Come in tutte le crisi, il fattore esogeno svela e acuisce le molteplici fragilità accumulate da un sistema. Lo stesso vale amaramente per la società palestinese, che da inizio marzo si trova a fronteggiare insieme al resto del mondo l’emergenza COVID-19.
Tutto inizia con un gruppo di pellegrini greci a Betlemme risultati positivi al coronavirus. Si scopre che circa una decina di persone entrate in contatto con questi turisti era stata contagiata e il 5 marzo – per ordine del Ministro della Difesa israeliano Naftali Bennet – la città di Betlemme viene dichiata dall’Autorità palestinese in stato di emergenza. Nei giorni successivi vengono chiusi gli accessi a Egitto e Giordania, mentre il blocco totale delle attività non essenziali viene imposto in Cisgiordania.
A preoccupare è soprattutto la Striscia di Gaza, considerata l’estrema fragilità del suo sistema sanitario – assolutamente impreparato a fronteggiare un’emergenza di larga scala – e il vulnerabile stato di salute generale di una popolazione che da 13 anni vive segregata e con limitato accesso ad acqua potabile, elettricità e numerosi beni.
Mentre all’inizio della crisi sono circolate diverse ciniche battute su come la Striscia di Gaza, dato il suo isolamento, sarebbe stata risparmiata dal virus, alla fine di marzo due gazawi provenienti dall’Egitto sono risultati positivi al loro ingresso via Rafah. A presente l’OMS riporta solo 12 casi nella Striscia, ma è noto a tutti che non vi sia disponibilità di tamponi, per non parlare della strumentazione per la terapia intensiva.
L’Autorità de facto di Hamas sta ricorrendo a una serie di misure per la quarantena, oltre ad avere adottato varie restrizioni per limitare gli assembramenti. Tuttavia, la situazione rimane estremamente preoccupante, anche alla luce dei rapporti tesi tra Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese, principale interlocutore della comunità internazionale dei donatori.
Le preoccupazioni ovviamente non mancano nemmeno in Cisgiordania, nonostante molti osservatori si siano spesi in lodi per la gestione della crisi da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. In primo luogo, occorre riconoscere che gran parte degli interventi condotti sinora – a cominciare dallo stato di emergenza a Betlemme – sono stati coordinati se non addirittura imposti da Israele.
Quest’ultimo, inoltre, si è sinora in buona sostanza limitato a regolare i movimenti, inclusi quelli ai checkpoint, senza tuttavia mettere in piedi meccanismi di fornitura di equipaggiamento medico e materiali necessari a fronteggiare la pandemia.
In secondo luogo, i rapporti di forza sono nuovamente emersi nel loro drammatico sbilanciamento. Le ultime settimane, per esempio, hanno registrato diversi casi di violazioni dei diritti umani da parte dei coloni israeliani. I detenuti palestinesi nelle carceri israeliane continuano a versare in condizioni malsane, esposti a un altissimo rischio di contagio. La popolazione palestinese di Gerusalemme Est denuncia – anche a detta del quotidiano israeliano Haaretz – l’assenza di monitoraggio e test.
Un discorso a parte meriterebbe invece la questione di “classe” tra Israele e Palestina, cominciando dai 100-130.000 lavoratori (a seconda delle stime, essendo migliaia di essi senza permesso) che ogni giorno si recano in Israele o negli insediamenti israeliani per lavorare nell’industria, nell’edilizia, nei campi o nei servizi a basso valore aggiunto. Sono proprio queste persone, per altro appartenenenti ai segmenti più poveri e vulnerabili della società cisgiordana, a essere stato il principale veicolo di contagio nelle ultime settimane.
Nel quadro del blocco dei movimenti, ai lavoratori palestinesi in Israele è stato richiesto di scegliere se rimanere in Cisgiordania, oppure trasferirsi per circa due mesi in prossimità del luogo di lavoro, in maniera tale da consentire la continuità di una serie di attività economiche (edilizia inclusa).
Dall’altra parte, contestualmente alla Pasqua ebraica, Autorità Nazionale Palestinese e Israele si sono scontrati riguardo alla responsabilità di monitorare e testare una serie di lavoratori che sarebbero potuti rientrare in Cisgiordania in occasione delle festività.
Altrettanto interessante è la gestione della pandemia da parte del governo israeliano, che si trova ad affrontare questa emergenza all’indomani delle elezioni legislative del 2 marzo. Anche in questa occasione, Netanyahu ha dato prova della sua astuta abilità politica, spaccando il fronte del principale avversario Kahol Lavan (Blu e Bianco, dai colori della bandiera israeliana) e riuscendo anche a rimandare i processi che lo vedevano sul banco degli accusati.
Dall’altra parte della Linea Verde, il governo israeliano sta incontrando grossi problemi a contenere il contagio all’interno delle comunità ultraortodosse, sia per l’isolamento delle stesse rispetto alla circolazione delle notizie, sia per la ritrosia di molti rabbini e notabili ultraortodossi (incluso il Ministro della Salute Yaakov Litzman) di fronte al divieto di assembramenti.
Si rileva invece come molte comunità di arabi del 1948 siano state tendenzialmente ignorate dai piani di monitoraggio e test, a conferma della progressiva tendenza israeliana verso uno stato etnico caratterizzato in maniera sempre più manifesta e marcata tra cittadini di serie A e cittadini di serie B.