Il testo che pubblichiamo è di un medico chirurgo che lavora in un grande ospedale lombardo.
Fa parte di una serie di cronache di come stanno lavorando i nostri medici, gli infermieri, tutto il personale che è in prima linea contro il Covid-19.
Perché lo pubblichiamo? Ci racconta dei fatti, è un piccolo film in soggettiva che ci aiuta a capire come pensa chi è per ore dentro la battaglia. E lo pubblichiamo, soprattutto, perché c’è un punto che dovremo avere chiaro quando le cose si saranno calmate e poi stabilizzate: la sanità pubblica andrà potenziata, il nostro welfare andrà rivisto, a scapito delle spese militari per esempio, perché forse ormai tutti hanno capito quali siano le priorità oggi.
Grazie al medico che ha scritto queste parole. Lo manteniamo in anonimato, così come omettiamo il nome dell’ospedale, per semplice riservatezza, perché abbiamo bisogno di ragionare e non di vendere notizie sensazionali.
I dati che si raccolgono provenienti dai singoli reparti, dalle autopsie eseguite e dalle pubblicazioni disponibili hanno permesso di meglio adeguare la terapia alla sindrome da infezione Covid-19.
La positività di per sé non è dannosa. Il pericolo insorge quando le difese dell’organismo contagiato portano a reazioni abnormi. Il meccanismo è, nel suo concetto, sovrapponibile a quello della setticemia.
Il primo provvedimento è quello di cercare di impedire l’entrata del virus nelle cellule. Per questo viene prescritta la colchicina, farmaco già utilizzato per il trattamento dell’artrite reumatoide.
La somministrazione è più efficace nei primi tempi di contagio. Talvolta viene aggiunta l’azitromicina, un antibiotico in grado di ridurre la risposta infiammatoria alla presenza del virus e quindi a ridurre il rischio di sviluppare la polmonite interstiziale, un’alterazione della funzione del polmone che impedisce il normale scambio di gas con il respiro.
Necessario è il controllo dell’ossigenazione del sangue, così da adeguare la somministrazione di ossigeno alle richieste del paziente. Per ridurre l’effetto della polmonite interstiziale viene utilizzato il cortisone.
Ma il virus non si ferma al polmone, dimostrando una consistente trombofilia, favorisce la formazione di trombi in ogni vaso sanguigno e alla terapia deve essere aggiunta eparina, per ridurre il rischio di trovarsi ad una disseminazione dei trombi.
Queste acquisizioni hanno permesso di ridurre il numero di pazienti da intubare, hanno permesso di aumentare i pazienti in grado di tornare a casa, dove devono mantenere l’autoisolamento in attesa di due tamponi da eseguire a distanza di 14 e 16 giorni dalla dimissione per certificare la guarigione.
Nei reparti e nella rianimazione si cominciano ad avere posti letto liberi e diminuiscono anche gli accessi al pronto soccorso anche se molti pazienti arrivano in condizioni più gravi perché hanno atteso a casa che la sindrome si evolvesse e quindi arrivano all’osservazione con la necessità di procedere subito a terapie più consistenti.
Si avverte però un’atmosfera più rilassata. Si comincia a conoscere la malattia e si sa di poter far fronte con successo. Nessuno abbassa la guardia, l’attenzione ai dispositivi di protezione personale è sempre alta, anche se si scontra sempre con la ridotta disponibilità. Ci si concentra sempre più sui comportamenti successivi al ricovero. L’autoisolamento al domicilio se lo possono permettere quei soggetti che hanno una casa sufficientemente spaziosa, altrimenti ci si deve affidare a strutture a questo scopo riadattate.
Si inizia anche a pensare a come riaprire le normali attività. Si dovranno riprendere i contatti con i propri pazienti, bonificare i reparti, mandare a riposare il personale, decidere cosa fare di quelle unità assunte in tutta fretta, aspettare la guarigione di chi è stato colpito dalla malattia.
I problemi della ricostruzione non sono pochi, vengono proposti programmi più o meno accettabili e non si vede l’ora di riprendere la normale vita dei reparti. Si teme però il risveglio della burocrazia ritiratasi in queste settimane in luoghi più sicuri.