20 Gennaio 2020
La norma che all’inizio aveva provocato le proteste della minoranza musulmana unisce adesso tutta l’opposizione a Modi
Da oltre un mese, il governo nazionalista di Narendra Modi, è stato investito da un’ondata di proteste senza precedenti che ha unito, dal nord al sud dell’India, milioni di persone.
Le manifestazioni contro la nuova legge sulla cittadinanza – considerata discriminatoria nei confronti della minoranza musulmana – sono dilagate dalle università alle strade di tutto il Paese: la protesta, inizialmente circoscritta agli studenti e alla comunità musulmana, ha coinvolto via via persone di tutte le età, classi sociali e fedi religiose. Un movimento spontaneo che ha preso i contorni di una battaglia dal basso per preservare le basi secolari di un’India schiacciata da anni di politiche sempre più settarie.
La deriva maggioritaria del governo guidato dal Bahratiya Janata Party (Bjp) – riconfermato alle scorse politiche del maggio 2019 con una notevole maggioranza – è stata evidente fin dai primi mesi del secondo mandato Modi: l’annessione e l’assedio militare del Kashmir in agosto, la sentenza legata al caso di Ayodhya e all’estremismo hindu a novembre, fino alla legge sulla cittadinanza il mese scorso.
I passi che hanno portato alla progressiva marginalizzazione della comunità musulmana (e delle minoranze più in generale) sono stati un crescendo negli ultimi anni, che lascia ormai pochi dubbi sul progetto sociale del Bjp.
L’11 dicembre scorso, il parlamento Indiano ha ratificato un controverso emendamento, il Citizenship Amendment Act (Caa). La legge permette alle minoranze provenienti da Bangladesh, Afghanistan e Pakistan di fede hindu, sikh, cristiana, buddista, jainista e farsi, che risiedono in territorio indiano da più di 6 anni, di poter accedere alle procedure per richiedere la cittadinanza indiana. Escludendo apertamente la minoranza musulmana, la legge è stata criticata per essere contraria ai principi base della Costituzione che vietano la discriminazione su base religiosa.
Il Caa va letto insieme ad altri due disegni di legge. Il National Population Register (Npr), un registro che include i nomi di tutti i residenti in India, e il National Register of Citizens (Nrc), che include tutti quelli “regolari”.
L’idea è quella di estendere a tutta l’India l’esperimento del Nrc, testato nello stato nord-orientale di Assam, dove ha portato all’esclusione di circa due milioni di persone: una sorta di censimento di massa della popolazione volto a identificare gli “immigrati irregolari” per cui ogni cittadino è chiamato a provare la propria “indianità” dimostrando, con valida documentazione, di essere arrivato in India prima delle date stabilite dalla legge. Chi sarà escluso dal registro, grazie al Caa, potrà comunque applicare per la cittadinanza, ma solo se di fede non-musulmana.
La protesta contro il Caa ha preso diverse forme, intensità e stili: lunghe marce, sit-in permanenti, fiaccolate, balli, installazioni e il tricolore onnipresente hanno riempito le strade di un paese che fino a un mese fa sembrava spaccato da fratture insanabili. Divisioni che seguono linee religiose, di casta e geografiche.
In piazza a manifestare sono scesi tutti: studenti, musulmani, dalit, comunisti, in una protesta traversale, dal basso che ha unito le minoranze e le forze progressiste di tutto il Paese. In assenza di un’opposizione articolata, i campus e le strade sono diventati l’espressione più significativa del dissenso e dell’opposizione alle politiche sempre più settarie del governo guidato dal Bjp.
I manifestanti non si sono lasciati intimorire da detenzioni, arresti, torture, bastonate, lacrimogeni (e anche proiettili) da parte delle forze dell’ordine, che hanno avuto in molti casi carta bianca nel sedare le proteste.
Nella repressione di questo mese sono state uccise 25 persone, migliaia sono invece gli arresti e i feriti in un crescendo di brutalità per mano della polizia e, in alcuni casi, delle organizzazioni legate all’ultra-destra hindu.
Le immagini delle proteste che sono esplose a catena in tutto il Paese in questo ultimo mese, acquisendo una dimensione di massa, con manifestazioni fiume sorte in maniera spontanea, raccontano di una popolazione che resiste di fronte a una visione dell’India monolitica, come quella voluta dal Bjp e dall’estrema destra hindu.
La repressione da parte della polizia, impegnata a sedare proteste in larga parte pacifiche, ha interessato inizialmente due università islamiche, la Jamia Millia Islamia di Delhi e l’Aligarh Muslim University in Uttar Pradesh dove le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nei campus malmenando gli studenti.
Proprio in Uttar Pradesh, il più grande stato indiano – governato da un monaco hindu – a fine dicembre la repressione ha assunto i connotati di una punizione collettiva in cui il target principale era la comunità musulmana.
La repressione verso il dissenso si è estesa a tutto il paese, e mentre le proteste contro la nuova legge si moltiplicano, sono stati creati una serie di crowdfunding per aiutare a sostenere il movimento e fornire assistenza legale e risarcimento alle famiglie delle vittime.
La reazione delle forze dell’ordine agli scontri e alle proteste non è stata sempre uguale e sembra piuttosto seguire un chiaro pattern politico. Come quando, a metà gennaio, 50 persone appartenenti ai collettivi studenteschi legati alla destra hindu hanno fatto irruzione nel campus della più prestigiosa università della capitale, Jawaharlal Nehru Univesity, Jnu, picchiando a sangue gli studenti da mesi in protesta contro l’aumento delle tasse, mentre la polizia schierata fuori ai cancelli, non ha mosso un dito.
Per via delle proteste che da un mese si susseguono in zone diverse della città, a Delhi è stato imposto per i prossimi tre messi il National Security Act, un provvedimento che consente alla polizia di arrestare qualsiasi individuo ritenuto una minaccia per sicurezza nazionale, fino a 12 mesi, anche senza accuse.
A Shaheen Bagh, un quartiere della capitale, un sit-in contro Caa va avanti da oltre un mese chiedendo la revoca della legge. Lo zoccolo duro della protesta – che prosegue giorno e notte, nonostante il freddo pungente dell’inverno deliota – sono le donne: musulmane e non, di tutte le età e le classi sociali.
Le “nonne e le donne” di Shaheen Bagh hanno ispirato altre donne a scendere in strada, rendendo la partecipazione femminile a queste proteste davvero senza precedenti.
I cartelli, i murales e gli striscioni de quartiere meridionale di Delhi stanno facendo il giro del web per la fantasia, l’ironia e lo spirito secolare ed egualitario che incarnano. Gli slogan e le canzoni che risuonano in tutte le strade e le piazze uniscono un’India che non era mai stata così compatta: dall’inno del separatismo kashmiri – Azadi! (libertà in urdu) – fino a Hum Dekhenge, poesia di resistenza della tradizione pakistana.
Hum dekhenge, la popolare poesia in lingua urdu dell’intellettuale marxista e poeta pakistano, Faiz Ahmad Faiz, interpretata dalla cantante Iqbal Bano – considerata offensiva dalla destra hindu e già intonata durante passate proteste studentesche – è diventata onnipresente alle manifestazioni di questo mese.
Scritta nel periodo della dittatura di Muhammad Zia-ul Haq in Pakistan, dove era stata bandita, è una poesia potente, che parla di tirannia e resistenza, e divenne un inno universale di ribellione dopo essere stata cantata da Iqbal Bano in un famoso concerto a Lahore nel 1986, a due anni dalla morte di Faiz.
“Faiz fa parte di un patrimonio collettivo, un passato condiviso”, ha detto un manifestante. Faiz, nato in Punjab, all’epoca India britannica, scrisse questa poesia nel 1979 come atto di resistenza verso il regime autocratico di Zia. Le registrazioni dal vivo della performance della Bano a Lahore, che oggi risuona nelle strade indiane, si dice furono trafugate e disseminate in tutto il subcontinente. Con la sua voce e la sua interpretazione a quei versi, Iqbal Bano ha reso immortale il rivoluzionario nazm di Faiz: un inno di resistenza, nei tempi bui della tirannia.