Guantanamo, venti anni dopo

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10 Gennaio 2022

Sette di loro si sono riuniti vent’anni dopo Guantanamo, da cittadini liberi, on line, nel primo evento pubblico del genere organizzato dall’organizzazione per la promozione dei diritti umani The Cage

Moazzam Begg. Shakir Amer detto il Professore, Omar Khader, Mohammadu Slahi, Omar Deghaies, Ahmed Errashidi soprannominato Il Generale e Mansour Adayfi l’8 gennaio hanno parlato per tre ore di quegli anni, con un misto di leggerezza, attivismo politico e serietà sorprendenti.

Non fosse stato che Guantanamo è un carcere dove sono stati praticati dei sistemi di tortura inenarrabili e che è stato ed è ancora il luogo dove il principio internazionale dell’habeas corpus viene negato, sarebbe sembrato l’happening di un gruppo di amici che ricordavano il college un sabato sera qualsiasi in tempi di pandemia.

Distopico ma vero. Insieme a loro c’era Clive Stafford Smith, uno degli avvocati che fin dall’inizio si occupò di fare luce sul sistema eccezionale di detenzione praticato dagli Stati Uniti d’America a Guantanamo Bay; sistema a cui vennero sottoposte, venti anni fa, a partire dall’11 gennaio 2002 – data del trasferimento del primo prigioniero dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 – 780 persone ritenute all’epoca pericolosissimi terroristi, salvo rendersi conto dopo 14 o 16 anni che, per 741 di loro, si era trattato perlopiù di accuse basate su sospetti con pochi fondamenti dimostrabili.

Per questo motivo, un gruppo di ex detenuti di Guantanamo – che ironicamente si definisce The Guantanamo stars, visto che le storie di alcuni di loro, come Mohammadu Slahi, The Mauritanian, sono diventate dei blockbuster al cinema – hanno firmato una lettera al presidente americano Joe Biden, una “road map” per la chiusura di Guantanamo.

Tre punti tra gli otto complessivi della lettera sono cruciali a questa richiesta: abolire la condizione di prigionia indefinita per legge di guerra senza impianto accusatorio, senza processo, senza diritto concreto alla difesa in un regime extragiudiziale estraneo al sistema americano; impedire la ricollocazione in Paesi in guerra o in Paesi pericolosi per gli ex prigionieri di Guantanamo già liberati perché ritenuti non più d’interesse per la Cia: rottamare le commissioni militari, le uniche che si occupano degli ultimi casi di accusati rimasti in cattività, in tutto 12, sui 32 ancora detenuti. 

Ma non sono solo gli ex Gitmo ad aspettarsi la chiusura del carcere: la richiedono oggi con più forza anche gli attivisti, gli avvocati e tutte le organizzazioni internazionali che in questi anni si sono battute per non lasciare aperta questa eccezionalità giuridica e penitenziaria e che attendevano che una decisione in merito venisse presa dal presidente Barak Obama.

Se la decisione è stata disattesa da Donald Trump che addirittura auspicava di riempire nuovamente Guantanamo con malati di Covid, dal nuovo presidente democratico Joe Biden ci si aspetta adesso una presa di posizione definitiva.  Soprattutto dopo che, nello scorso ottobre, l’amministrazione Biden ha riferito alla Corte Suprema e al procuratore generale ad interim Brian Fletcher che il governo americano avrebbe consentito all’ex detenuto Abu Zubaydah di inviare una dichiarazione alle autorità polacche  sulle torture subite, non solo a Guantanamo ma anche in uno dei black sites americani dove questi detenuti furono trasferiti in una prima fase dell’arresto.

In questo caso specifico, il luogo dove Abu Zubaydah avrebbe ricevuto le prime torture è una struttura polacca gestita della CIA nei primi anni Duemila.

La richiesta è un’assoluta novità, considerato che, sebbene sia stato ampiamente riportato che la CIA gestisse un cosiddetto “sito nero” in Polonia come in altri Paesi europei, gli Stati Uniti hanno cercato di proteggere le identità dei partner dell’intelligence straniera e l’ubicazione delle strutture di detenzione nei Paesi dove esse si trovano.

L’attenzione è quindi tutta puntata sull’amministrazione americana in questo ventesimo anniversario del fallimento della difesa dei diritti umani internazionali da parte degli Stati Uniti, senza considerare una serie di altre implicazioni: il costo di mantenimento di Guantanamo per i contribuenti americani; il costo del programma di “recupero” e “ricollocamento” in Paesi terzi degli ex detenuti, operazione non sempre di successo; un certo numero di casi di “sparizioni” di ex detenuti, una volta ritornati nei Paesi di origine, come quello dello yemenita Abdulqadir al Madfhari, probabilmente oggi nelle mani delle milizie Houthi; un altro numero consistente di casi di ex detenuti che avrebbero dovuto essere reinseriti nelle società di Paesi terzi, che aderivano al programma americano, ma che sono stati nuovamente incarcerati, ed è sempre il caso di una decina di ex detenuti yemeniti trattenuti arbitrariamente nelle carceri emiratine con grande preoccupazione delle famiglie; la maggiore radicalizzazione di alcuni ex detenuti, dopo Gitmo, come è il caso di una buona metà dell’attuale nuovo esecutivo talebano; l’estrema difficoltà, da parte di tutti coloro che si sono lasciati alle spalle la vita precedente, di vivere una presunta normalità, senza accesso a cure psicologiche, condannati all’isolamento sociale in Paesi loro assegnati dall’amministrazione americana, senza accesso alle lingue locali parlate, in luoghi molto ostili nei confronti dei musulmani.

In dieci anni di lavoro sulle tracce di ciò che l’11 settembre ha creato e di ciò che Guantanamo ha causato successivamente, in senso concreto e anche simbolico – si pensi all’uso della tuta arancione sui condannati a morte e sui prigionieri del gruppo terrorista dello Stato islamico – non c’è ex detenuto che non mi abbia detto che “non esiste vita reale dopo Guantanamo”.

La frase ricorre ossessivamente in tutte le testimonianze, senza distinzioni, indipendentemente dal carattere dell’ex detenuto e dalla sua storia precedente, nella maggior parte dei casi di completa estraneità ai fatti dell’11 settembre ma, allo stesso tempo, di adesione convinta a un Islam radicale e assoluto. Fayz Suleiman, l’unico ex Gitmo riparato in Italia nel 2016 per volontà di un precedente governo Berlusconi che strinse l’accordo di “ricollocamento” con gli Stati Uniti, è uno dei rarissimi casi di pieno successo: Suleiman oggi ha una vita normale, è un uomo libero, ha una casa e un lavoro come badante in Sardegna.

Ma, se richiesto di tornare indietro nelle memorie più buie, lui che venne accusato di essere l’esperto di chimica al servizio di bin Laden e che sempre nega di esserlo mai stato, dice: “Guantanamo non è un luogo fisico, è uno stato dell’anima. Posso immaginarmi di proiettarmi nel futuro ma è come se vivessi ancora lì dentro. E’ lì che sono rimasto per sempre”.

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