Non solo Fairuz

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25 Gennaio 2020

La rinascita culturale, e commerciale, della musica araba

Le voci d’Oriente trovano finalmente dimora in Europa. Dopo decadi di profondo oblio, diverse etichette d’oltralpe si stanno oggi prodigando a infondere nuova linfa ad alcuni dei più interessanti esperimenti melodici, provenienti dal Mashrek e dal Maghreb.

Rispolverati dagli archivi delle loro case d’origine, un’ondata di dischi prodotti, composti e cantati in arabo da artisti rimasti a lungo inediti, sta gradualmente raggiungendo il pubblico nostrano.

Il caso certamente più eclatante è quello di Habibi Funk (in arabo: ” Funk, amore mio”), che vede la luce ormai cinque anni fa a Berlino. Un titolo che racchiude una doppia dichiarazione d’amore: al genere che fa da denominatore comune all’etichetta, e all’impronta linguistica che la caratterizza.

Concepita dal dj e produttore tedesco Jannis Stürtz, come tassello della più ampia Jakarta Records, Habibi Funk nasce come evento musicale, che ha fatto tappa in non pochi locali europei, e come playlist di pezzi funky arabi mixati da Stürtz, accessibile sul web sui più noti canali di streaming audio.

Il passo che ha contribuito a consacrare il progetto è stata la successiva pubblicazione in monografico dei vari compact disc, di cui la batteria di Habibi Funk si alimenta.

“Ci sono stereotipi molto specifici sulla cultura araba, ma c’è chi cerca una diversa narrazione culturale. Io voglio provare a presentare una storia che rifugga gli stereotipi” spiega il fondatore dell’etichetta in un’intervista a Vice.

Con la sua pala dunque, Habibi Funk persegue un chiaro obiettivo: dissotterrare gemme mai giunte in Europa, da tempo fuori catalogo in tutto il Medio Oriente, ristampando dischi a metà tra due mondi, intensamente contaminati da sonorità jazz e funk, fuse a voci e strumenti tipicamente orientali.

E così, le melodie coinvolgenti del tabla e del kanoun, intrecciandosi a strumenti più classici, partoriscono suoni ballabili, di una freschezza irresistibile. Il parco titoli che l’etichetta presenta spazia dal Sudan (Balbil, Wed Bakri, The Scorpions e Saif Abu Bakr), all’Algeria (Ahmed Malek) per inoltrarsi in Egitto (I Massrieen) e Libano (Issam Haj-Ali).

Al di là delle mescolanze frizzanti e all’avanguardia, che ammiccano al mercato europeo, gli album della collana hanno in comune anche l’età anagrafica. Le incisioni difatti risalgono tutte agli anni settanta e ottanta, ultimo periodo di massimo splendore del jazz in Europa e negli Stati Uniti. Uno splendore che, come testimonia la ricerca di Stürtz, ebbe modo di irradiare persino gli artisti più a est.

Eppure una cosa stona tra le fila di Habibi Funk. Un dettaglio a onor del vero assai lampante: i musicisti e i cantanti che a oggi hanno convinto il dj tedesco sono quasi tutti uomini. Un fattore sociologicamente rischioso, che potrebbe rafforzare ulteriormente i luoghi comuni sul mondo arabo. Gli stessi che Stürtz ammette di voler ribaltare.

Fortunatamente, ci pensano altre etichette a colmare il gender gap di Habibi Funk. In primis, la norvegese KKV di Erik Hillestad, che nel 2004 diede alle stampe un iconico disco intitolato Lullabies from the Axis of Evil, in cui la tracklist interamente al femminile è stilata da autrici provenienti da paesi come Iraq, Iran, Palestina e Siria.

Esattamente quelli che il presidente Usa di allora, George W. Bush, etichettava con livore come “Asse del male”. Facendosi portatrice di una bandiera esplicitamente politica, la KKV si distanzia dall’intento di mera ricerca di Habibi Funk, fungendo da microfono per le musiciste arabe.

Nel corso degli anni, assieme a una moltitudine di voci iraniane, la KKV ha adottato tra le sue schiere cantautrici di spessore come Rim Banna – la voice of resistance palestinese, scomparsa prematuramente nel 2018 – e la cantante indie libanese Tania Saleh.

Dopo un’apprezzata incursione nei meandri della bossa nova, le due sfiorano i lidi dell’elettronica, sciorinando i primi esperimenti di questo genere in lingua araba. Intitolato a ragione Intersection, l’ultimo disco della Saleh contiene pezzi ricchi di beat realizzati al sintetizzatore, dai toni fortemente politicizzati, in coerenza col manifesto della KKV, con cui l’artista si fa portavoce di denuncia sociale e del movimento femminista locale. Non è un caso che il brano I Lilith, virulenta provocazione al patriarcato dominante nel mondo arabo, conti la collaborazione di Jumana Haddad, che da anni capeggia la scena letteraria femminista di Beirut.

Un proposito simile trova eco ancora una volta tra i confini tedeschi dove un altro marchio, la Dreyer-gaido, ha inaugurato nei mesi scorsi una collana dedicata alle Eastern Voices femminili. Il repertorio orientale della D.G. accoglie cantanti armene e sufi, nonché la sorprendente soprano siriana Dima Orsho, che con la raccolta di nenie Hidwa: lullabies from troubled times, esprime con impeto e commozione il tormento del dramma siriano, in lingua araba e azera, con ampio ricorso allo scat. Ne è chiaro esempio la superba Trip to Ghouta, che conclude l’album.

L’ennesimo caso che suggella questa crescente scia di richiamo per la musica araba più impegnata, arriva dalla francese Wewantsounds, specializzata in ristampe di vinili. “Vogliamo suoni nuovi, i migliori in assoluto” pare suggerire il nome dell’etichetta che vanta un catalogo variegatissimo.

E chi meglio di Fairuz, la diva araba per eccellenza, che da sempre capovolge i diktat della musica araba più tradizionale, può personificare questo matrimonio creativo tra Occidente e Oriente? Wewantsounds fa il botto e, anticipando chiunque, porta in Europa Wahdon, il primo LP prodotto quarant’anni fa per Fairuz da suo figlio Ziad Rahbani, virtuoso del jazz orientale.

Quando apparve a Beirut nel 1979, nel pieno della funesta guerra civile, il disco trovò tiepida accoglienza nel paese, malgrado la fama da veterana di cui la cantante già godeva.

Se il lato A presenta track arabissime, poco memorabili, è il side B del vinile con Wahdon e Al Bosta, a proiettare la più marcata vicinanza alle correnti musicali d’Occidente. E che, proprio per questo, calamitò aspre critiche sul sodalizio tra Ziad e Fairuz, all’alba della sua separazione dai Rahbani Brothers – duo che univa Assi e Mansour, rispettivamente marito e cognato dell’artista – compositori fino ad allora di tutta la discografia della diva.

Un altro rimprovero che i detrattori del disco rivolsero a Fairuz fu di aver accettato di cantare pezzi composti in precedenza per altri. Il brano groove Al Bosta (in arabo “La corriera”), scritto da Ziad nel 1976 per uno dei suoi musical più celebri, Bel nesbe la bokra shou? (“E domani che facciamo?”) racconta con linguaggio piuttosto colorito di un viaggio insolito in corriera, la cui prima versione fu portata in scena dal compianto Joseph Saqr. Un tale tono scanzonato, all’epoca, era inimmaginabile per i canoni poetici alti a cui Fairuz aveva abituato il proprio pubblico.

Wahdon invece, la ballata jazz che conferisce il nome al disco, venne criticata dall’audience più conservatrice di Fairuz, in quanto già registrata da Ronza -cantante in voga negli anni settanta- per il film Nahla, girato in Libano dal regista algerino Farouk Beloufa.

Nemmeno scoprire che dietro alle parole di Wahdon (“Soli”) vi era Talal Haidar, membro della cerchia dei poeti più significativi del Libano, secondo soltanto al celeberrimo Said Aql, da anni paroliere di Fairuz, servì a placare gli animi. Eppure il pezzo dimostra la volontà di Fairuz di non voler rompere del tutto col passato, continuando a dar voce alla poesia araba più raffinata, da quella di Gibran al già citato Aql. E lo dimostra il testo stesso di Wahdon, bucolico e nostalgico:

“Da soli restano come fiori di sambuco/da soli/a cogliere le foglie del tempo/chiudono la foresta e bussano alla mia porta/o tempo/erba abbarbicata alle pareti/sul mio libro hai dato luce alle rose della notte/alta e recintata è la torre dei colombi/migrarono, i colombi/e io rimasi solo… ” *

*La poesia è tradotta da Simone Sibilio e Rami Haidar, nella raccolta
“Il venditore del tempo” di Talal Haidar, Edizioni Q.

C’è sicuramente molto altro ancora da recuperare, ma i musicisti arabi oggi non sono più soli. E questa è una selezione consigliata da Spotify: