Coordination Denied – Gaza

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19 Ottobre 2018

Un libro su un workshop fotografico che non si è mai riusciti a fare a Gaza

Io e Rosy* ci stiamo compiacendo dei bellissimi fondali per gli autoritratti che abbiamo trovato quando arriva la chiamata di Serena, coordinatrice di Vento di Terra, per avvisarci che ci è stato negato il coordinamento per l’accesso alla Striscia di Gaza. Panico. Il volo per Tel Aviv è per il giorno dopo.

E adesso? Tutti i nostri piani per rinforzare l’autostima dei ragazzi della scuola media del campo profughi di Rafah attraverso un percorso di auto narrazione attraverso le immagini? E come se non bastasse la motivazione del diniego dell’Ufficio per il Coordinamento Israeliano ci spiazza ancor di più: il nostro lavoro non sarebbe compatibile con una missione di tipo umanitario!

Frustrazione. Non è forse la stessa frustrazione, a dosi molto minori, di quella vissuta tutti i giorni dai Palestinesi? Non possiamo andare dove vogliamo. La prima reazione è quella di abbandonare tutto ma Rosy a un certo punto sbotta, Io vado lo stesso!

E così mentre voliamo verso Tel Aviv nasce l’abbozzo di idea che diventerà Coordination Denied, un libro su un workshop che non siamo mai riusciti a fare a Gaza ma che faremo attraverso Facebook e con largo uso di Google Translate.

Certo, sarà un dialogo un po’ rozzo e improvvisato ma come impareremo da questa esperienza: molto meglio che non dialogare affatto.

La Terrasanta, è uno di quei posti che hai memorizzato in un angolo del cervello sin da bambino, frutto di ore di religione e telegiornali, ma esserci davvero, là è nato Gesù, qua ci sono davvero i checkpoint e i murales di Banksy.

Sembra un immenso parco tematico con due temi che convivono, quello della religione e quello dell’oppressione, ma bastano un paio di giorni per farci passare l’entusiasmo naive dei turisti e farci capire che la realtà palestinese è ancora più triste di quella immaginata. Ci stabiliamo a Betlemme dove finalmente riusciamo a organizzare il nostro collegamento con Gaza. 

Droni, telefonate monitorate, gente che viene schedata e prelevata nel cuore della notte. Non è facile la vita per i palestinesi ed è comprensibile che possano essere sospettosi, come reagiranno i nostri ragazzini?

Per mostrarci a loro come persone vere e ottenere la loro fiducia decidiamo di fare noi quello che gli chiederemo di fare: farci degli autoritratti e raccontare attraverso le imagini quello che vediamo e che ci colpisce. Cercheremo di instaurare un dialogo per immagini con i ragazzini di Rafah.

Ogni giorno, dopo il tramonto, chattiamo con i nostri 30 ragazzi mentre durante la giornata visitiamo diversi luoghi tra Israele e i Territori Palestinesi: Hebron, Ramallah, Gerusalemme, Tel Aviv.

Uno dei luoghi che Rosy tiene di più a visitare è il perimetro di Gaza. Lungo il confine c’è questa altura presso la città di Sderot da cui si può vedere buona parte della Striscia, è un luogo idilliaco, all’ombra di grandi pini d’Aleppo, dove alcuni vanno a fare pausa pranzo ma che è stato reso tristemente famoso dalle immagini degli israeliani che andavano a guardare i bombardamenti del 2014 come fosse uno spettacolo pirotecnico.

È in luoghi come questo che sentiamo il bisogno di farci i nostri autoritratti. Fotografarci diventa un modo per affermare la nostra presenza/esistenza e vogliamo che ai ragazzi al di là della recinzione, dentro quella che chiamano la più grande prigione del mondo arrivi il messaggio: Siamo qua, il più vicino possibile a voi e siamo testimoni di quello che succede.

Nonostante i frequenti black out nella Striscia, da Rafah ci manderanno più di 800 foto, fatte con mezzi semplici come lo smartphone chiesto in prestito al papà o alla sorella maggiore.

“Queste foto potrebbe averle fatte mia figlia”, esclama Rosy una delle notti passate davanti al computer. Ecco, è triste da dire ma ci aspettavamo foto più violente, semplicemente perché da sempre se vediamo una foto di Gaza è una foto violenta.

Qualche foto di casa distrutta c’è, per i ragazzi che si sono visti bombardare la casa nel 2014, durante Protective Edge ma perlopiù sono foto di quaderni di scuola, camerette, papà, gelati e un sacco di serre piene di fragole. Sembrerà strano, ma se ora pensiamo a Gaza la prima immagine che ci viene in mente è una fragola.

Qualche giorno dopo il workshop, Rosy riparte e io vengo invitato da amici israeliani a festeggiare Pesach, la pasqua ebraica. È il 30 marzo e nella Striscia inizia la Great March of Return, una manifestazione pacifica che auspica il ritorno dei palestinesi ai territori da cui furono scacciati a più riprese dagli israeliani.

Seduto tra bambini, canti e portate di cibo, osservo su twitter il conto dei morti a Gaza aumentare e mi domando se qualcuno dei miei vicini di tavolo ne avrebbe parlato. Mai. Sono morte quindici persone quel giorno e la cosa non ha toccato nessuno.

Sono sconvolto e solo le parole del giornalista israeliano Gideon Levy mi forniscono una chiave di lettura: “Gaza non è considerata per quello che è, un luogo abitato da persone, un’enorme prigione, un laboratorio di sperimentazione sugli esseri umani. La maggioranza degli israeliani, che come il primo ministro non hanno mai parlato con un singolo abitante di Gaza, sa solo che la Striscia è un covo di terroristi. È per questo che è giusto ammazzarli. Sconvolgente, ma vero.”

Pochi giorni dopo al conto dei morti si aggiunge anche Alaa al-Din Yahya, un quindicenne iscritto nella scuola di Rafah. Non è uno dei nostri studenti ma gli dedicheremo poi il nostro lavoro.

Coordination denied, il libro che prenderà fisicamente forma appena tornati in Italia, grazie alla bravissima grafica Roberta Donatini, va nella direzione opposta, cerca di ri-umanizzare gli abitanti di Gaza attraverso le foto dei nostri studenti.

Cerca di mostrare l’ovvio, cioè che non nascono tutti terroristi. I problemi piuttosto nascono (e crescono) quando il dialogo tra le due parti viene reso difficile o impossibile, costruendo muri e creando divisioni. In queste condizioni è estremamente facile fare disinformazione e disumanizzare l’altro.

“Avete paura di me perché sono musulmana?”, ci chiede su Messenger molto timidamente una ragazza del corso. Rosy la rassicura che no, non abbiamo paura, ci mancherebbe. Si può vivere rinchiusi dentro una gabbia e pensare di essere amati?

*Rosy Sinicropi è una fotografa che arriva dal lavoro sociale. Ha tenuto laboratori di fotografia in realtà diverse come scuole, carceri, centri per disabili e centri di accoglienza. Utilizza la macchina fotografica per spingere i suoi allievi ad avere uno sguardo su se stessi e fermarsi a contemplare la loro storia personale

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