Divisi dal Covid: l’area post-jugoslava e le sfide della pandemia

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24 Agosto 2020

Da Trieste a Belgrado il Covid ha messo in luce non solo le fragilità interne, ma anche i rapporti di subalternità nella regione.

A circa 6 mesi dallo scoppio dell’emergenza Covid, l’area post-jugoslava, che sembrava essere uscita quasi indenne dalla prima ondata, si è trasformata in un focolaio, con numeri che sono schizzati a più riprese verso l’alto.

Ma soprattutto la pandemia, come anche a suo tempo era successo con la crisi economica del 2008, ha fatto emergere ed amplificato tutte le fragilità preesistenti, sia all’interno degli stati che negli equilibri internazionali e regionali.

Sistemi sanitari piagati da anni di tagli hanno mostrato la loro impreparazione, come pare essere dimostrato dal relativamente alto numero di morti registratisi nella seconda ondata.

Ma soprattutto, a emergere con prepotenza è stata la drammatica impreparazione di sistemi politici corrotti, piagati dal clientelismo, che hanno visto una gestione a volte dilettantistica della crisi. Sin dalla primavera, in diversi stati dei Balcani occidentali l’uso del termine “coprifuoco“ anziché lockdown come altrove, ha sin dall’inizio anticipato una gestione tanto autoritaria quanto incompetente della crisi.

Emblematico è stato il caso della Serbia, dove alle elezioni di giugno ha trionfato il Partito progressista del presidente Aleksandar Vučić, uomo forte al potere, e nessun deputato di opposizione  è entrato in parlamento. Tuttavia anche l’opposizione, parte della quale è andata al boicottaggio, ha mostrato in pieno la sua inadeguatezza.

Ai primi di luglio un’impennata dei contagi e il tentativo di imporre un nuovo coprifuoco da parte del governo ha fatto emergere la frustrazione di settori disparati della cittadinanza di fronte a numeri palesemente manipolati a fini politici di contagi e decessi e alla gestione autoritaria della crisi.

La polizia ha represso con violenza le proteste che sono durate diversi giorni, mentre gli ospedali traboccavano di malati. Una delle testimonianze più drammatiche, che è ampiamente circolata sia nelle proteste che nei media, riprendeva un manifestante che dichiarava di protestare per il padre, morto in attesa di un respiratore.

Se il binomio tra violenza di stato e pandemia ha portato alla luce uno scenario distopico in Serbia, la situazione non sembra incoraggiante neppure nei paesi limitrofi.

In Bosnia Erzegovina, dove i contagi viaggiano da settimane sopra le 300 unità al giorno in un paese di 3 milioni e mezzo di abitanti, alla ormai tradizionale mancanza di collaborazione tra le due entità, Federazione croato-musulmana e Repubblica Serba, si è aggiunta la lotta tra fazioni che si contendono il potere.

Nella sola Sarajevo, già prostrata dall’emergenza sanitaria, sono stati al centro di accuse incrociate i direttori di due delle maggiori istituzioni ospedaliere, in quota Partito di azione democratica e Alleanza per un futuro migliore, due partiti dello stesso spettro bosgnacco.

In almeno un caso, quello di Sebija Izetbegović, il legame non potrebbe essere più lampante, essendo la stessa moglie del ras politico bosgnacco della Federazione.

E sono anche i paesi più piccoli a bruciare di Covid, dalla Macedonia al Montenegro al Kosovo. In quest’ultimo, il 19 agosto, su 470 tamponi analizzati, 162 erano positivi.

Sebbene alla fine dell’anno scorso Serbia, Macedonia del Nord e Albania si fossero espresse a favore della creazione di una mini-Schengen tra i tre paesi e nella seconda metà di maggio si fosse parlato di un’apertura progressiva nella regione prima dell’auspicata apertura – poi rimandata e non ancora avvenuta – delle frontiere con l’Unione Europea, i termini del conflitto hanno prevalso.

Ad essere emblematica è stata la decisione del Montenegro di tenere chiuse le frontiere con la Serbia a giugno, pur riaprendole con molti altri paesi, che ha reso palpabile ai serbi la perdita di quello che ancora consideravano il proprio mare.

Sebbene la chiusura sia stata motivata dal Covid, non è difficile scorgervi il conflitto tra il governo montenegrino e la Chiesa ortodossa serba, al quale si è offerta una buona occasione per ravvivare le ostilità.

Come mai era successo nell’ultimo decennio i cittadini di questi paesi si sono ritrovati prigionieri all’interno dei propri confini, con una possibilità di movimento fortemente limitata, che ha eretto barriere tra famiglie ma anche con la numerosa diaspora.

Ma le barriere hanno anche preso consistenza sul terreno. Il caso più drammatico nella regione si è verificato al confine tra Albania e Grecia, dove, a seguito della decisione di Atene di contingentare gli ingressi nel paese, si sono formate colonne fino a 25 km di albanesi residenti in Grecia che premevano per rientrarvi. In quell’occasione un bambino di 10 anni è stato investito da un’ambulanza.

Tuttavia, su scala ridotta, lunghe code alle frontiere si sono verificate anche su altri confini, riproducendo sul terreno le dinamiche di subalternità. Nel week end del 22-23 agosto le code al valico delle Karavanke tra Slovenia e Austria per i nuovi controlli sanitari introdotti da quest’ultima hanno toccato le 12 ore di attesa.

I rapporti non sono stati virtuosi neppure tra Slovenia e Croazia, entrambe parte dell’Unione Europea, ma divise dalla frontiera dello spazio Schengen, al quale solo la Slovenia appartiene.

Seppure nella prima fase della pandemia si fosse assistito ad un buon coordinamento, non così è stato negli ultimi giorni quando non solo, e con ragioni comprensibili, la Slovenia ha inserito la Croazia, dove si è verificato un incremento dei casi, nella lista rossa, e invitato i suoi cittadini a tornare, ma ha accompagnato le misure con polemiche sterili.

Il portavoce del governo sloveno sul Covid, Jelko Kacin, ha definito “drammatica“ la situazione in Croazia e aggiunto sprezzantemente che i vicini si sarebbero messi da soli al bando. Nelle settimane precedenti, tuttavia, mentre minacciava l’inserimento del paese vicino nella lista rossa, faceva avanti e indietro dalla sua casa di villeggiatura con piscina sull’isola croata di Krk.  Sullo sfondo non è azzardato vedere il dissidio tra Lubiana e Zagabria sulla delimitazione delle acque territoriali nel golfo di Pirano.

In Slovenia, tra l’altro, nel pieno dell’emergenza Covid è caduto un governo e se ne è formato un altro, guidato dal sovranista Janez Janša.

E le fratture si aprono all’interno dei paesi stessi, con le regioni del nord della Croazia, Istria e regione Litoraneo-montana che accusano le loro omologhe dalmate di aver contribuito ad un’impennata dei contagi con una movida sregolata e malgestita e di aver rovinato anche a loro una stagione che appariva promettente nonostante il Covid.

Dinamiche simili si sono riproposte nel Nord Est italiano, dove il governatore del Friuli Venezia Giulia Massimilano Fedriga ha tuonato contro il virus importato dai Balcani e invocato l’esercito alle frontiere, tralasciando il fatto che i lavoratori dei Balcani tengono in piedi diversi rami dell’economia e non è né possibile né auspicabile limitarne gli ingressi. Il virus, si sa, come tutto quello che è negativo, viene dall’Est.

Ma a fare le spese di questa situazione sono stati in particolare i più vulnerabili, i profughi in cammino, che continuano ad affollarsi in condizioni invivibili e antiigieniche nel cul-de-sac del cantone nord-occidentale della Bosnia Erzegovina, arginati dalle torture messe in atto sistematicamente dalla polizia croata.

Durante l’epidemia su di loro sono stati messi a punto esperimenti autoritari della gestione dei flussi, come quando il falco ministro della Difesa serbo Aleksandar Vulin li ha rinchiusi 24 ore su 24 nei campi, durante il lockdown e oltre, schierando i suoi soldatini all’esterno. Sempre con la minaccia sbandierata del Covid, la Serbia sta erigendo un muro al confine con la Macedonia del Nord per prevenire ingressi incontrollati in tempi di Covid, presentato dalle autorità locali come uno strumento per esternalizzare il controllo delle frontiere Schengen.

L’Unione europea, che sull’ennesimo muro ha taciuto alle domande della stampa, non ha del resto da offrire un migliore esempio per la condivisione delle responsabilità.

Una situazione più caotica ma anche più divisa e divisiva sarebbe difficile da immaginare. Qualcuno dirà che questo è ovvio, che, data la situazione di costante tensione nella regione, sulla quale prosperano spesso leader incapaci di rispondere ai bisogni dei propri cittadini e pertanto pronti a fare scintille con i vicini, la crisi non abbia potuto che aggravare rapporti già compromessi o ferraginosi.

Eppure salta all’occhio come durante un’altra occasione di crisi, nel 2014, quando apocalittiche alluvioni martoriarono la penisola balcanica, si era assistito a un buon coordinamento tra Serbia, Croazia e Bosnia Erzegovina, con iniziative di solidarietà concreta, che avevano fatto pensare all’inizio di un’era nuova.

Il noto attore serbo-croato Rade Serbedžija aveva affermato che le alluvioni avevano lavato il sangue e l’odio. Ah già ma quella era un’altra epoca, e ben sei anni sono passati. E oggi la tossetta della seconda ondata di Covid, sia all’interno dell’Unione Europea che alle sue porte, sembra aver solo alimentato le beghe di vicinato.