Da ‘minaccia nazionale’ al dimenticatoio

di

2 Maggio 2020

La cancellazione delle persone migranti dal dibattito pubblico italiano durante la pandemia

I primi casi ufficialmente riconosciuti di COVID-19 sono stati riscontrati a Roma a fine gennaio, quando una coppia di turisti cinesi è stata ricoverata all’Istituto Lazzaro Spallanzani per le malattie infettive manifestando tutti i sintomi con i quali l’Italia ha presto maturato una triste familiarità. L’OMS ha immediatamente dichiarato un’emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale e, il 31 gennaio, il Consiglio dei ministri ha approvato lo stato di emergenza.

Eppure, in questa primissima fase, l’attenzione dell’opinione pubblica si è concentrata sulla nazionalità dei due casi positivi, il che ha permesso al governo di inquadrare il contagio come una minaccia proveniente dall’esterno.

Questo ha avuto un impatto immediato sui controlli di frontiera in tutta Italia, e anche in Sicilia dove si verificano molti degli arrivi via mare, dalle grandi crociere turistiche alle navi delle ONG, ai gommoni e le barche di persone che partono dal Nord Africa. Alle procedure sanitarie che vengono da sempre seguite in occasione degli sbarchi di persone migranti si è così aggiunto un controllo per i sintomi da COVID-19, e naufraghe e naufraghi sono stati posti in quarantena insieme agli equipaggi che avevano svolto le operazioni di soccorso in mare, anche quando i controlli hanno dato esito negativo. A inizio febbraio controlli simili sono stati introdotti negli aeroporti.

Anche se in Italia ci si è concentrati inizialmente sugli arrivi dall’estero, i primi focolai dell’infezione sono stati registrati nelle regioni settentrionali del paese già dal 21 febbraio, e sono stati causati da contagi interni. Le regioni più colpite (Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte), tra le cinque migliori nella classifica del Sistema sanitario nazionale, hanno da subito cominciato a soffrire della carenza di posti letto nelle proprie strutture sanitarie, in particolare nei reparti di terapia intensiva e sub-intensiva.

Questi sviluppi, in ultima analisi, il 9 marzo hanno spinto il governo a dichiarare l’intero paese ‘zona protetta’.

Il tracollo a cui si assiste oggi in Italia non è soltanto frutto della diffusione del virus, ma è anche il portato del progressivo logoramento del sistema sanitario, come conseguenza di 40 anni durante i quali la sanità pubblica è stata ripensata, da diritto fondamentale a servizio che lo stato fornisce gratuitamente solo ai più poveri. In Italia questa trasformazione è iniziata negli anni ‘80, combinando decentralizzazione, esternalizzazione dei servizi a enti privati e uno slittamento nella natura delle prestazioni, con un’enfasi crescente su de-ospedalizzazione e assistenza domiciliare.

Le “cattive” ONG in soccorso della sanità pubblica

Già il 4 marzo l’assessore al welfare della giunta lombarda a maggioranza leghista si è visto costretto ad accettare il sostegno sanitario offerto da alcune ONG nazionali e internazionali specializzate in assistenza medica (Intersos, Emergency e Medici senza frontiere). Negli ultimi anni questi attori della società civile, attivi soprattutto nell’assistenza ai rifugiati e ai migranti irregolari, hanno subìto gli attacchi dei governi regionali di estrema destra e populisti, oltre che del governo nazionale.

Ora quelle voci si ritrovavano a dover ammettere implicitamente che queste ONG (prima accusate di costituire un ‘pull factor’ per la migrazione irregolare, e dunque di erodere il tessuto economico e sociale del paese) svolgono invece un servizio fondamentale per la comunità nel suo insieme, colmando i vuoti lasciati dallo stato nelle attività di assistenza alla popolazione, sia nazionale che straniera.

Secondo l’ASGI (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) gli oltre 5 milioni di cittadini stranieri attualmente residenti in Italia sono tra le persone più esposte a condizioni di precarietà giuridica, abitativa, lavorativa e anche esistenziale. Questo li rende più vulnerabili al rischio sia di contrarre il virus che di diffonderlo, tanto che l’associazione ha chiesto con forza che questo tema venga affrontato anche da una prospettiva di salute pubblica.

Il sostegno che gli attori della società civile hanno fino ad ora fornito alle autorità italiane, sostenendole nel fornire assistenza ai cittadini e alle cittadine italiani e stranieri, non si limita affatto alle sole ONG che operano in campo sanitario.

Dall’inizio dell’epidemia, infatti, le organizzazioni non governative sono state in prima linea nel fornire informazioni sulle caratteristiche della malattia e sulle relative misure di prevenzione tra le fasce della popolazione che, loro malgrado, si trovano ai margini. Soprattutto nelle regioni agricole del sud, gli attori della società civile si sono fatti carico del decisivo compito di sensibilizzare al tema i braccianti sfruttati e spesso senza documenti che vivono in campi ad altissima densità abitativa ma privi delle infrastrutture di base.

Allo stesso modo il terzo settore è stato fondamentale per raggiungere in maniera efficace le persone che risiedono negli immensi e sovraffollati centri di prima accoglienza per richiedenti asilo. A queste persone non è rivolta alcuna comunicazione ufficiale di governo, perché i messaggi istituzionali sono pensati per raggiungere principalmente un pubblico di cittadini e cittadine parlanti italiano.

Resta invece estremamente difficile fornire assistenza alle 381 persone detenute nei Centri Per il Rimpatrio della penisola, attualmente in attesa di essere espulse dal paese. Il Garante nazionale per i diritti dei detenuti di recente ha segnalato all’attenzione del Ministro dell’interno l’inutilità della detenzione amministrativa dei migranti durante una pandemia. Queste persone, infatti, non possono essere rimpatriate finché permane la chiusura dei confini e in assenza di collegamenti aerei o navali con la gran parte dei paesi interessati.

Sono molte le organizzazioni della società civile che stanno facendo pressioni per il rilascio immediato delle persone detenute nei centri per il rimpatrio.

Le condizioni di detenzione sono estremamente rischiose per la diffusione del contagio e le difficoltà di accedere alle cure. Lo stesso vale per le carceri italiane in situazione di sovraffollamento cronico. Non stupisce che gli istituti di pena siano stati oggetto di numerose proteste organizzate sia dai detenuti che dai loro familiari e sostenute da organizzazioni impegnate per i diritti della popolazione carceraria. Al 10 marzo le rivolte nelle carceri avevano portato alla morte di ben dodici detenuti in circostanze ancora da chiarire. Nonostante il 16 aprile sia stato varato un decreto governativo che ha disposto la commutazione delle pene fino a 18 mesi in arresti domiciliari, dalla misura sono stati esclusi i detenuti per reati gravi o i recidivi, ma anche coloro che avevano partecipato alle proteste dei giorni precedenti. Il 2 aprile è stato registrato il primo decesso per coronavirus di uno dei detenuti positivi del carcere Dozza di Bologna. A pochi giorni di distanza si contavano ben 58 detenuti affetti da Covid-19 in tutta Italia, a cui bisogna sommare in 178 agenti di custodia trovati positivi.

State a casa”, ma quale casa?

La crisi sanitaria rivela dunque come le autorità nazionali abbiano adottato una grammatica escludente, che di fatto finisce per rimuovere dal discorso pubblico interi settori della popolazione, sia italiani che non italiani. Facendo leva sulla necessità urgente per tutti e tutte di combattere insieme l’epidemia, la retorica istituzionale chiede attualmente alle persone residenti nel paese di accettare pesanti limitazioni della mobilità e della libertà individuali, presentate come unico modo efficace per prendersi cura di sé stessi e degli altri. Ma gli appelli a ‘stare a casa’ del governo devono sembrare una beffa alle persone richiedenti asilo e rifugiate attualmente bloccate nei centri di prima accoglienza, così come ai migranti irregolari presenti in tutta Italia. Di certo questi appelli non possono essere rispettati dalle circa 55mila persone senza dimora, italiane e non, che secondo le stime disponibili vivono nel paese.

Per garantire le necessarie distanze di sicurezza, diversi dormitori hanno dovuto rifiutare l’accesso a nuovi utenti. Le organizzazioni che operano nell’assistenza ai senza dimora hanno chiesto ai comuni di allestire spazi per poter mettere in quarantena coloro che ne avessero avuto bisogno. Ma le risposte istituzionali sono lente, ed estremamente disorganiche sul territorio nazionale. In alcuni casi le autorità comunali hanno persino deciso di chiudere i punti di accoglienza, interrompendo così i servizi docce, la distribuzione di cibo e indumenti puliti e i servizi ambulatoriali. In altri casi, come mostra l’esperienza di Termoli, in Molise, la collaborazione tra l’amministrazione comunale e il tessuto associativo della città ha permesso di organizzare l’uso temporaneo di spazi momentaneamente inutilizzati, come la palestra di una scuola chiusa che, in via eccezionale, è stata trasformata in dormitorio. Le parrocchie stanno facendo spazio per dare un riparo a chi vive in strada, mentre le associazioni laiche tentano di allestire nuovi dormitori e mense per contribuire a fronteggiare l’emergenza. Tuttavia, il lavoro incessante di tutte queste realtà è ostacolato dalle restrizioni alla mobilità urbana che hanno spinto molti volontari e volontarie a restare a casa, impedendo loro di fornire assistenza.

Il virus mostra come chiunque sia esposto al contagio. Eppure, i gruppi più vulnerabili vengono attualmente cancellati dalle politiche pubbliche e dal discorso mainstream.

A seguito di una straordinaria sospensione dell’ordine di fermare il traffico marittimo da e per la regione, il 18 marzo il governo siciliano ha consentito il rimpatrio di circa 300 italiani e italiane che sono partiti dalle coste maltesi su un catamarano commerciale e fatti approdare a Pozzallo. Intanto la ONG Whatch the Med Alarm Phone e gli equipaggi di terra delle ONG che sono impegnate in attività di soccorso in mare riferiscono di continue partenze dalle coste nordafricane. I gommoni in difficoltà in quel tratto di Mediterraneo, tuttavia, spesso sono rimasti per giorni in attesa di soccorsi, per poi essere di fatto respinti in Libia.

Alcune barche cariche di persone migranti, d’altra parte, hanno continuato ad arrivare autonomamente fino alle acque territoriali o persino alle coste della Sicilia, e in particolare a Lampedusa. Per tutta risposta, il sindaco di Lampedusa ha proposto di rafforzare ulteriormente le attività di pattugliamento e di reindirizzare gli sbarchi sul continente. Da parte sua, il presidente della regione Sicilia Nello Musumeci ha chiesto al governo che le persone appena arrivate sulle navi di soccorso siano messe in quarantena senza poter sbarcare. Inizialmente dal governo hanno tardato ad arrivare risposte chiare, e le persone migranti appena arrivate sono state lasciate ore ad aspettare al molo di Lampedusa, per poi essere trasferite in altre località della penisola e messe in quarantena.

Si è trattato dell’ennesimo fallimento istituzionale nel garantire la tutela dei diritti fondamentali alla vita e alla salute delle persone soccorse in mare.

Tuttavia, in questo modo è stata di fatto messa a rischio anche la salute dei lavoratori e delle lavoratrici del sistema di primissima accoglienza, nonché quella di cittadine e cittadini dei porti di sbarco. Il 7 aprile, un decreto interministeriale ha visto i Ministri degli Esteri e della Salute, e le Ministre dell’Interno e delle Infrastrutture mettere nero su bianco l’incapacità del governo nazionale di assicurare “i necessari requisiti per la classificazione e definizione” dei porti della penisola come “Place of safety”. Il provvedimento, denunciato come illegittimo da ASGI, che ha presentato ricorso al TAR del Lazio, era arrivato in risposta alla richiesta della nave Alan Kurdi, della ONG tedesca Sea Eye, di vedersi assegnato un porto sicuro di sbarco. L’equipaggio, a seguito delle attività di soccorso compiute il 6 aprile in acque internazionali prospicenti le coste libiche, aveva scongiurato due naufragi e tratto in salvo 150 persone, che sono state lasciate attendere a largo per dieci giorni. Se la pandemia in corso ha fornito alle istituzioni italiane, e a diverse altre istituzioni di paesi membri UE, una presunta efficace scusa in ragione della quale abdicare per decreto ai propri doveri di garanzia dei diritti umani fondamentali, le partenze dalle coste settentrionali dell’Africa non si sono per questo fermate.

Nelle scorse settimane, nel giro di pochi giorni, i centri di coordinamento dei soccorsi nel Mediterraneo insieme ad Alarm Phone hanno segnalato diversi natanti in difficoltà tra le aree di soccorso italiana, libica e maltese.

Gli enormi ritardi nei soccorsi e la contraddittorietà delle informazioni fornite dal centro di coordinamento marittimo maltese sulla collocazione delle imbarcazioni hanno fatto perdere per sei giorni i contatti con uno dei natanti in difficoltà che per molte ore si è temuto fosse naufragato. Segnalato, infine, il 15 aprile in prossimità delle coste libiche, al gommone in questione è stato interdetto per molte ore lo sbarco dalle autorità di Tripoli, assorbite nel conflitto armato che le contrappone alle forze armate del Generale Khalifa Haftar.

Al personale dell’OIM che li ha accolti al momento dello sbarco, i superstiti hanno dichiarato che 5 persone sono morte nel corso del viaggio, mentre almeno 7 si sono gettate in mare per cercare di raggiungere un mercantile che su indicazione maltese si era avvicinato al gommone per fornire soccorsi senza riuscirci. Il mercantile si era poi allontanato dal natante, abbandonandolo di fatto in mare. Mentre si consumava quella che i media hanno soprannominato “la strage di Pasquetta”, Lampedusa ha continuato ad assistere ad una serie di sbarchi autonomi che hanno raggiunto anche le coste trapanesi e quelle del Ragusano.

Questo ha fatto aumentare la pressione delle autorità locali siciliane sul governo centrale. Dai sindaci di Lampedusa, Porto Empedocle e Pozzallo, ma anche dal Presidente della Regione siciliana, sono state richieste misure governative urgenti. In particolare, è stata rinnovata la richiesta di predisporre delle grandi imbarcazioni da far stazionare in rada presso alcune località portuali e da utilizzare per porre in quarantena tutte le persone che arrivano in territorio italiano prima di procedere alla loro redistribuzione su base volontaria tra gli altri stati membri UE.

Il 12 aprile, tra le persone trasferite da Lampedusa all’hotspot di Pozzallo via Porto Empedocle è stato riscontrato il primo caso positivo al Covid-19. Nello stesso giorno un decreto del capo dipartimento di Protezione Civile ha disposto che l’assistenza alloggiativa delle persone soccorse in mare per le quali non si può indicare un luogo sicuro di sbarco, così come di quelle arrivate sul territorio nazionale in modo autonomo per cui non sia possibile trovare sistemazione idonea nei centri di prima accoglienza, verrà garantita a bordo di navi messe a disposizione “per lo svolgimento del periodo di sorveglianza sanitaria”. Il 17 aprile, dopo diversi casi di autolesionismo e tentato suicidio a bordo, le 146 persone soccorse la settimana prima dalla nave Alan Kurdi sono state trasbordate sul traghetto Rubattino della compagnia Tirrenia che, successivamente, ha accolto anche le 34 persone soccorse dalla ONG spagnola Aita Mari.

Il traghetto, che si trova in rada al porto di Palermo, è sottoposto all’assistenza sanitaria del personale della Croce Rossa, ma sul futuro che attende le persone migranti trasferite a bordo non è stata fatta chiarezza. Fulvio Vassallo Paleologo, dell’Associazione Diritti e Frontiere, ha intravisto in questa soluzione la problematica sperimentazione del primo “hotspot galleggiante”, e ha posto l’accento sull’assenza di un quadro giuridico chiaro a garanzia dei diritti delle persone che, a diversi giorni dal loro salvataggio in mare, sono state costrette ad effettuare il periodo di quarantena su un’ulteriore imbarcazione, senza che venissero garantiti loro “approdo, accoglienza e protezione” adeguate. Non è chiaro, ad esempio, se proprio come avviene negli hotspot attualmente presenti in Italia, le persone ospiti sulla Rubattino siano sottoposte a procedure di identificazione e fotosegnalamento.

La Croce Rossa ha comunicato che la presenza delle persone a bordo è limitata all’emergenza sanitaria in corso e che, per questo, il traghetto non può essere equiparato ad un hotspot. Tuttavia associazioni della società civile e organizzazioni internazionali non sono state ammesse a bordo e, dal momento che fonti dell’Assessorato alla Sanità della Regione siciliana hanno confermato che tutte le persone presenti sulla Rubattino sono risultate negative al tampone, non si comprende la necessità di una loro permanenza a bordo del traghetto della compagnia Tirrenia.

Le vittime riconosciute del COVID-19 in Italia non sono solo vittime del virus e non sono solo vittime italiane. La migrazione è un fenomeno strutturale e stratificato in Italia, ma gli immigrati e le immigrate, nonché il loro fondamentale diritto alla salute e alla vita, sono stati rapidamente rimossi dal discorso pubblico non appena è diventato evidente che questa volta non erano loro l’emergenza.

Oltre alle vittime dirette della carenza di personale e di attrezzature adeguate che caratterizzano il sistema sanitario nazionale, stremato da anni di politiche di austerità, il virus miete vittime indirette, frutto della diseguaglianza nell’accesso alle informazioni e alle misure di prevenzione.

Oggi l’Italia è più ‘chiusa’ di quanto Matteo Salvini avesse mai osato immaginare. Ma l’epidemia ha fatto luce sulle diseguaglianze croniche che caratterizzano la penisola, mai affrontate e anzi aggravate dalle politiche statali.

Traduzione dall’inglese a cura di Francesco De Lellis

Una prima versione di questo articolo è uscita come seconda parte di una miniserie sulla situazione dei rifugiati e dei richiedenti asilo in Europa durante la pandemia di COVID-19 pubblicata in inglese da Eurozine.