Il testo che pubblichiamo è di un medico chirurgo che lavora in un grande ospedale lombardo.
Fa parte di una serie di cronache di come stanno lavorando i nostri medici, gli infermieri, tutto il personale che è in prima linea contro il Covid-19.
Perché lo pubblichiamo? Ci racconta dei fatti, è un piccolo film in soggettiva che ci aiuta a capire come pensa chi è per ore dentro la battaglia. E lo pubblichiamo, soprattutto, perché c’è un punto che dovremo avere chiaro quando le cose si saranno calmate e poi stabilizzate: la sanità pubblica andrà potenziata, il nostro welfare andrà rivisto, a scapito delle spese militari per esempio, perché forse ormai tutti hanno capito quali siano le priorità oggi.
Grazie al medico che ha scritto queste parole. Lo manteniamo in anonimato, così come omettiamo il nome dell’ospedale, per semplice riservatezza, perché abbiamo bisogno di ragionare e non di vendere notizie sensazionali.
Il personale infermieristico risente parecchio delle nuove condizioni di lavoro. Viene frastornato dalle indicazioni in evoluzione continua, aggiornate due volte al giorno, deve adeguarsi alle necessità di modificare i protocolli di sicurezza secondo le disponibilità dei DPI (dispositivi protezione individuale), è sempre vicino ai pazienti in taluni casi molto sofferenti, sapendo bene quali saranno i casi nei quali non si potrà fare più nulla quando il quadro andrà in peggioramento.
Neanche a casa propria la vita è la stessa, si proteggono i propri familiari tenendoli a distanza, evitando quella fisicità che potrebbe esporre coniuge e figli al rischio di contagio, perché non si conosce il proprio grado di contagio ed è inutile eseguire tamponi o ulteriori accertamenti in assenza di sintomi: sono molto più frequenti i falsi negativi. Ma emergono capacità notevoli. La disponibilità è totale in tutto il personale. Sono state accantonate quelle diatribe, tipiche dei posti di lavoro, con i colleghi, con i responsabili. L’obiettivo è diventato uno solo: svolgere il proprio lavoro al meglio della professionalità ed in sicurezza.
Nel mio ospedale il numero di giornate di malattia è crollato in questo mese. Sta a casa chi ha effettivamente qualche linea di febbre o qualche sintomo polmonare.
Nell’arco di pochi giorni le ragazze della sala operatoria hanno acquisito le competenze per gestire e controllare le macchine necessarie alla monitorizzazione del paziente intubato e potrebbero istruire altro personale da inserire nelle unità di terapia intensiva. Il personale infermieristico avviato da tempo a mansioni amministrative o ambulatoriali ha ripreso a svolgere il proprio lavoro nei reparti. Gli OSS (operatori socio-sanitari) proseguono la loro attività di più immediato contatto con il fisico e con l’umore del paziente con l’abituale leggerezza. Le caposala hanno dimostrato abilità manageriali e di organizzazione insospettabili. Anche gli addetti alla pulizia dei locali sono, se possibile, più solerti e attenti.
L’adrenalina però si sta disperdendo in questi e altre mille rivoli.
Svolgere le proprie mansioni ha significato, in queste settimane, fatica fisica e psicologica. Non è facile lavorare indossando tutti i DPI, non è facile sostenere pazienti dei quali conosci già il destino a breve tempo. Anche i rapporti tra colleghi e con i medici si stanno trasformando, sono in qualche maniera mediati dalle protezioni che indossi, più distanti, meno amichevoli.
Si fa sempre più strada l’incertezza sul futuro. Se l’ospedale diventasse semplicemente un lazzaretto nel quale accatastare malati nel caso anche a Milano succedesse quello che è successo a Bergamo e Brescia? Dovessi contagiarmi? Si ritornerà davvero a come si era? Verrà, in qualche modo, riconosciuto il mio attuale impegno?
Da queste incertezze sta nascendo solo un piccolo risentimento conseguenza della pregressa riduzione della considerazione sociale del ruolo di operatore sanitario, subito ricacciato perché ora non è il momento delle polemiche.