Israele: cronache dalla vita post vaccino

di

14 Aprile 2021

Oltre il 60% della popolazione vaccinata a inizio aprile, mentre per i palestinesi solo l’1%

Mai come durante questa pandemia abbiamo sentito di vivere in un mondo interconnesso. Dall’Argentina alla Cina, dall’Italia al Sud Africa, l’anno scorso abbiamo vissuto esperienze molto simili: i lockdown, le limitazioni negli spostamenti, l’obbligo delle mascherine.

Per questo una conversazione con un residente in Israele, a chilometri di distanza, suona tanto familiare. Fiammetta vorrebbe tanto tornare al cinema. Jonathan ha appena litigato in ascensore con una persona che teneva la mascherina sotto il naso. Yoseph, 65 anni e una carriera nella sceneggiatura cinematografica, per problemi di salute ha passato l’anno barricato in casa. Jonathan Hay si è appena laureato ed entra in un mondo del lavoro in piena crisi. Vivono tra Tel Aviv e Gerusalemme, ma sembra di sentire dei vicini di casa.

La grande differenza è che mentre in Europa siamo sotto al 10% di popolazione vaccinata, in Israele la percentuale è una delle più alte al mondo e supera il 60%.

Ed è per questo che nell’eccezionalità della pandemia guardare a questo piccolo paese del Medio Oriente ci può offrire una finestra sul futuro che presto tutti ci ritroveremo ad affrontare.

Torneremo alla tanto decantata “nuova normalità”? Come gestiremo i no vax? E che impatto avrà tutto questo sui sistemi sanitari del futuro?

Perché sono arrivati così tanti vaccini in Israele? 

Yoseph condivide un link, viene dalla pagina Facebook di Netanyahu, é uno stralcio di un’intervista al responsabile di Pfizer. “Sono rimasto colpito dalla determinazione del primo ministro” dice. “Mi chiamava alle 2/3 di notte per farmi domande”.

Probabilmente anche in vista delle elezioni del 23 marzo scorso, il primo ministro Benjamin Netanyau ha speso tutti gli sforzi possibili per vaccinare i cittadini israeliani. Innanzitutto ha pagato i vaccini il doppio del loro valore di mercato, ma non è stato solo questo ad avere un peso decisivo nell’accordo con la casa farmaceutica Pfizer. Israele infatti ha una struttura sanitaria molto particolare e altamente informatizzata che gli permette di condividere e aggiornare in tempo reale le cartelle cliniche di tutti i cittadini.

Il sistema è un ibrido tra pubblico e privato. I prezzi sono calmierati e una copertura medica di base è garantita a tutti, di fatto però la sanità è gestita da quattro assicurazioni mediche private e ogni cittadino può scegliere a quale aderire. Per garantire la competitività tra le assicurazioni tutti i dati degli assistiti non sono in mano alle compagnie private, ma allo stato.

Il governo israeliano ha quindi il controllo delle cartelle cliniche di tutti i cittadini in formato digitale e aggiornate in tempo reale. Grazie a questo sistema il governo israeliano ha potuto offrire a Pfizer una condivisione dei dati clinici che probabilmente altri paesi non avrebbero potuto garantire. Come mi ha fatto notare Jonathan, Israele è anche un case study perfetto, in grado di offrire una situazione quasi da laboratorio: è relativamente piccolo ma anche estremamente multietnico, perché negli anni ha accolto emigrati di origine ebraica da tutto il mondo.

In Unione Europea qualcosa del genere non sarebbe stato possibile: sia per la frammentarietà nella gestione della sanità sia per la scarsa informatizzazione delle cartelle cliniche nei paesi europei. Digitalizzare e gestire in modo centralizzato alcune informazioni sarebbe decisivo anche per la politica interna: minimizzerebbe ad esempio il rischio di fornire dati errati su contagi e decessi e permetterebbe di prendere decisioni politiche in modo più veloce ed efficace.

Una prima lezione da ricavare allora forse è questa: l’analisi e il controllo dei dati saranno fondamentali per la sanità post covid.

La normalità del futuro: come si vive dopo il vaccino?

Jonathan ha compiuto sessant’anni a dicembre e due giorni dopo il suo compleanno ha ricevuto un messaggio che lo invitava a vaccinarsi nel centro più vicino. Come punti di somministrazione sono state utilizzate palestre e perfino ristoranti, per garantire che fossero distribuiti in modo capillare e facili da raggiungere per tutti.

Ha preso appuntamento online, si è presentato e in qualche decina di minuti si è vaccinato. Niente cartelle cliniche cartacee, tutto digitale: uno schermo di computer indica con un “GO” che il paziente non ha patologie particolari ed è idoneo alle vaccinazioni.

Anche Jonathan Hay che ha solo 23 anni ha già fatto entrambe le dosi di vaccino. A una decina di giorni dalla seconda dose gli è stata rilasciata la carta verde, che non è un foglio colorato, ma un documento digitale con un QR code che è possibile scansionare. Il verde si riferisce ai colori del semaforo: è un lascia passare per tornare al ristorante e nei negozi.

Jonhatan Hay utilizza anche Ramzor (in ebraico “semaforo”), un’app del ministero della salute che conserva la carta verde e mostra a seconda della localizzazione quali solo le attività permesse.

I ristoranti e i bar nel frattempo hanno riaperto per tutti, ma in modo diverso: chi non è vaccinato è costretto a sedersi all’aperto, mentre le sale interne sono riservate solo a chi può esibire la carta verde. Resta l’obbligo delle mascherine sui mezzi pubblici e i posti all’interno di palestre e cinema sono contingentati.

Hanno fatto il giro del mondo le immagini delle folle in festa per la santa Pasqua a Gerusalemme, ma il clima da emergenza sanitaria è ancora nell’aria. Le restrizioni si sono rilassate ma non sono affatto scomparse del tutto. “È probabile che per il futuro molte attività si sposteranno all’aperto, oppure online” spiega Fiammetta “perfino io che sono vaccinata preferisco comunque a fare lezione su zoom, oppure fare yoga all’aria aperta”.

Per il momento il futuro è ancora nebuloso: non sappiamo ancora con sicurezza quale sarà l’efficacia dei vaccini né con che frequenza sarà necessario fare dei richiami. Anche se torneremo a mangiare fuori, organizzare grandi feste ed abbracciare gli amici, è probabile che la pandemia lascerà un segno indelebile nel modo in cui viviamo gli spazi e il contatto fisico con le altre persone.

 

NO VAX: cosa succederà a chi non si vaccina? 

Il vaccino non è obbligatorio, è sempre una scelta. E continuare a garantire che questa scelta sia possibile apre molti interrogativi sulla gestione dei non vaccinati sul lungo termine.

Si parla non solo dei no VAX, cioè di chi per sua scelta decide di non vaccinarsi, ma anche di chi non può farlo per ragioni mediche. C’è anche la questione dei bambini e dei ragazzi: al momento non ci sono studi sui minori di 16 anni, che per questa ragione non vengono vaccinati. Fiammetta racconta che nonostante lei e il marito abbiano già ricevuto le due dosi di Pfizer, non possono viaggiare perché hanno un figlio di 5 anni non vaccinato. Se andassero a trovare le famiglie in Italia anche per pochi giorni sarebbero costretti a sottoporsi tutti a quarantena.

Il problema è particolarmente impellente in Israele, considerando che è un paese dove in media ci sono 3 figli per famiglia (tra gli ortodossi si arriva anche alla decina). Ma riguarda anche l’Europa, perché sarà un tema da considerare nella decisione di come e quando riaprire le scuole.

Per quanto riguarda la gestione degli spazi pubblici, la linea del governo israeliano fino a questo momento è stata di permettere le attività al chiuso solo a chi è vaccinato. Chi non lo è resta all’aperto, che si tratti di bere una birra al bar o di fare attività sportiva. Yoseph lo spiega con un esempio legato alle sigarette: fumare è un vizio che può fare male agli altri e per questa ragione è stato vietato nelle sale chiuse o negli spazi pubblici. Così funziona anche per chi si rifiuta di vaccinarsi: una scelta possibile, ma che deve comportare necessariamente delle rinunce, perché lede la salute altrui. La soluzione di spostare tutto all’aperto però non può essere definitiva, sia perché legata al clima sia perché purtroppo alcune attività hanno bisogno di spazi chiusi.

C’è per esempio il grande problema dei lavoratori dipendenti che sono a contatto con il pubblico. Jonathan riflette sul caso degli istruttori delle palestre: da un lato i datori di lavoro non possono licenziarli solo perché non sono vaccinati, ma dall’altro come possono farli rientrare fisicamente? E’ difficile immaginare che un istruttore continui per sempre a fare lezione online o che tutti i suoi corsi si svolgano all’aperto, tutto l’anno e con qualsiasi clima.

L’unico modo per i non vaccinati di ottenere la carta verde al momento è contrarre il COVID-19. Si tratta comunque di un rilascio temporaneo, valido solo per i pochi mesi dopo la guarigione in cui il rischio di riammalarsi è molto basso. Per il resto l’unica soluzione percorribile al momento sembra di separare i contagiosi, sperando nell’immunità di gregge.

Quella dei no VAX è una questione complessa, delicata, non solo medica ma anche sociologica. Tutti i paesi europei dovranno affrontarla, eppure un problema così impellente sembra completamente assente dalla discussione politica italiana. Dovremmo invece già da subito cominciare a cercare soluzioni, soprattutto se vogliamo permettere alle attività commerciali di riaprire in sicurezza e più in fretta possibile.

La diplomazia dei vaccini: come influirà sugli equilibri politici? 

Il 23 marzo in Israele si è votato per eleggere un nuovo parlamento: è stata la quarta volta nell’arco di 2 anni. Benjamin Netanyahu, il primo ministro uscente, è il candidato che ha ottenuto più voti ma è di nuovo molto lontano dalla maggioranza assoluta: ha ricevuto il 24,2% delle preferenze, per un totale di 30 seggi su 120. Questo significa che per governare sarà di costretto a costruire fragili maggioranze con altri partiti.

Nonostante gli obiettivi risultati ottenuti con la campagna vaccinale il voto di quest’anno rispetto a quello di marzo 2020 lo ha visto addirittura in leggero calo (24,2% delle preferenze contro il precedente 29,5%). Segno che non è bastata nemmeno l’ottima organizzazione della campagna vaccinale ad invertire il calo dei consensi.

I primi veri risultati politici del vaccino potrebbero invece vedersi in politica estera. A inizio marzo infatti Netanyahu ha dichiarato pubblicamente che le dosi in surplus di vaccino verranno consegnate “alle nazioni amiche di Israele”. E’ probabile che i vaccini contribuiranno in modo significativo a distendere i rapporti con altri stati confinanti a maggioranza araba.

C’è nell’aria anche l’ipotesi che Israele sviluppi una propria produzione. A marzo c’è stato un primo incontro preliminare tra Netanyahu e i rappresentanti di Austria e Danimarca per istituire un fondo comune per la produzione di vaccini. In questo caso il paese potrebbe diventare uno dei più importanti centri di distribuzione nella regione, cosa che avrebbe non poca rilevanza nel ridefinire gli equilibri politici.

In questo panorama Israele si sta guadagnando le critiche della comunità internazionale per la situazione nei territori occupati. In Palestina infatti a inizio aprile la percentuale di popolazione vaccinata si aggirava intorno all’1 percento, contro il 60% israeliano.  Il tutto è aggravato dall’alto numero di contagi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, territori con un sistema sanitario molto carente. A fronte soprattutto delle dichiarazioni di Netanyahu sulle “nazioni amiche” non si può fare a meno di riflettere sui meccanismi e le scelte politiche che vengono e verranno fatte nella distribuzione.

Anche nel vecchio continente è probabile che i vaccini verranno usati in futuro come merce di scambio o che comunque la priorità nelle esportazioni venga data ai paesi più filo europei. Ci aspetta un futuro in cui i vaccini diventeranno una merce di scambio estremamente potente, forse più di quanto lo siano mai state il petrolio o altre risorse naturali.

I paesi più sviluppati dal punto di vista della produzione farmaceutica hanno in questo momento tra le mani un’arma molto potente. Spesso coincidono con le nazioni più ricche del pianeta, ma non sempre (basti pensare al caso dell’India). Il modo in cui sceglieranno di condividere o distribuire i vaccini potrebbe influenzare la politica interna e le relazioni diplomatiche per decenni.

Quello che è certo è che se per un po’ è sembrato almeno alla lontana che stessimo tutti sulla stessa barca, è probabile che le cose cambino molto presto.