Un filo rosso collega le Primavere arabe del 2011 alle recenti manifestazioni di protesta in Iraq e Libano. Molti analisti consideravano i movimenti di protesta morti e sepolti, dopo l’esperienza siriana che, sfociata in guerra tra opposte fazioni, ha portato all’emergere dell’estremismo religioso. Nel 2019 la società civile irachena sembra ricalcare i moti di protesta visti nel 2011 nella vicina Siria, una nuova generazione di giovani, di opposte confessioni religiose, protesta contro la corruzione e il clientelismo. La risposta violenta è la medesima, quella di un sistema di potere tirannico che non vuole abdicare.
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[seconda parte]
La rivoluzione dei giovani iracheni.
Sono tanti i messaggi – forti, crudi, creativi che centinaia di migliaia di giovani iracheni stanno mandando al mondo in questi giorni. Ma scendere in piazza non è novità, in Iraq. Così come non lo è richiedere accesso ad acqua ed elettricità, lavoro, sanità e abbattimento del sistema settario.
E’ con le stesse richieste che dal luglio 2015 gli iracheni avevano ripreso a manifestare, partendo di nuovo da Bassora, città simbolo di un paese ricco di petrolio esportato in tutto il mondo ma deficitario di acqua corrente per i propri cittadini.
“Di nuovo”, perché si era partiti sempre da Bassora nel giugno 2010, quando la popolazione già allora non ne poteva più di sopportare il gran caldo con l’elettricità e l’acqua corrente a singhiozzo nelle case. Da lì, allora come oggi, le proteste si allargarono al resto del paese e negli anni – anche nel 2011, in parallelo con altre più note “primavere arabe” – si sono poi sviluppate secondo diversa intensità e differenti dinamiche.
La differenza è che oggi “la gioventù irachena, soprattutto Millennials e trentenni, vuole cambiamenti radicali, rigetta l’intero sistema politico i cui livelli di corruzione sono ormai irrecuperabili”, secondo Rasha Al Aqeedi. La giornalista ammonisce anche da possibili e facili parallelismi tra la situazione attuale irachena ed altre proteste di massa in corso in altri paesi come Libano, Algeria, e, negli ultimi giorni, anche in Iran. “Le proteste oggi non sono una ‘primavera araba’ […], bensì riflettono in modo molto specifico il contesto iracheno […]”. Un contesto in cui viene chiesto in fondo l’opportunità di una vita migliore, dopo decenni in cui ogni circa 4-5 anni si è fatto esperienza, direttamente o indirettamente, di una crisi politica, militare o economica.
“Siamo una generazione nata sotto le vostre guerre, abbiamo avuto un’infanzia sotto il vostro terrorismo, l’adolescenza sotto il vostro settarismo e viviamo la gioventù con la vostra corruzione. Siamo la generazione dei sogni rubati e della vecchiaia prematura”.
Sentenzia così uno dei tanti striscioni presenti a Baghdad, in piazza Tahrir, che descrive la rabbia anche degli under 30 che rappresentano circa il 65% della popolazione irachena.
Una generazione figlia del regime di Saddam, nata dalle ceneri della guerra Iran-Iraq e che ha mosso i primi passi con l’invasione del Kuwait e la conseguente “guerra lampo” americana; che è cresciuta sotto l’embargo internazionale, i suoi nefasti esiti e le sue “soluzioni”; che ha studiato durante la caduta di Saddam del 2002 e la nuova invasione americana con i suoi “effetti” collaterali, tra terrorismo, islamismo e guerre civili [3]. E che, dal 2013 in poi, ha provato a farsi una vita, con un lavoro e possibilmente una famiglia.
Ma in questi ultimi 6 anni sulle loro vite hanno influito le conseguenze e le dinamiche della politica settaria, la catastrofe di Daesh, e la corruzione dilagante. Una condizione socio-economica di perenne precarietà che continua a spingere gli iracheni a sognare un futuro migliore lontano dalla loro terra.
“Sono giorni difficilissimi, non so cosa accadrà, sono preoccupato”, racconta A. di
Baghdad, praticante di medicina che sta prestando servizio volontario in assistenza ai manifestanti a piazza Tahrir, e di anni ne ha 29. Secondo lui, le dimissioni del primo ministro non sono sufficienti.
“E’ l’intero sistema e regime a dover cambiare, non è una sola persona la causa di tutti i problemi dell’Iraq”.
Sarebbe tuttavia riduttivo sottolineare soltanto la rabbia, la frustrazione e la disillusione da parte dei manifestanti, i quali continuano ad essere presenti con sit-in e accampamenti nelle piazze delle principali città.
“Chiunque visiti piazza Tahrir in questi giorni potrà toccare con mano un Paese
completamente diverso”, riporta Mustafa Habib del portale indipendente Niqash, da Baghdad. Non ci sono solo i morti, i feriti e le guerriglie urbane. “Le proteste hanno restituito alla gente speranza per il futuro dell’Iraq e questo senso di appartenenza ha motivato uomini e donne di diversa età, religione e condizione a partecipare, in qualsiasi modo e secondo le proprie possibilità”.
C’è chi organizza collette e fa donazioni per fornire materiale, cibo, generatori di elettricità; chi invece cucina, organizza preghiere per i caduti; studenti, tanti, di scuole e università, dottori, dentisti e infermieri che gestiscono cliniche temporanee; parrucchieri, farmacisti, musicisti, librai che hanno allestito punti di book-sharing, e pittori, street-artist che abbelliscono i muri della città con graffiti dalla forte carica simbolica.
E’ questa e tanto altro Baghdad in questi giorni, che da piazza Tahrir lancia segnali di riscatto, sottolineando che chi protesta ha idee e guarda al futuro.
“In 7 giorni qui è nato un nuovo Stato. Servizi medici gratuiti, elettricità, acqua – una comunità libera, la comunità dei Tuk Tuk! Cos’hanno fatto invece i governi negli ultimi 16 anni?”, si chiede un manifestante ai microfoni di IrfaaSawtak, media iracheno indipendente.
Comunità, solidarietà, stare e lavorare insieme, voglia di fare che si possono riassumere in uno dei simboli di queste proteste: i tuk tuk. Sconosciuti e spesso derisi fino a solo qualche mese fa, i motocicli a 3 ruote utilizzati da chi
non può permettersi un normale taxi a Baghdad, spesso guidati da giovanissimi, anche minorenni, sono stati sin dall’inizio in prima linea a supporto delle manifestazioni.
Fondamentale è stato il loro reinventarsi al trasporto dei feriti tra la piazza e gli ospedali, data la loro maggiore agilità nel traffico rispetto alle ambulanze, così come altrettanto importante è stato il mettersi al servizio per muovere materiali, persone e anche informazioni – per aggirare i blocchi di internet del governo.
E, infine, non solo uomini e donne che manifestano insieme, ma la voglia di sentirsi liberi di abbracciarsi e di non aver paura di esprimere i propri sentimenti in pubblico.
“Se non ha rotto qualsiasi taboo questa protesta, cos’altro deve fare per essere chiamata rivoluzione?”, si chiedono diversi attivisti e utenti in rete commentando e condividendo la foto che ritrae il bacio di due attivisti in mascherina, a Baghdad, il 2 Novembre, diventata subito virale in rete.
Una foto, e tanti altri simboli di queste settimane, che sembrano voler sfidare e superare un sistema che va ben al di là di un governo che risponde per l’ennesima volta in modo violento, e di una comunità internazionale che, di nuovo, stenta ad ascoltare e capire le richieste della popolazione.
Gli iracheni “sanno ciò che vogliono e che non vogliono”. Come afferma Mustafa Sadoon, direttore dell’Osservatorio iracheno per i diritti umani, “gli iracheni vogliono uno stato con istituzioni forti, una cittadinanza vera, uno stato che sia in grado di proteggere la sua gente […]. Vogliamo una nazione, una democrazia vera, libertà. […]. Abbiamo visto già in passato i nostri sogni infrangersi, ma stavolta ci crediamo ancora, abbiamo ancora speranza che possa andare diversamente”.
NOTE
[3]La Guerra Iran-Iraq, durata 8 anni e conclusasi nell’agosto 1988, è nota come “la più sanguinosa guerra convenzionale del XX secolo”, con i suoi oltre 1,5 milioni di morti da ambo le parti. La Guerra del Golfo del 1991, conseguenza dell’invasione del Kuwait, non è da meno, con circa 200mila morti e ciò che ha significato il rimanere al potere di Saddam per centinaia di migliaia di curdi e di sciiti che si ribellarono in contemporanea al ritiro americano. Sul periodo dell’embargo internazionale e dell’Oil for Food Programme dell’ONU, uno dei casi più eclatanti di corruzione internazionale durato fino agli anni 2000, che causò, tra le altre cose, anche la morte di oltre mezzo milione di bambini, si veda anche il film, ispirato a quel periodo, “Giochi di potere”.