21 Giugno 2019
Un gruppo di migranti africani in cura presso il servizio di etnopsichiatria hanno lavorato insieme a drammaturghi, attori, registi, operatori sociali e diversi trainer di Teatro Utile
Nella grande sala prove, due attrici improvvisano una scena di teatro dell’assurdo. Non parlano la stessa lingua e si contendono un oggetto che ognuna guarda in maniera diversa. «Questo è un pacco di biscotti, vedi? Si mangiano», afferma una in inglese, mimando il gesto di portare alla bocca degli immaginari biscotti. «No, no, no», contesta l’altra in francese strappandoglielo dalle mani, «è un sapone. Sa-po-ne. Si usa quando ti fai la doccia. Tu connais douche?». Gli oggetti si susseguono, insieme alla divergenza di interpretazioni. La scena, già esilarante, diventa via via più straniante, risvegliando nello spettatore una sensazione universale di incomunicabilità.
Le due donne si chiamano Djeneba e Joyce e vengono rispettivamente dalla Costa d’Avorio e dalla Nigeria. Prendono parte a Teatro Utile 2019, progetto dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano ideato dalla regista Tiziana Bergamaschi che quest’anno ha come titolo I am-Je suis-Io sono ed è stato realizzato in collaborazione con Lorenzo Mosca, psichiatra del servizio di etnopsichiatria del Dipartimento Salute Mentale dell’Ospedale Niguarda di Milano.
A partire da gennaio, infatti, 15 migranti – tutti africani – in cura presso il servizio di etnopsichiatria hanno lavorato insieme a 6 drammaturghi, 4 attori, 2 registi, 2 operatori sociali e diversi trainer di Teatro Utile all’ideazione di uno spettacolo che sarà presentato al Teatro Franco Parenti il 26 giugno.
Un progetto profondamente collettivo dove il gruppo ha lavorato sempre insieme: dalla scrittura alla messa in scena.
Un impegno intenso durato sei mesi, fortemente voluto da Tiziana Bergamaschi: «Io non faccio psicodramma, né teatro-terapia, né teatro sociale: per me il teatro è sempre sociale, non mi pongo il problema di definirlo tale. Ho lavorato con i pazienti del servizio di etnopsichiatria come con chiunque altro: non ho voluto sapere sin dall’inizio quali problemi e traumi avessero subìto, per evitare di sviluppare uno sguardo pietistico, un atteggiamento finto protettivo. Ne sono stata informata solo in un secondo momento, per far fronte a eventuali difficoltà specifiche che avremmo potuto incontrare».
Per capire fino in fondo la valenza di questo lavoro è necessario fare una piccola digressione per comprendere meglio cos’è l’etnopsichiatria e quali le patologie di cui si occupa.
«Possiamo parlare di due grandi categorie: i disturbi post-traumatici e quelli causati da un forte spaesamento culturale», spiega lo psichiatra Lorenzo Mosca. «I migranti che nel loro Paese, o in Libia, sono stati sottoposti a torture sviluppano quelli che si chiamano disturbi post-traumatici complessi, tipici di chi ha subito un “trauma estremo”, cioè esperienze traumatiche interpersonali, intenzionali e continuative in una condizione di privazione della libertà. Tali esperienze sono talmente pervasive da rimettere in discussione le certezze acquisite nella fase di sviluppo, come la capacità di relazionarsi con gli altri sulla base di fiducia e rispetto reciproco.
Le conseguenze sul piano psichico possono riguardare una perdita della capacità di regolare le proprie emozioni, nel senso di un congelamento emotivo o, al contrario, di una iperattivazione. Ma anche l’attivazione di processi dissociativi: laddove l’esperienza vissuta è talmente intensa da rischiare di provocare un senso di annientamento psichico, la mente la esclude dalla coscienza. Il trauma, però, rimane sottotraccia e porta a sviluppare stati patologici».
Una seconda categoria di disturbi psichiatrici di cui possono soffrire i migranti è legata all’incontro con una cultura diversa. «Ogni persona, soprattutto in società più collettive della nostra, sviluppa e rafforza l’identità grazie al proprio ruolo sociale. La relazione con le persone del villaggio, con il capo, con le famiglie, colloca sul piano esistenziale e fornisce un indirizzo rispetto a come rapportarsi con il mondo.
Se ci si ritrova in una società di cui non si riconoscono i codici si può vivere uno spaesamento enorme, un’incapacità totale di radicarsi nel nuovo sistema sociale, al punto da trovarsi in una sorta di vuoto esistenziale.
L’impossibilità di tollerare una tale condizione di annichilimento psichico può condurre allo sviluppo di scompensi psicotici e alla comparsa di stati deliranti: megalomànici, mistici, paranoidi. Ad esempio, la persona può sostenere di parlare con Dio e di avere una missione da portare a termine per suo conto, creandosi così una identità onnipotente. Si tratta di pazienti che potrebbero essere classificati come schizofrenici, ma in realtà reagiscono a una situazione di “scacco” identitario e esistenziale».
Assistendo alle prove di teatro si fa davvero fatica a credere che questi uomini e queste donne che improvvisano, danzano, si travestono, usano il corpo e la voce, abbiano vissuto traumi così grandi. «Eppure è così. Ci sono persone che hanno subìto una delle forme più gravi di tortura, quella che implica la manipolazione della psiche e dell’identità.
Significa, per esempio, che vieni messo nella condizione di dover compiere atti che entrano in contraddizione con il tuo credo e i tuoi valori, come esercitare violenza sessuale su qualcuno.
Essendo minacciato di morte, non sei formalmente colpevole di ciò che fai: ma la tua memoria conserva l’immagine di te che eserciti violenza e questa inquina e altera il tuo senso identità», risponde Mosca.
In altri casi la violenza sessuale è subìta sulla propria pelle. «Siamo abituati a pensare che ne siano vittime solo le donne, ma non è così. E il dramma, quando a essere violentato è un uomo, è che di fronte a un’identità maschile minata, il senso di vergogna è così grande che il paziente non riesce a parlarne», chiarisce lo psichiatra. «La ferita resta nascosta e logora lentamente. Perché l’idea fissa di essere una persona “sporca” porta ad auto-sabotarsi rispetto a qualunque prospettiva di vita».
E non c’è solo la tortura. Nel lungo percorso che, da un Paese africano porta fino a un centro di accoglienza milanese, le difficoltà emotive con le quali ci si deve confrontare sono talmente tante che le personalità più fragili possono non essere in grado di reggerle.
«Quando ti affidi ai trafficanti di esseri umani vieni sottoposto a forme pesanti di deumanizzazione e passivizzazione: non hai più la possibilità di decidere per te stesso», spiega Mosca. «E questo continua con l’arrivo in Italia, dove vieni spostato da un centro di accoglienza all’altro, mandato a scuola, preparato per la commissione, formato professionalmente: se non riesci ad appropriarti del percorso esistenziale che ti viene proposto, puoi perdere il contatto con te stesso, con la tua identità e i tuoi desideri. Non hai più la possibilità di essere guardato per quello che sei davvero, perché fai solo ciò che ti dicono gli altri».
C’è anche un altro aspetto del sistema di accoglienza che può risultare molto faticoso dal punto di vista psicologico:
«Dal momento in cui arriva in Italia, a un migrante viene chiesto continuamente di esporre la propria storia personale: agli psicologi, agli assistenti sociali, agli operatori, ai giornalisti, alla commissione territoriale. È come se perdesse il diritto all’intimità e alla riservatezza.
E questa, che io considero una grande violenza, può portare in alcuni soggetti a stati mentali non sostenibili», conclude Mosca.
Date le premesse, risulta ancora più interessante capire le modalità attraverso le quali il progetto Teatro Utile è stato costruito: delicatezza, rispetto e gradualità sono state – evidentemente – parole chiave sin dall’inizio.
«Ci siamo presi un lungo tempo per creare il gruppo, attraverso un training che ha implicato l’uso del corpo e della voce», conferma Tiziana Bergamaschi. «Lavorando con persone che, in molti casi, vivono una scissione tra sé e il proprio corpo, negato come conseguenza delle violenze subìte e usato solo come strumento di somatizzazione – attraverso dolori, rigidità, incapacità di respirare – non è stato semplice.
Ma il teatro offre una possibilità in più rispetto alla realtà: la finzione. Sei in uno spazio “altro” dove puoi fare cose che nella vita non fai: e tutti sono in grado di comprendere questo scarto tra realtà e finzione.
Così attraverso il gioco abbiamo ricostruito, con estrema delicatezza e leggerezza, il rapporto con il corpo, il proprio e quello degli altri. E anche con il respiro e con la voce, che esprimono un’emotività spesso negata».
È stato dopo i primi due mesi che Tiziana e gli altri trainer di Teatro Utile (tra cui Mateo Çili e Olivier Elouti) hanno condotto il gruppo a mettersi alla prova con delle improvvisazioni. «Poter esplorare la propria creatività, essere riconosciuti e apprezzati per qualcosa che si crea costituisce una risorsa molto significativa per persone che hanno alle spalle esperienze molto difficili e vivono tuttora in una grande precarietà esistenziale e solitudine», spiega Tiziana.
A partire dalle improvvisazioni, settimana dopo settimana, i drammaturghi, sotto la guida di Marco Di Stefano, hanno scritto dei testi che sono stati poi riproposti al gruppo e rielaborati con loro.
Tiziana e Lorenzo raccontano con incredulità i cambiamenti che hanno visto accadere nei partecipanti in questi mesi. «Guardandoli adesso, fatico a riconoscere le persone che sono arrivate a gennaio», racconta Tiziana. «Per esempio quando D. è venuto la prima volta è rimasto tutto il tempo seduto su una sedia, tremando. Letteralmente. Poi mi ha detto: “Non ce la faccio”. E se n’è andato. Non l’ho visto per quasi due mesi, finché lo hanno convinto a tornare. Non posso dire che sia stata un’esperienza sempre facile: ci sono state defezioni, crisi collettive e individuali. Ma oggi il laboratorio di teatro è diventato una famiglia, per queste persone. Tra di loro si sono creati rapporti forti di amicizia e solidarietà.
Molti mi raccontano di aver ricominciato a dormire, perché durante le prove si distraggono e non pensano. Perché è questa la loro vera malattia: pensare continuamente a ciò che hanno vissuto», conclude Tiziana.
L’effetto in qualche modo terapeutico dell’esperienza appare chiarissimo dalle parole dei migranti/attori.
«Avevo molta difficoltà nel rapportarmi agli altri, prima. Ma qualcosa, poco a poco, ha iniziato a cambiare. Quando ci troviamo tutti insieme alle prove c’est la joie totale: ci prendiamo in giro, ci facciamo gli scherzi, ci incoraggiamo», racconta Moussa, che viene dal Mali ed è in Italia da 5 anni. «Al contrario, con i miei amici di sempre, che sento attraverso Whatsapp, non riesco a essere me stesso: so che se raccontassi davvero come vivo in Italia non capirebbero. Non solo non saprebbero incoraggiarmi, ma potrebbero anche ferirmi. Allora preferiscono non dire niente».
Djeneba è arrivata due anni fa dalla Costa d’Avorio. «Non avevo mai fatto teatro e non è stato facile, ma la pazienza e la considerazione di Tiziana e degli altri dello staff ci hanno incoraggiato ad andare avanti. Parlo di considerazione perché non capita spesso che dei migranti possano lavorare con degli italiani, con il razzismo che c’è in giro…
Ora ho capito che possono esistere persone che provano affetto per te anche se non ti conoscono: invece ci sono Paesi africani dove il rispetto, per i neri come me, non esiste.
La maggior parte degli africani non ha rispetto: ognuno vive la sua vita. Qui invece puoi esprimerti, dialogare, gli italiani ti comprendono. Mi ha molto sorpreso vedere dei bianchi aiutarmi a esprimermi liberamente. Se in Africa esistessero delle situazioni come queste, se potessimo tirar fuori i nostri talenti, sono sicura che sarebbe un bene. La parte del lavoro teatrale che mi è piaciuta di più sono le improvvisazioni. Quando vieni apprezzato per qualcosa che crei tu, ti senti più forte nella testa per avanzare nella vita, dovunque andrai, qualunque lavoro farai.
Da noi in Africa si dice che quando pensi troppo il sangue va tutto al cervello e puoi morire. Diventi pazzo. Ecco perché il teatro è come una terapia. Quando torno a casa dopo le prove mi capita di provare un senso di solitudine, ma finché sono qui, con la mia nuova famiglia, sento di avere un’opportunità che in Africa non ho avuto».
Bosco arriva dal Cameroun ed è qui da quasi tre anni. «Nel mio Paese ero un commerciante: avevo due negozi e nessun problema economico. Sono stato costretto a scappare per motivi politici. Quando sono arrivato qui e ho capito che, non avendo in tasca nemmeno un euro, ero costretto a dipendere dagli altri, mi sono sentito perso. Per un lungo periodo non ho parlato con nessuno. Passavo il tempo al parco, sempre da solo. Poi ho iniziato una terapia con il dottor Mosca e le psicologhe di Niguarda e piano piano ho iniziato ad aprirmi.
Il teatro è stato fondamentale per ricominciare ad avere rapporti con gli altri. Al momento non sono contento della mia vita perché da quando sono in Italia ho fatto tantissimo volontariato ma non ho guadagnato niente, e sono stanco di questa situazione. Però pare che presto riuscirò ad avere un contratto per un tirocinio: speriamo!».
Anche per Samba, del Mali, da 4 anni in Italia, il lavoro è il problema principale. «Da quanto sono in Europa ho lavorato solo tre mesi. Sto cercando, ma non è facile. Sono in una situazione precaria anche perché vivo in un centro che è aperto solo dalle 17 al mattino dopo: e se non hai un lavoro, durante il giorno dove vai, cosa fai? Le operatrici sono tutte gentilissime: anche quando sarò nella tomba non finirò mai di ringraziarle. Ma ho bisogno di trovare un lavoro, altrimenti la mia testa non resta tranquilla.
Ho conosciuto il dottor Mosca perché a un certo punto, tempo fa, stavo diventando pazzo. Pochi giorni prima di firmare un contratto di lavoro ho avuto un incidente: un’auto mi ha preso in pieno. Mi hanno operato. Ovviamente ho perso il lavoro. E la speranza. Avevo tanta rabbia dentro ed ero diventato aggressivo, sbattevo la testa contro il muro e nemmeno me ne rendevo conto… ma con i farmaci e l’aiuto di tutte le persone del Niguarda e ora del gruppo di teatro ha iniziato ad andare meglio».
Brahima vive in Italia da quasi 3 anni e viene dalla Costa d’Avorio. «Ho capito subito che il teatro mi avrebbe potuto aiutare a vincere la paura di relazionarmi con gli altri, conseguenza delle esperienze che ho vissuto e che mi hanno reso fragile. A teatro ho trovato persone simpatiche e svolgere tutte le attività con il gruppo mi rilassa. Dopo l’arrivo a Milano, per otto mesi ero molto sofferente, sia fisicamente che moralmente. Per questo sono stato mandato dal dottor Mosca, all’ospedale Niguarda.
Il primo incontro è stato difficile perché ero molto scosso: ho perso la mia famiglia e sono stato torturato, nel mio Paese e altrove. Essendo traumatizzato, preferivo vivere da solo e conservare i problemi dentro di me.
Quando ho incontrato la psicologa del Niguarda la prima volta non riuscivo nemmeno a parlarle, piangevo e basta. Poi piano piano è andata meglio. Ringrazio l’Italia per quello che ha fatto per me. Non me lo aspettavo, perché ero arrivato al punto di pensare che tutti gli esseri umani sono uguali: egoisti e cattivi. Dopo quello che ho passato non potevo immaginare di poter essere accolto e aiutato da qualcuno. Il dolore è ancora dentro di me, ma con il teatro ho l’occasione di dimenticarlo, per un po’».
Laura, dal Camerun, è in Italia da quasi 3 anni. «Prima di iniziare il teatro andavo spesso in biblioteca per leggere e praticare l’italiano. Oppure al parco a perdere tempo. Adesso lavoro. Il teatro mi occupa, mi svuota dei pensieri negativi. Penso che il titolo di questo laboratorio, I am/Je suis/Io sono sia importante. Mi ero un po’ persa, avevo smarrito il gusto della vita. Ho passato molti momenti in cui ho patito la solitudine ed ero depressa.
Ma ora se dico I am sento che sto cominciando a ritrovarmi, a ricordarmi chi sono. Voglio concentrarmi sulle cose belle della mia vita di oggi, sulle persone che ho conosciuto e che mi vogliono bene, come una collega italiana che mi invita spesso a mangiare a casa sua… Ho lasciato tre figli al mio Paese e questa è una delle cose a cui non vorrei pensare, perché mi sento subito triste.
Però il lavoro con il teatro mi sta aiutando a vedere le cose da un altro punto di vista: non negare la realtà, perché il passato non lo puoi seppellire, ma concentrarmi sul ritrovare me stessa per affrontare il passato.
La mia priorità è integrarmi in Italia. Voglio fare parte di questa società. E per farlo devo cercare di dare il meglio di me. L’integrazione non si fa solo in un giorno, ma piano piano: e forse un giorno potrò far venire qui i miei bambini».
Per persone che hanno affrontato l’esperienza traumatica di vedersi negare la propria umanità, riaffermare il proprio diritto a esistere davanti a un pubblico sarà un grande momento. «Ecco perché ciò che porteremo in scena non sarà uno spettacolo drammatico, ma comico, giocoso, surreale. In questo modo ognuno degli attori avrà una grande possibilità: essere altro rispetto al proprio dolore», conclude Tiziana.
Lo spettacolo si intitola Io ero Io e andrà in scena al teatro Franco Parenti di Milano il 26 giugno.