimasto ferito, per poi spirare nella capitale del paese, N’Djamena. L’annuncio della morte è stato dato dalle forze armate ciadiane, che hanno contestualmente annunciato lo scioglimento di governo e parlamento e la consegna di tutti i poteri al neonato Conseil Militaire de Transition (CMT), presieduto dal generale di corpo d’armata (e figlio del defunto presidente) Mahamat Idriss Déby Itno.

Il mandato formale del CMT è di garantire indipendenza, integrità ed unione nazionale, il rispetto di trattati ed accordi internazionali ed assicurare la transizione per una durata di 18 mesi, al termine dei quali verranno indette nuove elezioni.

Si tratta, oggettivamente, di un colpo di stato, dal momento che la costituzione del paese avrebbe previsto il passaggio dei poteri al presidente dell’Assemblea Nazionale, Haroun Kabadi, esponente del partito di Déby, il Movement Patriotique du Salut (MPS), e la convocazione di nuove elezioni presidenziali.

Opposizione, sindacati e associazione della società civile hanno fortemente condannato l’estromissione delle istituzioni repubblicane dalla gestione della transizione. Di fatto, Mahamat Idriss Deby era già il delfino scelto dal defunto presidente per garantire la continuità del regime. I tragici eventi del 20 aprile hanno costretto ad affrettare la successione attraverso l’istituzione del CMT, nel timore che il vuoto lasciato dalla morte di Déby potesse generare lotte fratricide all’interno del regime.

La Francia ha immediatamente riconosciuto il CMT, mentre Stati Uniti e Regno Unito hanno espresso timide perplessità ed evacuato il personale non essenziale dalle loro ambasciate. 

Nato nel 1952 nella regione settentrionale dell’Ennedi in un piccolo villaggio Zaghawa, un importante gruppo etnico del Sahara Ciadiano, Idriss Déby Itno è stato il leader incontrastato del Ciad dal 1 dicembre 1990, giorno in cui le sue forze entrarono a N’Djamena ponendo fine al regno del terrore del suo predecessore ed ex-alleato Hisséne Habré, al momento in carcere in Senegal per i crimini contro l’umanità compiuti dal suo regime. Déby promise una radicale trasformazione nel governo del paese, con la celebre dichiarazione alla radio nazionale che il suo arrivo a N’Djamena non stava portando “ne oro, ne soldi, ma libertà”. Le sue successive azioni smentirono questa promessa e guardando al suo curriculum non vi era in effetti ragione di riporvi troppe speranze.

Come molti ufficiali dell’esercito ciadiano, Déby si formò in Francia per poi entrare nelle forze armate nei turbolenti anni ’70.

È un periodo complicato per il paese: dopo l’indipendenza dalla Francia nel 1960, le tensioni tra le diverse componenti del paese, in particolare tra un nord prevalentemente musulmano ed un sud cristiano ed animista raggiungono il loro apice con i massacri del 1979 – 1982, in cui civili di entrambi le parti furono trucidati nel paese.

Queste divisioni furono fomentate per anni dal governo coloniale, che aveva interesse ad un paese diviso per prevenire velleità indipendentiste, ed emersero in tutta la loro pericolosità dopo l’indipendenza.

Dopo una prima fase in cui il potere centrale fu gestito da presidenti del sud (François Ngarta Tombalbaye e Felix Malloum), che rimpolparono le burocrazie statali con ufficiali affini per affiliazione etnica e religiosa, con Habré, musulmano di un altro influente gruppo etnico sahariano, i Tubu, il baricentro del potere si spostò a nord. Habré era benvoluto da Francia e Stati Uniti per la sua opposizione alle mire espansionistiche del Colonnello Gheddafi, ed ebbe mano libera per reprimere con violenza le ribellioni sudiste e fronteggiare gli attacchi libici nel nord, in quella che passerà alla storia come la “guerra delle toyota”. Habré imporrà una tetra calma al paese, al prezzo di decine di migliaia di morti tra guerre, repressione e carestie.

Col tempo, l’alleanza tra i due grandi gruppi del deserto, i Tubu di Habré e gli Zaghawa di Déby, si deteriorano. Nel 1989 Déby tenta invano di rovesciare il governo ed è costretto a rifugiarsi nell’est del paese, da cui tornerà vincitore un anno dopo, costringendo Habré ed i suoi accoliti ad una precipitosa fuga in Cameroon con buona parte delle riserve finanziarie del paese. È l’inizio del regno di Déby, che durerà fino al 20 aprile scorso. 

Gli anni ’90 sono un periodo di rinnovamento per l’Africa francofona: la guerra fredda è finita e gli stati africani indeboliti dalla crisi del debito e dalle riforme strutturali del decennio precedente vengono spinti a democratizzare e decentralizzare le loro istituzioni.

Déby promette di seguire questa tendenza: nel 1993 convoca la Conference Nationale Souveraine, in cui i partiti e gli attori della società civile – vietati ai tempi di Habré – vengono invitati per pensare ad una nuova costituzione democratica ed inclusiva. La costituzione democratica e multipartitica – che tratteggia un sistema presidenziale con un limite di due mandati per il presidente – è approvata tramite referendum nel 1996.

Nello stesso anno Déby viene eletto per la prima volta presidente, assieme ad una nuova assemblea nazionale guidata da uno dei leader storici del sud, Wadel Abdelkader Kamougué ed un governo comprendente rappresentanti di diversi partiti ed aree geografiche del paese.

In questi anni vengono aperti nuove radio, giornali, partiti politici ed associazioni della società civile, mentre vengono istituite per la prima volta istituzioni locali elettive, come i municipi, le regioni ed i dipartimenti. In ambito economico, il paese riceve ampi aiuti umanitari per riprendersi dalle guerre ed i saccheggi di Habré e, nel 1999, negozia un prestito con la Banca Mondiale per avviare lo sfruttamento delle risorse petrolifere del sud, impegnandosi ad impiegare parte dei proventi per interventi pubblici nelle zone interessate.

Nel 2003, il completamento dell’oleodotto che collega il sud del Ciad alle coste del Camerun e l’avvio dell’estrazione del greggio, così come l’apparente concordia tra gruppi rivali sembrano poter essere l’occasione per un reale cambiamento dopo decenni di guerre civili e le pessime infrastrutture ereditate dal governo coloniale.

Tuttavia, i ruoli cardini dello stato vengono controllati da fedelissimi del presidente e le elezioni del 2001 – vinte da Déby con il 63% dei suffragi – sono criticate per i massicci brogli. Le neonate istituzioni locali non saranno mai rese effettive (a parte alcune municipalità nel 2012) e gli interventi infrastrutturali necessari al paese, come la costruzione di strade asfaltate percorribili anche nella stagione delle piogge, sono appannaggio delle imprese vicine alla famiglia di Déby.

L’utilizzo dei proventi del petrolio porterà ad una drammatica rottura tra il governo ciadiano e la Banca Mondiale, che abbandonerà il progetto nel 2005.

Déby ha utilizzato i soldi per acquistare armamenti a discapito delle opere di pubblica utilità previste dall’accordo, mentre le compensazioni per gli abitanti delle zone petrolifere così come le infrastrutture e la protezione dell’ambiente si dimostrano vuote promesse. Il Ciad aprirà in seguito altri siti di esplorazione petrolifera in partenariato coi cinesi, che non pongono condizioni sull’uso della rendita petrolifera. 

Il 2005 è un anno importante per un altro evento cruciale: le tensioni nel confinante Dar Fur stanno aumentando e Déby sostiene la resistenza armata al governo di Khartoum. Il dittatore sudanese Omar al-Bashir lo ripaga con la stessa moneta, armando i ribelli che vogliono detronizzare il presidente ciadiano. La minaccia alla stabilità del paese è il pretesto con cui Déby (secondo la sua versione con la benedizione della Francia) elimina il limite costituzionale di due mandati presidenziali, venendo nuovamente eletto l’anno successivo, nel 2006, attraverso elezioni boicottate dalle opposizioni.

Déby ingaggia un duro confronto con i ribelli, che nel febbraio del 2008 arrivano ad assediare il palazzo presidenziale di N’Djamena, prima che l’intervento degli elicotteri da guerra di stanza nella base francese ne eviti la capitolazione.

Non è mai stato chiarito cosa spinse i francesi prima ad attendere e poi ad intervenire, ma i saccheggi ed il massacro finale dei ribelli in quel turbolento febbraio furono l’ultimo evento di guerra nelle strade della capitale ciadiana.

Nel 2010 Déby si riappacifica con la sua nemesi sudanese, stabilizzando le frontiere orientali del paese. Sono tuttavia anni che portano nuove sfide: il prezzo del petrolio è molto instabile dopo la crisi globale del 2008 e le primavere arabe, spazzando via il regime di Muammar Gheddafi, hanno portato nuove tensioni nella regione, questa volta alle frontiere settentrionali, dove gruppi armati distaccatisi dal regime libico si muovono liberamente tra le sabbie sahariane; e alle frontiere occidentali, per la sempre più concreta minaccia della setta nigeriana Boko Haram. Déby fiuta l’occasione: non potendo più proporsi come leader di una mai avvenuta rinascita democratica, né contare sulla rendita petrolifera per rilanciare l’economia e rinforzare i consensi, utilizza il suo esercito – rafforzato grazie ai soldi del petrolio e saldamente controllato dalla sua famiglia – per proporsi all’occidente come baluardo della stabilità regionale contro la minaccia islamista.

Nel 2013 il Ciad invia i propri soldati in Mali, fornendo alla coalizione capeggiata dalla Francia carne da cannone da mandare in prima linea e pagando un prezzo altissimo in vite umane.

L’anno successivo N’Djamena diventa il quartier generale dell’operazione Barkhane, supportata dalla Francia ed i suoi alleati per combattere le insurrezioni islamiste nel Sahel. Déby diviene il pilastro di questa battaglia, resa ancor più delicata dal timore di drammatici flussi migratori verso l’Europa, analogamente a quanto sta avvenendo con la crisi siriana. 

Consapevole che la Francia non oserà contraddirlo, Déby rafforzerà ulteriormente i suoi poteri arrivando a proporre una nuova costituzione (approvata senza referendum nel 2018) ed un uso spregiudicato della forza contro ogni protesta interna.

Nel frattempo, il paese è diventato un bersaglio del terrorismo internazionale: nel 2015, due bombe di Boko Haram hanno riportato il terrore a N’Djamena, dando il via ad un lungo periodo di instabilità mai risolta nella regione del lago Ciad. La guerra al terrorismo puntella il regime a livello internazionale, ma sono i ciadiani a pagarne il prezzo: l’economia ristagna, i salari dei dipendenti pubblici sono tagliati e pagati in ritardo e la lotta al terrorismo giustifica un rinforzato autoritarismo.

Le elezioni presidenziali del 2016 sono precedute da tensioni e proteste per una agghiacciante violenza sessuale di gruppo perpetuata da giovani legati a figure di spicco del regime, come già raccontato da Q Code, e vedono la scontata conferma del presidente in carica col 61%. Non si sa esattamente quanti ciadiani siano caduti nelle operazioni in Mali e nel lago Ciad, ma si stimano numeri tragicamente elevati. Solo nel marzo dello scorso, anno un attacco a sorpresa di Boko Haram porta al massacro di 98 soldati ciadiani, spingendo il presidente Déby nuovamente in prima linea, per rinsaldare in un paese scosso e sempre più provato l’immagine di uomo forte.

In questo fosco quadro generale, le elezioni del 2021 sembravano una formalità: l’ultimo abbozzo di ribellione interna fu bloccato sul nascere dai caccia francesi nel 2019 e l’opposizione interna cancellata, con il divieto agli oppositori più in vista di partecipare alle elezioni ed il tragico massacro nell’abitazione di Yaya Dillo Djérou, un ex alleato di Déby cui la polizia ha assassinato cinque parenti stretti, tra cui la madre ed il figlio, nel tentativo fallito di arrestarlo lo scorso febbraio.

Mentre si attendeva il ritorno vittorioso del neoeletto presidente dal fronte, è giunta la notizia della sua morte e dell’immediato passaggio di poteri al figlio, oggi al timone del paese in acque inesplorate. 

Chi ha vissuto gli anni prima di Déby ricorda le lunghe guerre, la repressione sanguinaria di Habré, un paese in cui percorrere pochi chilometri nella stagione delle piogge richiedeva giorni e l’elettricità era un bene raro anche nei centri urbani. Déby ha portato una dittatura meno soffocante (ma altrettanto spietata) e la relativa stabilità per gran parte del suo mandato ha consentito di ammodernare in parte le vetuste infrastrutture del paese.

Sebbene in Ciad l’accesso della popolazione ad acqua, elettricità e rete telefonica rimanga tra i più basse del continente, sotto il suo regime le condizioni sono lentamente migliorate, almeno per parte dell’élite urbana. Le nuove generazioni cresciute nelle città possono navigare su internet con telefoni cinesi, si spostano più facilmente attraverso il paese e sono sempre più insofferenti ad accettare decisioni sul loro paese prese in capitali straniere, così come a vedere quelli che sono comunemente chiamati “gli intoccabili”, ossia gli Zaghawa e gli altri alleati del presidente, commettere impunemente i crimini più efferati.

C’è ormai un’insofferenza generalizzata per un sistema in cui le élite Zaghawa vivono nel lusso, mentre i funzionari pubblici vengono pagati poco e spesso in ritardo, le assunzioni nella pubblica amministrazione avanzano a rilento ed i giovani diplomati restano per anni a lavorare nel settore informale, mentre mancano maestri, medici, infermieri e nelle campagne vengono reclutati contadini scarsamente alfabetizzati per coprire ruoli cruciali, come quello di maestro elementare, in cambio di retribuzioni meramente simboliche.

Le recenti e vittoriose sommosse popolari contro i despoti Blaise Compaoré in Burkina Faso, Omar al-Bashir in Sudan e Abdelaziz Bouteflika in Algeria, oltre alla transizione avviata in Mali, ravvivano le speranze dei ciadiani, le cui proteste negli ultimi anni sono state brutalmente represse sul nascere. Per loro questa transizione rappresenta sicuramente il pericolo che le tensioni mai risolte tra diverse fazioni del regime riemergano e riportino il paese agli anni terribili delle guerre civili, che nessuno vorrebbe mai rivivere, ma anche la speranza in un futuro diverso. 

La morte di Déby ha invece seminato il panico tra le capitali occidentali, che vedevano nel suo regime un argine contro i movimenti islamisti ed i flussi di migranti attraverso il Sahara, e temono la crescente influenza di nuove potenze, come la Cina, la Russia e la Turchia, sempre più presenti ed assertive nell’area. Voci di una possibile regia del governo russo – già saldamente insediato nella vicina repubblica centrafricana – dietro l’avanzata del FACT in virtù della sua vicinanza ad Haftar sono frequenti, ancorché senza prove. I caccia dell’operazione Barkhane, il cui mandato ufficiale è di combattere il terrorismo islamista, hanno bombardato a più riprese i ribelli del FACT durante i funerali di Déby.

All’indomani del funerale, il 24 aprile, il leader del FACT, Mahamat Mahdi Ali, ha dichiarato di aver sospeso l’attacco su N’Djamena e di essere pronto a negoziare con l’attuale leadership ciadiana. Macron ha assistito ai funerali accanto al neo-dittatore Mahamat Idriss Déby Itno ed ha promesso che la Francia garantirà la stabilità e l’integrità del Ciad, senza menzionare i diritti civili dei suoi cittadini.

L’ansia di controllo e stabilità degli europei difficilmente produrrà soluzioni durature se continuerà ad ignorare il bisogno di diritti ed opportunità delle popolazioni locali. Studiosi, attivisti e membri della società civile in Sahel ed in Europa criticano da tempo la strategie anti-terrorismo nell’area, che crea nuove tensioni invece di eliminare i movimenti islamisti.

Finché i ciadiani – così come i cittadini degli altri paesi del Sahel – non avranno la possibilità di vivere sotto un governo capace di coinvolgerli nelle decisioni politiche e nella gestione delle risorse, i gruppi terroristici avranno gioco facile a trovare supporto nel vasto territorio sahelo-sahariano, e ci saranno sempre giovani pronti ad affidarsi ai trafficanti d’uomini per cercarsi un futuro altrove.

Questa è la debolezza di fondo della politica occidentale verso il Sahel, convinta che governi autoritari rappresentino la sola via per la stabilità. La fine di Déby, morto esercitando il potere nell’unico modo in cui ne era capace, mostra i limiti di questo approccio miope ed egoista.

Il giorno della sua morte, è circolato uno degli ultimi discorsi di Déby, un fosco presagio riguardo al futuro: “Avete mai visto un capo di stato che prende le armi e va a combattere?  Voi pensate che lo faccia perché sono coraggioso? No, lo faccio perché amo questo paese e non voglio che arrivi il caos. Preferirei morire sul fronte e non dover assistere al caos nel paese”. La speranza dei ciadiani è che la sua morte non sia l’inizio di una nuova fase di caos e violenze, ma possa facilitare la transizione democratica finora negata e renderli finalmente liberi di decidere del proprio futuro.