8 Aprile 2020
Impressioni dal Kashmir indiano, dove lo stato di coprifuoco chiude in gabbia la vita delle persone più del Covid-19
Quando qualche giorno fa mi è stato chiesto di scrivere un articolo sull’emergenza da Corona virus in Italia per un magazine Kashmiri, il primo aneddoto che è emerso dalla mia memoria, inaspettato, risaliva al 2010.
Arrivavo dall’Italia e come di consueto avevo fatto tappa a Delhi, prima di prendere il treno per Srinagar, dove da qualche settimana era esplosa l’ennesima insurrezione di massa, con tutto quello che ne comporta: scioperi, coprifuoco, scontri di piazza e martiri. Per me sarebbe stata la terza estate di contestazioni separatiste, e questa in particolare si sarebbe rivelata la più dura: per lunghezza (oltre 5 mesi di coprifuoco), intensità delle restrizioni e numero delle vittime.
A Delhi, quasi come introduzione per questo fieldwork un po’ ostile, avevo incontrato Javed, un commerciante di artigianato Kashmiri che gestiva un negozio nell’area di Paharganj, vicino alla stazione dei treni. Si chiacchierava della situazione politica in Kashmir, che era appena degenerata in seguito all’uccisione di un ragazzo (Tufail Motoo) da parte delle forze armate indiane.
Parlare della “situazione”, (l’espressione halaat, letteralmente corrispettivo di “situazione”, in Kashmir indica per estensione il livello di violenza politica) con un kashmiri significa sostanzialmente entrare in una zona di comfort argomentativo, in cui le tematiche e le discussioni sembrano seguire tracciati in qualche modo prevedibili e già articolati migliaia di volte.
C’è un’emozione condivisa nella memoria dell’ “halaat” e su quella, e le ossessioni che la circondano, si sostiene solidamente una profonda empatia, un saldo senso di identità collettiva incentrato sullo status trasversale di vittime dell’oppressione militare indiana.
Quel giorno però, tra le parole di Javed, spiccò una metafora che sarebbe entrata a buon diritto nella mia analisi etnografica. Non era mai stato un aperto sostenitore del separatismo e il fatto di essere a Delhi forse lo lasciava ancor più libero di esprimere il suo sconforto rispetto al movimento: “Innanzitutto non c’è modo che otteniamo l’Azadi (libertà in Urdu).
Oramai i guerriglieri sono pochissimi, i soldati indiani sono centinaia di migliaia e il Pakistan (che tradizionalmente ha sobillato e supportato l’insurrezione) è allo sbando. Ma poi in India in fondo stiamo bene…Che turismo avremmo in Pakistan? I talebani in ferie? Sono vent’anni che questa storia va avanti, e quelli che ci guadagnano sono solo i leader, alle spese della gente comune”.
Dopo aver recitato questo elenco di ragionevolissimi motivi per non avere fede nel movimento separatista, dopo un attimo di silenzio, mi ha però guardato, in qualche modo prendendo coscienza con un’altra parte di sé provvisoriamente occultata.
“Però vedi…adesso, siamo a Delhi e posso parlare tranquillamente così. Ma ad agosto devo venire a Srinagar per un matrimonio, e so già che all’inizio magari mi metterò a discutere e litigare con tutti per mantenere le mie posizioni. Ma poi, progressivamente la mia mente si arrenderà ai discorsi e alle situazioni di ogni giorno, e alla fine mi troverò ad urlare ‘Lunga gloria al Pakistan!’ a Lal Chowk. Questa storia dell’Azadi è contagiosa come una malattia: non te ne accorgi, ma lentamente entra dentro di te quando sei là, con le altre persone e poi cresce fino a possederti. Non possiamo farci niente!”
Io stesso avevo avuto esperienza di questo contagio, e in effetti, due anni prima, durante il mio primo “campo” devo essermi ritrovato più volte in piazza, ad urlare qualche slogan separatista con la sensazione che l’indipendenza fosse dietro l’angolo.
Dieci anni dopo, nell’Italia del marzo 2020, quella vivace metafora aveva assunto improvvisamente una nuova efficacia: non erano evidentemente solo le idee politiche, come le malattie, ad invadere subdolamente l’anima delle persone fino a condurre i loro corpi a protestare in piazza sfidando la morte o ad essere costretti nelle abitazioni per mesi.
La concatenazione eziologica era (giustamente) biunivoca e poteva invertirsi1: anche le malattie, pervadendo i corpi, potevano possedere gli animi e quindi diventare fattori politici di impatto estremamente pervasivo. Lo stesso contagio, nel farsi idea, paura, immaginario, poteva condurre i corpi a muoversi, contrarsi, esprimersi in maniere del tutto particolari, secondo nuove discipline dettate dall’emergenza e dalla sua corte mediatica.
In entrambi i contesti, e qui la cosa si faceva particolarmente intrigante per lo sguardo antropologico, la restrizione della vita nello spazio pubblico, sancita da un decreto o dal coprifuoco, sembra essere l’effetto più evidente sulla sfera pubblica e sociale. Una forza normativa che, con assoluta capillarità, non si limita a sanzionare le azioni umane, per la loro illegalità, bensì la stessa presenza dei nostri corpi nello spazio pubblico. Per le idee o i germi potenzialmente veicolati da questi corpi.
Quando proviamo ad associare il coprifuoco kashmiri con i dispositivi di restrizione messi in atto da parte degli Stati occidentali stiamo parlando una variazione di grado quindi, e non di natura. Nel nostro caso consideriamo inoltre che ciò avvenga per un bene comune, tenendo conto però che le autorità -religiose, politiche, militari ecc.- proclamano sempre di agire per un bene superiore e che abbiano la tendenza a capitalizzare, come tutti, posizioni di vantaggio formalmente transitorie. Non c’è quindi un legame di proporzione tra leggi draconiane come l’AFSPA o il PSA [1] e le morbide misure di contenimento applicate in Italia, ma c’è in comune, almeno nella mia percezione, un effetto: la nuova sensazione, implicita e dissimulata, di una colpevolezza intrinseca nell’essere pubblicamente visibile.
Nel caso italiano questa trasgressione non è però solo sanzionabile da parte forze dell’ordine: questo nuovo comandamento sta soprattutto trovando legittimazione maggioritaria attraverso il linciaggio social nei confronti di chi non si arrende acriticamente allo slogan #iorestoacasa, anche se nei ranghi di quanto è scientificamente sicuro fare nel caso di isolamento respiratorio.
Non è in sostanza contemplato uno scarto, una qualsiasi forma di pensiero critico autonomo, tra la realtà dell’epidemia e il modo in cui il governo, tramite decreti e funzioni securitarie, la affronta.
Non è contemplata la capacità del cittadino di comprendere le dinamiche del contagio e di comportarsi razionalmente in loro funzione. La paura e la norma diventano gli unici poli discorsivi.
Tra i paralleli tra coprifuoco e dispositivi della biosicurezza, in primo luogo è lampante la comune strategia di preparazione del campo: la modalità in cui viene suddiviso lo spazio, in Italia per comuni, in Kashmir, più capillare, per quartieri ed isolati, fino al dispiegamento totale delle forze armate ad impedire totalmente l’uscita di casa.
In generale c’è una proliferazione e un addensamento dei confini: nazionali, regionali, simbolici, anagrafici, corporei ecc, che serve in quanto tassonomia su cui operare sul piano organizzativo: il buon vecchio “divide et impera”.
C’è una fondamentale differenza però, da rilevare, in relazione al processo di introiezione: nel caso del Kashmir infatti ciò che rende problematica la presenza del soggetto nello spazio pubblico è relativa all’implicita idea che questo sia irrimediabilmente contaminato con istanze separatiste e pro-pakistane, e che per questo il suo corpo sia in sé uno strumento politico che minaccia l’integrità dello Stato nazionale indiano.
In questo senso il suo addomesticamento è un fatto fondamentalmente coercitivo, e la linea di confine che le forze armate disegnano sull’uscio di case, ricalca una demarcazione tra Stato e popolazione come entità in reciproco ed irrisolvibile conflitto.
Al loro interno i kashmiri sono, quantomeno nella policy indiana, un’entità compatta ed ostile [2]. Nel caso dell’epidemia il confine in questione è sì mantenuto in essere anche grazie alla vigilanza delle forze dell’ordine, ma il risultato più invasivo dei dispositivi di biosicurezza è probabilmente l’assimilazione, da parte dei soggetti, della così detta “distanza sociale” come schema motorio.
Il confine più prossimo è radicato in un meccanismo di incorporazione per il quale gli altri sono la minaccia, in quanto potenziali vettori i quali possono a loro volta renderci , oltre che malati, anche nuovi vettori.
La produzione della distanza sociale come fattore implicito dell’esperienza corporea quotidiana, ha un qualcosa di rivoluzionario sul piano antropologico, in quanto risulta in uno stato di tensione permanente che si intreccia all’esperienza sensoriale e sociale del nostro essere con gli altri.
Non credo occorra precisare questo dato, in quanto lo possiamo osservare ogni giorno in noi stessi o negli atteggiamenti degli altri nei rari momenti in cui si entra in un supermarket o ci si incrocia sul marciapiede.
C’è un livello di tensione territoriale che fino ad ora avremmo potuto collegare ad un conflitto interpersonale, e che ora invece diventa potenziale di atomizzazione sociale.
La questione è quanto l’incorporazione di questo fattore, se praticata nel lungo termine, sia reversibile, o se sia destinata a diventare un dispositivo permanente della vita sociale su cui potranno innestarsi nuovi dispositivi di controllo.
La produzione della “distanza di sicurezza” è uno schema percettivo e motorio che, personalmente sento come già inconsciamente incorporato durante la mia ricerca in Kashmir: nella fattispecie la distanza di sicurezza che si deve mantenere, con modalità variabili, nei confronti delle forze armate, le quali, senza che vi sia una ragione specifica, possono in un qualsiasi momento esercitare il loro monopolio della forza legittima.
Sintetizzando all’estremo, nella mia etnografia, la costruzione di questi confini microsociali (in particolare durante gli scontri) è una performance che riabilita nell’ordinario, la storia della spartizione indopakistana, matrice del conflitto del Kashmir.
A cosa rimandi questa atomizzazione incorporata nella nostra società, rimane una questione aperta, ma sicuramente interessante nei potenziali riferimenti a totalità discorsive più astratte. Ma il dato importante è che qui non è una ben identificabile autorità che esercita il monopolio della forza legittima a produrre paura e distanziamento. E’ la paura degli altri al di là della loro intenzionalità e persino dalla manifestazione di sintomi.
Quasi come complemento alla frammentazione dello spazio e delle relazioni immediate in questi giorni mi pare di poter rilevare un’altra tendenza, che ci fa al contrario sentire parte di un corpo sociale condiviso ed innesca processi di solidarietà, ad esempio nei confronti delle categorie più vulnerabili, ma che soprattutto, in una ancor più incisiva forma di introiezione, ci fa sentire come potenziali ed inconsapevoli vettori.
Non è più quindi un semplice egoismo, il semplice spirito di sopravvivenza, a possederci, ma anche, e sopratutto la sensazione di avere a che fare con un male che possiamo veicolare per negligenza, portando magari alla deprecabile morte di un nostro famigliare.
Questo senso di colpa a priori, considerando che un senso di colpa è un’auto-sanzione, nasconde di per sé una forza ancora vergine che sul piano identitario denota caratteri che definirei regressivi e progressivi.
In una prima banale prospettiva, decisamente distopica, ma realisticamente in linea con le politiche nazionaliste e protezioniste degli ultimi anni, questo potrebbe risultare in effetti in una riproduzione ossessiva dei confini, su ogni scala, ed un addensamento del loro valore tassonomico discriminante. Il diritto alla salute, in questa prospettiva, si potrebbe cristallizzare come il privilegio per antonomasia, su base della nazionale ed economica per esempio [3].
Il fattore contagio rende simultaneamente esperibile la dimensione olistica in cui siamo immersi in quanto umani, dotati di corpi che, al di là di confini artificialmente e provvisoriamente innalzati, si confrontano con una minaccia che si muove attraverso l’interezza della specie. L’unico confine sicuro, al di là del quale riporre il virus, sarebbe appunto al di fuori di questa.
Utopisticamente questo significherebbe dire che le cure devono essere garantite a tutti, perché nel mondo come l’abbiamo conosciuto negli ultimi decenni, dove gli spostamenti, per ragioni economiche o ricreative sono parte dell’esperienza ordinaria (per lo meno di chi vive in occidente) un rientro del contagio sarebbe una minaccia permanente. L’epidemia in fondo è il più lampante riflesso dell’interdipendenza umana, e difficilmente in futuro, che si parli di guerre, carestie o malattie di paesi lontani, considereremo quella distanza geografica come una garanzia.
Per ora, sull’onda del panico collettivo la prima reazione, trasversale ed istintiva è stata ovviamente di barricarsi in casa e fare scorte di viveri sufficienti per mesi, come i Kashmiri hanno imparato a fare da decenni, abituati a improvvisi periodi di coprifuoco che bloccano gli spostamenti e l’economia lunghi periodi. Per loro la forza misteriosa che s’impone sul quotidiano si origina in quel misterioso affare in cui le loro vite sono incastonate, ovvero la disputa indo-pakistana ed i suoi più o meno leggibili riflessi sul tessuto sociale, dalla militarizzazione del territorio, a crisi politiche che sembrano emergere dal nulla, come catastrofi naturali, a partire dalla mano invisibile delle manovre dei servizi segreti di ogni fazione, dei vertici militari e quelli separatisti e delle zone grigie del conflitto.
Tutto ciò ha portato ad avere, nella circolazione di idee della vallata, un proliferare di teorie del complotto che, devo dire, possono a tratti avvicinarsi spaventosamente, attraverso l’applicazione del principio del “a chi giova”, alla realtà: attentati pilotati dai servizi segreti indiani, frodi elettorali, fake encounters [4] e crisi ad hoc prima delle elezioni sono fatti oramai assodati nella storia della vallata.
Uno degli effetti più interessanti del perdurare del conflitto Kashmiri, definito dai tecnici “a bassa intensità”, è il fatto di essersi sedimentato, sotto forma di violenza organizzata permanente, come un elemento stabile della cultura locale. In certi casi tutto questo ha risvolti generativi, come nel caso dell’incredibile attività interpretativa che le persone, specie coloro i quali sono cresciuti negli anni ’90, hanno sviluppato nei confronti di quanto avviene nell’ambito della politica locale.
Come ha scritto molti anni fa Syeda Afshana, una politologa dell’università di Srinagar, “tutti qui sembrano essersi trasformati in scienziati politici”. La cosa impressionante è che questo effetto, che può essere associato per certi versi ad uno stato paranoico, in realtà risulta anche in una profonda e diffusa conoscenza della storia, della politica e della cultura dell’area, nonché di una precisa consapevolezza del quadro geopolitico più ampio. Il risultato è che, generazione dopo generazione, dalla valle emergono sempre più giornalisti, accademici e attivisti i quali, disseminati in Europa e negli USA, fungono da lobby per la causa kashmiri. L’attività interpretativa e paranoide, fermento della speculazione politica, presenta i suoi picchi proprio a partire dalle restrizioni, quindi nei periodi di coprifuoco, quando la noia impera e le questioni politiche dominano le discussioni casalinghe e di vicinato.
Mi sembra di percepire lo stesso qui, in questi primi dieci giorni di lockdown: la vita confinata, la rarefazione di contatti e di cose da fare, la frustrazione e soprattutto la bulimia di aggiornamenti e letture sulla questione dell’epidemia, stanno catalizzando la stessa compulsione interpretativa, volta, come ogni interpretazione, ad addomesticare almeno parzialmente l’ignoto, a definirne l’origine, o ancora meglio la responsabilità (il paziente zero, i pipistrelli cinesi, i corridori-vettori, la cospirazione), a ipotizzare epiloghi, scenari apocalittici e soluzioni finali, ad individuare untori, reazioni inopportune o opportune di altri Stati e culture.
Tutto questo accompagnato da un’ansia lancinante che ci attanaglia al primo segnale di raucedine: non sarà mica colpa della passeggiata sotto casa?
NOTE
[1] Army Forces Special Power Act e Pulic Safety Act in Kashmir garantiscono la sostanziale impunità alle forze armate indiane, nonché la possibilità di detenere un sospetto fino a due anni.
[2] Esistono in realtà molti altri confini interni, e relative possibilità di contaminazione, per esempio in relazione ai mukbir, gli informatori delle agenzie militari.
[3] Di fatto in molti fanno notare come già l’attenzione per il Covid-19 sia sproporzionata rispetto a varie malattie infettive (TBC, malaria) ancora non debellate nei paesi in via di sviluppo.
[4] Scontri a fuoco costruiti ad hoc dall’esercito, con vittime civili poi indicate come guerriglieri, allo scopo di ricevere premi e promozioni.