22 Novembre 2018
La Marcia dell’Indipendenza dell’11 Novembre scorso a Varsavia è un’occasione per riaffermare la vicinanza dello Stato all’ultradestra polacca e per ritornare su alcune caratteristiche del “fascismo eterno”
Una marcia al prezzo di due
Nei giorni che hanno preceduto la manifestazione di Domenica scorsa a Varsavia vari episodi hanno mostrato le tensioni e le prossimità tra i due principali promotori, da un lato l’ultradestra nazionalista (in particolare l’ONR, Campo Nazionale Radicale e la MW, Gioventù di tutta la Polonia) che fin dal 2011 organizza la Marcia dell’Indipendenza (Marsz Niepodległości), e dall’altro lo Stato e il governo polacchi coinvolti nella promozione di una serie di eventi per il centenario dell’indipendenza.
In origine, PiS (Libertà e Giustizia, il partito al governo) aveva considerato semplicemente di partecipare all’evento organizzato dall’ultradestra. Ma l’ultradestra aveva declinato, rifiutando di compromettersi con un governo che non giudica abbastanza duro. Un caso di fascisti di strada che sputano in faccia a fascisti da salotto: i fascisti da salotto allora avevano optato per una marcia dell’Indipendenza… indipendente.
Il 7 Novembre, però, il sindaco di Varsavia Hanna Gronkiewicz-Waltz (1) e quello di Wrocław, Rafał Dutkiewicz (2) hanno deciso di vietare la marcia ultranazionalista prevista nelle rispettive città – agendo correttamente su due piani: primo e più importante, un po’ di antifascismo; secondo, il principio che, in presenza di una manifestazione ufficiale sancita dallo Stato, l’altra, secondo la riforma della costituzione del Dicembre 2016, diventerebbe automaticamente illegale. (3)
In questo scenario i gruppi neofascisti avrebbero sfilato lo stesso, ma in teoria avrebbero dovuto fronteggiare le forze di polizia.
Alla fine questo deve essere sembrato un eccesso di antifascismo a molti del PiS, se il Presidente della Repubblica Andrzej Duda ha deciso, la sera stessa, di revocare il divieto appena emesso dalle due amministrazioni comunali.
Allo stesso tempo, il presidente ha rivendicato la priorità della manifestazione dello Stato e invitato tutti, e sottolineiamo tutti, a partecipare purché non comparissero bandiere e simboli troppo chiaramente neonazisti o neofascisti.
Per complicare le cose, alla vigilia dell’11, un protratto sciopero delle forze di polizia ha costretto il governo a prevedere lo schieramento della guardia civile per garantire la sicurezza della manifestazione di Varsavia.
Fino a pochi minuti prima, pur sorvegliando assiduamente la stampa locale, non sono riuscito a capire se fosse prevista una contro-manifestazione antifascista, men che meno potevo farmi un’idea di quanto potesse essere pericoloso parteciparvi (gli anni scorsi ci sono stati diversi casi di aggressione da parte dei militanti fascisti).
La giornata si è svolta con estremo ordine, dimostrando che Stato e neofascisti possono andare perfettamente d’accordo.
Duecentomila si sono radunati nella grande piazza sotto il Palazzo della Cultura, sventolando prevalentemente le bandiere nazionali biancorosse. Lo Stato ha dispiegato le forze armate in una grande parata mentre i gruppi neofascisti hanno preso posizione vicino alla testa, in una cisti perfettamente contenuta dal servizio d’ordine del Campo Radicale che conteneva anche una delegazione vacanziera di Forza Nuova. Dopo un lungo discorso del Presidente della Repubblica e accompagnati da vari personaggi politici incluso Jarosław Kaczyński, la fiumana ha seguito un percorso di tre chilometri senza alcuna curva o deviazione passando a fianco del castello reale, sopra al ponte Dąbrowski e fino allo stadio olimpico, dove i più hanno cominciato a tornare a casa e altri hanno potuto assistere ad una serie di concerti di gruppi come Basti, Irydion, Huzar o Royal Age.
Per un resoconto più dettagliato, vi rimando alle agenzie e giornali internazionali dove potrete riempirvi gli occhi di bianco, rosso e nero (senza dimenticare santi e croci). Alla fine io ho trovato e raggiunto la manifestazione antifascista, non numerosa (direi massimo cinquecento persone) ma festosa e piena di giovani e giovanissimi. Non è successo niente, per fortuna – la grande marcia passava rumorosamente distante – ma mi è comunque rimasta la voglia di lanciare qualche insulto in madrelingua ai figli di Fiore.
Il newspeak nazionalista
Leggendo i giornali, il grande scandalo sembra essere la compartecipazione della estrema destra istituzionale e di quella più estrema e non istituzionale ad una manifestazione che viene presa come fondamentalmente patriottica e dunque politicamente corretta.
Sicuramente si tratta di uno scandalo, ma non è certo una rivelazione.
La vicinanza ideologica, ed elettorale, tra l’attuale governo polacco e i movimenti dell’estrema destra non è nata l’11 novembre ed era evidente già da tempo.
Anche il simbolismo di una marcia militare, sotto gli auspici di Chiesa e Stato, con in testa un manipolo di fascisti e seguita da una massa di patrioti, non è proprio cosa nuova e risulta così impensabile solo dall’interno del mondo come lo possono immaginare i neoliberali.
Se Emmanuel Macron nel suo discorso sotto l’Arco di Trionfo per la celebrazione dell’Armistizio si è dedicato a separare il buon patriottismo dal cattivo nazionalismo, si può e si deve parlare invece di linee di convergenza, se non più schiettamente di identità.
Da un lato, il buon patriottismo è sempre nazionalismo – pure e specialmente quello evocato da Macron, che fa mostra di lavarsi nelle acque dell’eguaglianza (Francia come progetto portatore di valori universali), mentre in realtà si è sempre lavato nel sangue (basti dire Algeria); dall’altro, il cattivo nazionalismo è sempre parte essenziale della legittimazione del potere dello Stato.
Bisogna anche notare che la celebrazione dell’11 novembre in Polonia non ha, a priori, lo stesso significato pacifista che gli è dato, con più o meno ipocrisia, in Francia ed in altri paesi dell’Europa occidentale. L’Indipendenza del 1918 segnò per la Polonia non l’inizio un periodo di pace, bensì di una serie di campagne militari per la definizione ed estensione dei suoi confini, chiaramente iscritta in una politica imperialista, anche se su piccola scala. Già di per sé, dunque, la celebrazione del centenario non è per niente innocente e dimostra al contrario i legami profondi tra il patriottismo festivo ed il nazionalismo guerrafondaio.
Per questo – e mi sembra un’ovvietà – vanno incluse tra i nazionalisti anche quelle persone politicamente non radicali che hanno partecipato alla marcia sotto il semplice vessillo nazionale.
“Non appartengo ad alcun partito o movimento, siamo solo contenti di celebrare i cento anni della Polonia. Tutte queste bandiere sono una bella cosa, un momento di unità. È bene essere nell’Unione Europea ma ciascuno deve mantenere la sua sovranità.” Questa dichiarazione raccolta da Hélène Bienvenu per Le Courrier de l’Europe Centrale dall’interno della manifestazione è emblematica di una posizione largamente condivisa, anche al di fuori della Polonia.
Ma mantenere la sovranità vuol dire qualcosa di diverso che mantenere la gloria della bandiera e dello stato nazionale: il newspeak nazionalista imbroglia sia chi lo abbraccia che chi gli resiste.
In particolare, la versione che il discorso nazionalista prende nell’Europa centro-orientale, misto com’è ad un forte populismo identitario di governo, si presenta falsamente come un progetto di Europa opposto a quello neoliberale e come un modello di democrazia più diretta.
Al contrario, è perfettamente immaginabile un’Europa divisa in piccoli stati nazionalisti e di fatto governata da grandi organismi sovranazionali e al di sopra di ogni controllo politico.
Così come penso che il problema più profondo siano le forme quotidiane e rispettabili del nazionalismo, non opposte ma contigue a quelle più virulente e impresentabili, continuo a pensare che il vero problema non sia lo scontro tra Europa liberale ed Europa ultranazionalista, ma piuttosto la loro compatibilità.
La storia delle tensioni tra movimenti neofascisti e lo Stato polacco in occasione della Marcia non è dunque la storia di una difficile convivenza, ma di un imbarazzo di fronte ad una eccessiva prossimità. L’incontro è scomodo, ovviamente, perché è rivelatore di qualcosa che esisteva già: in Polonia particolarmente ma, più in generale, come una caratteristica strutturale dello Stato nella tarda modernità.
Forse per una coincidenza, la protesta dell’opposizione di centro-destra il giorno prima della marcia ha trovato uno slogan felice: al grido di “nazione!” ha opposto quello di “costituzione!”, realizzando, io credo non del tutto consapevolmente, che il problema in questo caso andava spostato dalla sfera dell’ideologia a quello dello Stato.
Rivendicare le riforme della costituzione che ha condotto in nome della sovranità nazionale è uno dei grandi insulti che PiS sta lanciando al paese. In realtà si tratta soltanto di riforme autocratiche che privano il popolo-nazione di ogni autonomia e lo escludono ancora più nettamente dalla gestione del potere, e che sono sotto questo aspetto del tutto coerenti con gli interessi dell’economia e della geopolitica globali.
Il nazionalismo identitario non comporta davvero, come dice, un rifiuto del “globalismo” – ovvero del capitalismo globale – ma solo dei valori di eguaglianza e libertà universali, a torto e strumentalmente ridotti al “multiculturalismo liberale”.
Uno Stato autocratico e una ideologia tradizionale possono dunque sommarsi alla cosiddetta tecnocrazia e ne sono in molti sensi un prodotto: quello che viene presentato come un ritorno alla sovranità locale è in effetti solo un passo ulteriore nella trasformazione dello Stato nel braccio giuridico-militare di un sistema di governance sempre più accentrato e transnazionale.
Contro l’opinione generale, il populismo e i nuovi movimenti identitari mi sembrano una componente inevitabile ed essenziale della transizione dal capitalismo nazionale al capitalismo globale.
Nessuno Stato ha una cultura
L’enfasi sulla tradizione e sui suoi “valori” che contraddistingue ogni “buona” celebrazione patriottica mostra in realtà come lo Stato non abbia mai alcuna cultura, ma solo uno spettacolo posticcio che spaccia e impone come tale.
La tradizione, con i suoi presupposti identitari e con la stessa immobilità che la definisce, si oppone di fatto alla complessità e alla dinamicità che definiscono invece la cultura come “modo di vivere,” (4) e quindi come un potere sempre nelle mani di ogni individuo. Con il populismo e il nazionalismo, lo Stato diventa di fatto sempre più distante non soltanto da questa o da quella cultura storica, in misura della loro semplificazione e strumentalizzazione, ma, in misura della più completa arbitrarietà del suo potere, dalla dimensione culturale della società in quanto tale.
Stato e cultura appartengono a due progetti diversi di società: lo Stato mette il governo dove potrebbe esserci cultura.
Nell’orizzonte di un sistema di governo, dunque, la cultura esiste solo come forma di identità e come supporto ideologico all’unità dello Stato, e i suoi contenuti hanno un valore – contro ogni possibilità di dialogo e contro ogni idea di storia – indipendentemente dal loro senso e, addirittura, tanto più valore quanto meno hanno senso.
L’esercito, la bandiera, il pinzillacchero – quelli che senza nulla togliere alla vera cultura popolare Corrado Guzzanti chiamava “buffi, stupidi costumi locali” – sono le ultime vestigia di indipendenza che il capitalismo globale permette alla vecchia carcassa della Nazione, in funzione di un rafforzamento del potere repressivo dello Stato.
Il capitale tratta ogni bandiera come il pinzillacchero e ogni cultura come un buffo stupido costume regionale, buono solo per promuovere il turismo, l’ordine e la disciplina.
Quello che si nasconde dietro al circo identitario, e quello che più importa, è infatti uno Stato sempre più arbitrario e sempre più potente, che accentri sempre più, confondendole, le funzioni del poliziotto e del giudice. La voce che emerge dagli slogan dei movimenti identitari, e li sovrasta, la voce di cui sono in effetti i meri portavoce, è quella di Judge Dredd che dice “Io sono la Legge” mentre spara per strada, ovvero quella di un potere svincolato da ogni sistema di diritto.
Così come lo Stato non può davvero esistere senza un nazionalismo violento, i neofascisti e i nazionalisti “radicali” non sono nulla al di fuori dell’orizzonte definito dal capitalismo e dallo Stato.
Che provino, i fascisti del nuovo millennio, ad abbandonare l’ala materna della nazione e del mercato e vedranno con che facilità si libereranno di loro: l’unica strada che gli è lasciata aperta, e che d’altronde calcano assiduamente, è quella che li introduce nel sistema.
Allo stesso modo, razzismo, xenofobia e identità religiosa contribuiscono a creare quelle divisioni di cui il sistema capitalista può servirsi per rinforzare le sue gerarchie e le ineguaglianze che giustificano lo sfruttamento.
Come insegna una parte della sua genealogia – sotto Luigi XIV – lo stato tecnocratico è sempre uno stato autocratico e viceversa, ed entrambi non hanno che una relazione nominale, e all’occasione repressiva, nei confronti del popolo-nazione che, entrambi, costruiscono esclusivamente come oggetto di disciplina.
Se ha mai avuto una qualche legittimità politica, al di là di essere una mera struttura di controllo e di oppressione, lo Stato l’ha avuta quando è stato investito, per forza o per necessità, del riflesso di lotte per l’eguaglianza e l’emancipazione. Ma queste lotte comportano sempre una frattura del popolo-nazione e questi riflessi non è nella natura dello Stato di preservare – donde una delle buone ragioni per un rifiuto radicale e congiunto della nazione e dello Stato.
Il fascismo eterno
“Mussolini non aveva nessuna filosofia: aveva solo una retorica,” così scriveva Umberto Eco in un saggio intitolato “Il Fascismo Eterno,” (5) presentato in inglese ad un simposio nel 1995, pubblicato per la prima volta nel 1997 e recentemente ricordato su Carmilla da Piero Cipriano.
Secondo Eco, il fascismo è stato un modello infelicemente prolifico in Europa e, oggi, mantiene un caratteristico polimorfismo, proprio in ragione della sua fondamentale incoerenza.
Il fascismo non è una filosofia completa, ma un sincretismo, una serie di possibili configurazioni di un gruppo di tratti non necessariamente coerenti tra di loro, “un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni.”
La definizione ben si adatta alla compagine apparentemente incompatibile di istituzioni e ideologie che hanno marciato fianco a fianco, in buon ordine, domenica scorsa a Varsavia.
Tra questi tratti Eco, semiologo fino in fondo, ne individuava quattordici più fondamentali degli altri, nel senso che uno solo di questi basta perché il fascismo possa germogliare. In Polonia, ma non solo, si fa quasi l’en plein: culto della tradizione, intolleranza verso il disaccordo e odio degli intellettuali, vittimismo aggressivo e coltivazione di un senso di frustrazione sia personale che nazionale, complottismo, “elitismo popolare” o di massa, machismo (e omofobia), neolingua e “populismo qualitativo”.
La capacità di sopravvivere e perfino di prosperare nella contraddizione, è chiaramente un quindicesimo tratto del fascismo eterno che si ritrova tale e quale sia nella prossimità dei nazionalisti identitari al capitale (già una caratteristica del fascismo storico), sia nell’assurdità programmatica dell’agire istituzionale di PiS e più in generale nell’incoerenza del linguaggio politico delle nuove destre, sempre più vicino al Newspeak orwelliano.
L’analisi di Eco giustifica dunque l’uso di chiamare “fascisti” fenomeni piuttosto lontani dal fascismo storico, e pure singoli atteggiamenti o specifiche istituzioni come la polizia – più propriamente, cattura almeno in parte il senso di questo uso.
Quello che Eco scriveva a proposito del “populismo qualitativo,” in particolare, mi sembra interessante per una critica del discorso populista contemporaneo che non ripieghi immediatamente all’interno del discorso liberale (poiché riguarda uno svincolamento della macchina statale dal controllo dei cittadini che è comune ad entrambi gli schieramenti):
“In una democrazia i cittadini godono di diritti individuali, ma l’insieme dei cittadini è dotato di un impatto politico solo dal punto di vista quantitativo (si seguono le decisioni della maggioranza). Per l’Ur-Fascismo gli individui in quanto individui non hanno diritti, e il “popolo” è concepito come una qualità, un’entità monolitica che esprime la ‘volontà comune’. Dal momento che nessuna quantità di esseri umani può possedere una volontà comune, il leader pretende di essere il loro interprete. Avendo perduto il loro potere di delega, i cittadini non agiscono, sono solo chiamati pars pro toto, a giocare il ruolo del popolo.”
Niente di diverso è successo l’11 Novembre, quando i cittadini polacchi sono stati chiamati – dallo Stato, dal governo, dalla Chiesa e da qualche gruppo dell’ultradestra – a giocare il ruolo di un popolo di patrioti. Hanno risposto in gran numero e a voce alta, così come hanno risposto, accettando di far parte di una maggioranza silenziosa, anche tutti quelli che sono stati semplicemente a guardare.
Lo scandalo non è soltanto quello, gridato ai quattro venti, di vedere marciare fianco a fianco un soldato polacco in divisa e un militante di Forza Nuova, un Cattolico e un neonazista, un capo di stato e un nazionalista criminale, ma anche quello, tacitamente accettato, per cui senza i neofascisti arrabbiati una celebrazione di questo tipo sarebbe stata normale.
Note
(1) Ex presidente del consiglio di amministrazione della Banca Nazionale e membro del partito di opposizione liberal-conservatore e Cristiano democratico Piattaforma Democratica (PO, Platforma Obywatelska).
(2) Ex membro di Solidarność ora in un partito indipendente, La Bassa Silesia Cittadina (Obywatelski Dolny Śląsk), ma sempre di area PO.
(3) “It is now legally impossible to organise a demonstration in the same location where a cyclical assembly organised by public authorities or churches is to take place. To make it clear, the amendment prohibits counter-demonstrations to periodic assemblies.” Wojciech Sadurski. “How Democracy Dies (in Poland): A Case Study of Anti-Constitutional Populist Backsliding.” University of Sydney Law School, Legal Studies Research Paper No. 18/01, Gennaio 2018.
(4) Questa definizione di cultura, proposta da Raymond Williams, è stata la pietra angolare del progetto dei cultural studies inglesi a partire dai tardi anni ‘50 e non ammette, io penso, l’idea di cultura come tradizione. Propone invece l’idea che la cultura sia fondamentalmente un campo di dialogo.
(5) Umberto Eco, Il Fascismo Eterno. Milano: La Nave di Teseo, 2017.