Dal Memorandum con la Libia alla missione Sophia

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28 Febbraio 2020

Il vulnus democratico delle politiche migratorie

Nei giorni scorsi si sono susseguite diverse novità sul fronte delle politiche migratorie, con l’invio al governo libico di al-Sarraj, da parte della Farnesina, di alcune proposte di modifica del Memorandum del 2017, le prime discussioni concrete di governo e maggioranza, nonostante le varie divergenze, per la modifica dei Decreti sicurezza e la decisione maturata a livello di Consiglio dell’Unione Europea di chiudere l’operazione Sophia.

Al di là degli aspetti sostanziali e contenutistici di ciascuna di queste vicende, c’è un fatto che le accomuna: ancora una volta, delicatissime politiche migratorie, con effetti diretti sulla vita e sui diritti fondamentali di migliaia di persone, sono state decise al chiuso di una stanza governativa, lontano dall’occhio dell’opinione pubblica, lontano dal parlamento, luogo deputato ad assumere decisioni di questo tipo (nel caso italiano) o a condividere questo potere con il Consiglio (nel caso dell’UE). Senza dibattiti, senza possibilità di influire sulle decisioni assunte, senza il rispetto del più basilare principio di responsabilità politica.

Soffermandoci sul nostro paese, appare da subito chiaro come questa non sia certo una novità: in materia migratoria (e non solo) la legislazione per decreto-legge è oramai la norma. Lo era con Salvini al Viminale, ma prima ancora già con Minniti. In sostanza, il governo legifera, ben oltre i casi di straordinaria necessità e urgenza previsti dalla Costituzione, e al parlamento non resta che prendere atto di quel che accade, ex post.

Ma per lo meno, nel caso dei decreti-legge, resta aperta la possibilità, almeno teorica, di discussione parlamentare e di modifica del testo in sede di conversione. Una possibilità spesso mandata in fumo dalla compressione del dibattito parlamentare per evitare la decadenza del decreto per la mancata conversione nei sessanta giorni previsti e dalla decisione del governo di porre la questione di fiducia, con automatica decadenza di tutti gli emendamenti presentati.

E’ questo il caso, tra gli altri, del Decreto Minniti-Orlando del 2017 e del Decreto sicurezza del 2018. Per trovare, in materia migratoria, l’ultima modifica significativa realizzata in sede parlamentare, bisogna andare indietro fino al 2009.

Con gli emendamenti al testo che ha introdotto il reato di clandestinità all’interno del Pacchetto sicurezza di Maroni (in questo caso non si trattava di un decreto ma di un disegno di legge governativo), attenuando almeno in parte, rispetto all’originale formulazione proposta dal ministro leghista, l’impatto di una misura che resta comunque inutile per certi versi, vergognosa per altri, e che nessuna maggioranza, negli undici anni successivi, ha voluto abrogare.

Vedremo, ora, quale sarà il ruolo ed il peso del parlamento nella modifica dei Decreti sicurezza, al di là della presenza dei partiti di maggioranza alla prima riunione interlocutoria tenutasi a Palazzo Chigi, anche se i trend visti in passato non lasciano ben sperare.

Se a livello generale la situazione, quindi, non è affatto rosea, con strumenti ambigui come il Memorandum diventa ancor più grave.

Ora, come detto sopra, proviamo a mettere da parte per un momento le sacrosante critiche nel merito del Memorandum e delle proposte di modifica – queste ultime rese note dal lavoro di Redattore Sociale e Avvenire, riuscendo a squarciare quell’alone di segretezza che accompagna da sempre tutto ciò che concerne il Memorandum.

In tante e tanti hanno già detto e scritto in maniera chiara e puntuale perché il Memorandum è in aperto contrasto con le più basilari norme di tutela dei diritti umani e perché andava, quindi, cancellato e non semplicemente modificato. Tra gli altri, il contributo di Annalisa Camilli offre una panoramica dettagliata delle maggiori criticità, tanto del Memorandum quanto delle proposte di modifica, e di chi le ha mosse nel corso del tempo.

Soffermandoci, invece, sulle caratteristiche dello strumento scelto per regolare questa materia e gli aspetti ad essa collegata, ci rendiamo conto di come il governo abbia deciso di fatto di appaltare a un paese terzo la gestione delle proprie frontiere attraverso uno strumento dalla natura giuridica ambigua, che taglia fuori il parlamento sic et simpliciter.

Perché nella logica del governo (o meglio, dei governi, Gentiloni prima, Conte poi) il Memorandum non è affatto un trattato internazionale di natura politica, e quindi non deve passare dal parlamento per la ratifica, come previsto dall’articolo 80 della Costituzione.

Una logica che non ha convinto i deputati Marcon, Civati, Brignone e Maestri, i quali, sostenendo la natura dissimulatrice del Memorandum, e ritenendolo in realtà un trattato internazionale di natura politica a tutti gli effetti, nel 2018 avevano sollevato un conflitto di attribuzione nei confronti del governo alla Corte Costituzionale. Quest’ultima, però, lo ha dichiarato inammissibile, evidenziando che il diritto di adire la Corte spettava all’assemblea nel suo insieme (che ovviamente si è ben guardata dall’esercitarlo) e non ai singoli parlamentari. E quindi decide il governo, punto e basta.

E, sempre nella logica degli strumenti dalla natura giuridica più che ambigua, come non ricordare il famigerato Codice di condotta per le Ong, anch’esso a firma Minniti, anch’esso caratterizzato dalla più totale indifferenza verso l’istituzione parlamentare?

Ma, come ci ricordano le vicende di queste ultime settimane legate all’Operazione Sophia, questo vulnus democratico nelle politiche migratorie non è una peculiarità italiana.

A livello europeo, infatti, le decisioni in materia sono sempre più nelle mani intergovernative del Consiglio, che ha di fatto tagliato fuori tanto il parlamento quanto il controllo della Corte di giustizia. Anche in questo caso, come in quelli italiani ricordati in precedenza, facendo ricorso a escamotage e muovendosi tra le linee dei diversi strumenti normativi.

Così, ad esempio, l’intera questione della ricerca e soccorso nel Mediterraneo e la lotta – vera o presunta – al traffico di migranti vengono affrontate con strumenti di politica di sicurezza e di difesa comune (leggasi operazione Sophia), decisi in maniera esclusiva dagli stati membri all’interno del Consiglio dell’Unione Europea. Ne è esempio lampante il fatto che la stessa decisione di chiudere questa operazione – che pur con tutti quegli enormi limiti legati alla sua stessa natura, riusciva a salvare migranti in mare – sia passata soltanto da riunioni a porte chiuse.

E dalle dichiarazioni ad effetto di un ministro degli esteri che, dall’epoca in cui parlava delle ‘Ong taxi del mare’, l’idea totalmente smentita dai numeri dei ‘pull factor’ non è proprio riuscito a togliersela dalla testa. Per non parlare dell’Accordo con la Turchia del 2016, cui il Memorandum italo-libico si ispira, anch’esso fortemente contestato, oltre che nel merito, proprio per essere un trattato internazionale mascherato, in modo da evitare il passaggio parlamentare.

C’è, in sostanza, un problema di metodo rispetto alle politiche migratorie nel nostro paese, come in Europa, e non è questione di lana caprina.

Quando la legislazione è lasciata nelle mani dell’esecutivo (o degli esecutivi), si sacrificano e comprimono alcuni imprescindibili elementi democratici, a cominciare dalla pubblicità e trasparenza di chi decide cosa e come; è più improbabile che finiscano con l’essere ascoltate le richieste della società civile, spesso portate avanti da singoli parlamentari più sensibili e determinati; e viene fortemente limitato il principio della responsabilità politica di chi assume tali decisioni.

E’ per questo che, accanto alla sacrosanta ed urgentissima battaglia per cancellare il Memorandum e i Decreti sicurezza, così come per far ripartire operazioni governative di ricerca e soccorso in mare, c’è bisogno di un’altra battaglia, che rimetta il parlamento al centro del processo decisionale sulle politiche migratorie. Soprattutto in un ambito così delicato, con così tante ripercussioni in termini di diritti umani, è la natura democratica del processo decisionale ad essere condizione necessaria, per quanto ovviamente non sufficiente, di buone politiche migratorie.

Impresa, questa, quanto mai ardua, in un momento storico in cui si torna a parlare del “sindaco d’Italia”, con una svolta presidenzialista del nostro sistema politico, nonostante questa sia stata pesantemente bocciata dal referendum costituzionale del 2016. Mentre un altro referendum costituzionale, oramai alle porte, ci chiamerà a decidere se accettare di sacrificare sull’altare della demagogia in salsa anti-casta quel che resta della nostra democrazia parlamentare e dei poteri sostanziali delle due camere.