Nel 1989 un primo referendum mandò in pensione il generale Pinochet, nonostante il clima di grande incertezza e paura: il no vinse (56%) impedendogli di rimanere in carica per altri otto anni.
Seguì un altro referendum, per garantire il pluralismo politico, e così nel 1990 tornò la democrazia in Cile.
Fu eletto presidente Patricio Aylwin (Democrazia Cristiana), a lui si attribuisce una frase che dà conto di tutta la storia recente del Cile: “Faremo la democrazia nei limiti del possibile”.
La vittoria del 1989 fu tiepida: la fine della dittatura è stata concordata istituzionalmente, nessun cambiamento radicale, nessun processo per la giustizia e la memoria, né il ridimensionamento del potere miliare. In sostanza, la generale incapacità di emanciparsi dalle scelte imposte dalla dittatura.
Un anno fa il risveglio da questo incubo durato trent’anni. Nell’ottobre 2019 prende piede l’estadillo social.
Nonostante il 15 novembre venga firmato in parlamento un “accordo per la pace e la nuova costituzione”, la rivolta costituente continua, non si ferma davanti alla pandemia e accompagna il popolo al referendum del 25 ottobre scorso.
Con il 78,25 % dei voti a favore di una nuova costituzione, la vittoria dell’APRUEBO (per una nuova costituzione) è schiacciante e supera perfino le aspettative. Il secondo quesito ha sancito che la costituzione sarà redatta da un’assemblea (79%) interamente eletta tramite voto popolare; modalità preferita rispetto alla convenzione mista (21%) che avrebbe previsto anche esponenti del congresso.
E’ festa grande, e ancora una volta Plaza Dignidad si riempie. Ci sono gli studenti, i movimenti anti-patriarcali, riecheggiano le voci dei compagni e delle compagne arrestate durante la rivolta (oltre 3mila), di cui la piazza chiede la liberazione immediata.
Poi ci sono i lavoratori, gli ambientalisti, i migranti, i bambini e le bambine, i popoli nazionali indigeni, chi non ce la fa ad arrivare a fine mese, la primera línea, i ciclisti, i leaders territoriali, gli anziani, la classe media impoverita, il mondo della cultura, le famiglie dei troppi morti della rivolta (ufficialmente 44), i partiti e i sindacati di base.
La sensazione è di rinascita. Si respira gioia, speranza, determinazione e tanta voglia di riscrivere la propria storia collettiva, non mancano però le preoccupazioni e le incognite.
L’11 aprile 2021 i cileni e le cilene voteranno per scegliere i 155 membri della costituente. La parità di genere sarà garantita (e calcolata per ogni singolo distretto elettorale), mentre rimane aperta la questione dei seggi riservati ai popoli originari (al momento è al vaglio una proposta che ne chiede 23).
Si discute sul diritto di voto dei cileni e delle cilene residenti all’estero, le forti limitazioni ai loro diritti politici hanno una ragione – scusate il gioco di parole – storicamente politica: silenziare gli esuli del golpe e le loro famiglie.
La comunità cilena internazionale ha mostrato grande solidarietà e partecipazione alla rivolta, ed ha presentato una proposta di legge per chiedere la creazione di distretti internazionali a loro dedicati.
La questione centrale è forse quella dei candidati indipendenti, perché essi saranno espressione delle forze sociali e popolari che hanno animato la rivolta.
Essi potranno partecipare da soli o all’interno di liste dedicate, ma i criteri sono in generale più stringenti per loro che per i partiti.
La capacità di queste “forze emergenti” di essere rappresentate dipenderà da molti fattori: le alleanze tra le varie componenti del movimento, le scelte dei votanti, il dialogo tra i movimenti sociali organizzati e i settori non organizzati della protesta, ma fondamentale sarà anche l’equità del sistema elettorale.
Il giorno scelto per la registrazione delle candidature è l’11 gennaio 2021 ed è evidente che questa sarà una data cruciale, secondo alcuni ancora più importante di quella dell’11 aprile.
Una volta formata l’assemblea, le riforme saranno approvate con una maggioranza qualificata dei 2/3. Come ottenere il quorum sufficiente o come formare uno schieramento compatto di almeno un terzo (così da poter esercitare potere di veto), apre riflessioni sulle scelte strategiche non solo del movimento, ma anche degli schieramenti politici istituzionali: la destra governista, le ali più moderate della sinistra che tante volte hanno tradito le istanze di democratizzazione (Concertación) e la sinistra più radicale (i cui esponenti centrali sono il Partito Comunista e il Fruente Amplio).
I movimenti sociali sanno che è il momento di tenere alta la guardia e la testa. Lo spazio di democrazia che si è aperto con il referendum è fondamentale, ma il processo di cambiamento è ancora più trasversale ed è stato innescato dal basso.
Per questo la pressione popolare sul processo costituente continuerà e sul tavolo ci sono molte proposte importanti. Per esempio abbassare l’età di voto a 16 anni (studenti e teens hanno avuto un ruolo centrale nelle proteste), fare sì che i criteri di candidatura siano uguali per tutti (indipendenti e non), creare uno schieramento compatto tra tutte le forze anticapitaliste.
Come dicono in Cile: “vamos por todo, si no pa’ qué” – “vogliamo tutto, se no che senso ha?”.
Le sfide sono moltissime, ma esaltanti: creare un sistema socio-economico più giusto ed emanciparsi dal neoliberismo; formare una classe politica nuova radicata nei territori e nelle assemblee; redigere una costituzione inclusiva e plurinazionale, dove siano rappresentati tutti coloro che non hanno mai avuto rappresentanza; rinsaldare ulteriormente il senso di unità e di riconoscimento collettivo che è germogliato nell’ultimo anno.