Egitto, tra arresti e inni alla rivoluzione contro al-Sisi

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21 Ottobre 2019

Nel cuore del sistema di repressione qualcosa si muove, tra proteste e pentiti eccellenti

Più di 2mila arresti nelle ultime settimane di manifestanti che a più riprese hanno chiesto la caduta del generale al-Sisi che da sei anni tiene il paese col pugno di ferro. Il regime, per soffocare l’opposizione interna, ha costruito un’apparato, dedito al controllo, al fermo e all’arresto; un sistema intrecciato, complesso e a più livelli. L’intelligence si divide in due rami: quella militare e quella civile.

Entrambi lavorano alla raccolta dati e alla schedatura continua dei soggetti potenzialmente pericolosi: sindacati, politici di opposizione, giornalisti e chiunque rappresenti, secondo i loro criteri, un pericolo per la stabilità del regime.

Giulio Regeni è finito proprio nella rete dei servizi militari e civili per le sue ricerche sui sindacati egiziani e non ne è uscito vivo: sospettato di essere una spia è stato brutalmente assassinato.

Accanto ai servizi segreti, c’è il Servizio di Sicurezza dello Stato (o Amn Al Watani), formato da diverse migliaia di uomini, a cui è affidato il compito di fermare, arrestare, incarcerare sulla base delle informazioni che i servizi segreti gli inviano.

Nelle fasi di fermo del sospetto spesso ci sono anche poliziotti e i temutissimi baltageya: criminali assodati da boss della malavita locale che lavorano per conto del regime, utilizzati come sicari per minacciare oppositori e manifestanti. Ed è da qui, dallo stato di fermo di un sospettato, che ha inizio il viaggio all’interno del buco nero delle carceri egiziane, definite tombe da HRW la fine dell’umanità da Amnesty International.

 

 

La rete delle carceri

Liman Torah, Abu Zabal, Wadi Natron e Aqrab. Questi quattro complessi carcerari sono le principali destinazioni degli arrestati per motivi politici: oppositori, giornalisti, attivisti.
Amnesty International in un breve documentario riporta testimonianze di prigionieri usciti o di familiari di detenuti che accusano le autorità carcerarie di maltrattamenti, percosse e abusi sessuali. Non solo, durante i processi diversi detenuti hanno accusato i secondini di torture subite con elettricità, acqua fredda e altre forme di coercizione fisica e psicologica.

Kareem Taha, uno dei detenuti intervistati nel report di Amnesty riporta questa testimonianza: “Dopo diversi giorni passati in cella in assoluto isolamento e dove mancava tutto: l’illuminazione, aria, servizi igienici, un letto e cibo, una notte sono entrati nella mia cella degli uomini col volto coperto, mi hanno strappato i vestiti con la forza e una guardia ha sfilato la cintura di cuoio e ha iniziato a picchiarmi in tutte le parti del corpo. Dopo un pò mi hanno ammanettato e mi hanno costretto ad inginocchiarmi e mettere la mia testa dentro un secchio usato nelle celle per defecare e raccogliere gli escrementi”.

Oltre alle carceri civili, in Egitto esiste una vasta rete di carceri militari suddivise tra il Nord dell’Egitto e il Sinai, che secondo al-Jazeera sarebbero stati utilizzati come zone di detenzione all’interno del programma Extraordinary Rendition della Cia che ha coinvolto anche il nostro paese col caso Abu Omar. In totale 180 le carceri civili, 10 militari e circa 300 i punti di fermo e detenzione provvisoria presenti in tutto il paese, numero che è in continua crescita: un decreto del governo del 1956 infatti permette la costruzione di complessi detentivi senza limiti di numero e grandezza.

Ad oggi secondo al-Jazeera sarebbero 16mila i detenuti per motivi politici sotto il regime del generale al-Sisi, trattenuti in condizioni di disagio come riportano le ong impegnate sul campo.
La magistratura egiziana – dal 2013 ad oggi – ha emesso più di mille condanne a morte in attesa di esecuzione contro dissidenti politici. Il generale al-Sisi, in un’intervista rilasciata all’Independent, smentisce categoricamente che in Egitto ci siano detenuti per motivi politici.

Una nuova rivoluzione

Il richiamo ad una nuova rivoluzione viene da Mohammad Ali, ex imprenditore vicino al presidente al-Sisi, ora rifugiatosi all’estero, che sui social sta invitando i cittadini a scendere nelle piazze contro il governo del generale. Mohammad Ali per anni è stato il sodale del generale e Presidente egiziano . Per lui ha costruito ville, palazzi e residenze in tutto il paese. Uomo fidato del regime ne custodiva i segreti. Ora Mohammad Ali, ex imprenditore vicino alla Presidenza, ha deciso di parlare.

È fuggito all’estero, e su Facebook sta facendo nomi e cognomi, cifre e affari,  dell’apparato militare e di sicurezza egiziano. L’ex imprenditore accusa i militari di utilizzare soldi pubblici per sviluppare non solo progetti personali del Presidente egiziano ma anche per arricchire amici militari, parenti e conoscenti. Non solo. Al-Sisi avrebbe distribuito incarichi, posizioni nei ministeri, nelle province e città a sodali abusando del suo potere e violando la legge. E avrebbe anche fatto ristrutturare l’entrata del cimitero dove riposa sua madre e comprato ville alla moglie Intisar per milioni di euro, tutti fondi sottratti alle casse dello stato secondo Mohammad Ali che afferma di essere stato testimone di questi illeciti, essendo lui stesso il costruttore per conto della Presidenza.

Un enorme vaso di Pandora che sta creando non pochi problemi al regime egiziano che attraverso le sue tv e social sta invitando i cittadini egiziani alla calma e a non credere alle false notizie.

Intanto i suoi video hanno milioni di visualizzazioni e il suo hashtag #VaiViaAlSisi supera il milione di retweet, il primo in Egitto, Kuwait e Arabia Saudita. Mohammad Ali afferma inoltre di esser stato contattato dai servizi egiziani che gli avrebbero offerto soldi in cambio del suo silenzio, ma ha rifiutato e denunciato tutto sui social. Accuse pesanti che in assenza di carte e documenti non possono essere verificato ma che stanno gettando benzina sul fuoco di un malcontento popolare forte dovuto ad una crisi economica profonda e ad inflazione galoppante.

 

 

Le smentite e la taglia sulla testa del figlio

Il padre di Mohammad Ali, intanto, è comparso sulla tv di stato pochi giorni fa smentendo il figlio e accusandolo di volere solo soldi e popolarità mentre l’uomo d’affari Yaser Nada, vicino ad Al Sisi, ha messo sulla sua testa una taglia di 300 mila euro (5 milioni di pound egiziani) per chi riesce a catturare l’ex imprenditore egiziano, considerato la gola profonda del regime egiziano.

 La risposta di al-Sisi

Il Presidente egiziano aveva scelto il silenzio di fronte alle gravi accuse di corruzione mosse contro di lui. Poi ha deciso di parlare durante un congresso organizzato sul tema dei giovani rigettando le accuse di corruzione ma riconoscendo la costruzione di palazzi e ville: “Non lo faccio per me ma per il paese”, ha commentato al-Sisi. 

Da giorni intanto in tutto il paese, secondo al-Jazeera, le forze di sicurezza stanno procedendo a fermi ed arresti di attivisti e militari accusati di riportare notizie false, rei di condividere i video virali di Mohammad Ali. Quest’ultimo intanto con i suoi video continua a mobilitare i cittadini egiziani alla rivolta contro il regime e pare che questo scontro, che sta infiammando sui social, rischia di minare agli occhi degli egiziani non solo la credibilità di al-Sisi, già in calo per la pesante situazione economica del paese, ma anche la stabilità del suo governo.

Mediateca

Why Was an Italian Graduate Student Tortured and Murdered in Egypt?

L'inchiesta di Declan Walsh sul caso Regeni

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Crushing Humanity

Il report sulle carceri egiziane di Amnesty International

The Italian Job

Il mini doc di Vice sul caso Abu Omar