Nella notte tra domenica e lunedì 6 settembre scorso, sei prigionieri sono evasi dal carcere di massima sicurezza di Gilboa, nel nord di Israele.
La notizia ha fatto scalpore in quanto il carcere in questione è ritenuto uno dei più rigidi di Israele, ma anche la modalità di fuga è degna di nota in quanto i sei evasi hanno scavato un tunnel esattamente sotto il lavandino presente all’interno
delle loro celle eludendo i controlli serrati degli agenti penitenziari.
Il conflitto tra Israele e Palestina non compariva sui principali giornali occidentali almeno dal 12 maggio, quando a causa di uno dei tanti espropri dei coloni israeliani ai danni di 6 famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah (Gerusalemme est) l’escalation di violenza si era riaccesa, con i razzi di Hamas che cadendo su Tel Aviv provavano come sempre a mettere la firma sulla rabbia popolare palestinese, mentre alcuni sionisti sui gruppi telegram organizzavano i pogrom anti-palestinesi.
Nei tempi moderni in cui la notizia viaggia veloce come il vento e si consuma altrettanto rapidamente, la narrazione del
conflitto appare sempre abbozzata, contenuta; se dovessimo narrare un conflitto di tale portata dovremmo scrivere quotidianamente di Israele e Palestina, ma questo appare impossibile.
Dei sei evasi è stato subito tracciato il profilo pericoloso, tutti e sei provengono dall’area geografica di Jenin, Cisgordania. Cinque di loro appartengono alla Jihad: i fratelli Mahmoud e Mohammad Al-Arida che scontavano l’ergastolo per terrorismo, Yaqoub Qadiri anch’esso in carcere per aver pianificato atti di terrorismo contro Israele, poi c’è Eham Kamamji, arrestato per aver ucciso un giovane israeliano.
Infine Munadil Nafayat, 26enne di Yaabad, uno dei tanti prigionieri che scontava il carcere in via preventiva, già trattenuto per 5 mesi in prigione nel 2015. Ma l’attenzione principale è rivolta a Zakaria Zubeidi, l’ex capo delle Brigate dei Martiri di al Aqsa a Jenin durante la Seconda Intifada.
Zakaria è stato arrestato per aver ucciso in un attacco militare nel 2002, sei israeliani. Zubedi aveva iniziato la sua militanza dopo aver assistito all’uccisione della madre e della sorella da parte dei coloni. Sabato 11 settembre alcuni evasi sono stati catturati, tra questi anche Zubedi che si nascondeva sotto le ruote di un camion a Umm el-Ghanam, un villaggio
arabo israeliano ai piedi del monte Tabor, nel Nord del Paese.
Pratiche quotidiane dietro le sbarre
Come spesso accade, durante l’interrogatorio l’ex capo delle brigate dei Martiri è stato violentemente percosso, gli è stata rotta una gamba, insomma torturato fino a dichiarargli la morte cerebrale. Il fratello di Zubedi, Jibril al- Zubaidi ha denunciato ai medi locali le forme di tortura propugnate dei militari israeliani. Scosse di elettricità, privazione del sonno, braccia legate, posizioni scomode e infine waterboarding, la celebre pratica di tortura riportata in auge dai militari statunitensi nel 2006 durante l’allora occupazione afgana, per intenderci quella autorizzata da Bush per la famosa
lotta al terrorismo.
L’arresto in molti casi in Israele si tramuta in tortura e così l’ottavo Stato più potente al mondo si autorizza nella più becera violazione dei diritti umani, una storia che non sorprende tantomeno indigna.
Secondo i dati risalenti al 2019 di Addameer, l’ong palestinese in difesa dei diritti umani, attualmente i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane sono circa 5.500 di cui 230 bambini, e almeno una settantina di donne.
Ovviamente tra questi, 481 sono rinchiusi seguendo la prassi della “detenzione amministrativa” e privati dunque di regolare processo. Per molti palestinesi il carcere è un passaggio obbligatorio. Se scagli una pietra perché
la tua casa viene demolita, se protesti animatamente perché alle 3 di notte ti entrano in casa in cerca di oggetti contundenti, se fai politica, andare in prigione è la norma.
Durante le due Intifade il carcere appariva come una Università della politica per la quantità di detenuti combattenti, basti pensare che tra la prima e la seconda Intifada le prigioni israeliane ospitavano almeno 15.000 combattenti tutti in detenzione amministrativa.
Si insegnava a scrivere e leggere, si organizzavano azioni collettive, ci si teneva in contatto con la situazione negli altri penitenziari, si leggevano articoli di politica internazionale; ad oggi la mancanza di una leadership e di prospettive a lungo termine hanno portato allo smarrimento del popolo palestinese carcerario.
Le uniche azioni che oggi si tramandano sono gli scioperi della fame a cui Israele risponde con l’alimentazione forzata, una pratica vietata dal diritto internazionale, addirittura condannata dalla stessa AMI (associazione medica israeliana). A questo si sommano le famose pratiche di negligenza medica in cui malati oncologici o feriti vengono abbandonati al loro destino privandoli di cure mediche.
Questo trattamento riguarda tutti, nessuno escluso, così anche i minori sono soggetti a quello che Save The Children in
un suo report ha definito: una sistematica persecuzione.
“Questi minori sono gli unici al mondo che vengono sistematicamente perseguiti attraverso un sistema giudiziario
militare invece che civile. L’accusa più comune è il lancio di pietre, per il quale la pena massima è 20 anni di carcere. Dopo il loro arresto, i minori vengono trasferiti in centri dove vengono interrogati. Riportano di essere stati costretti a giacere a faccia in giù sul pavimento di veicoli militari, di non aver potuto usare il bagno, di essere stati privati di cibo e acqua e aggrediti fisicamente.”
Ed ecco che al popolo palestinese, soprattutto quella fetta di popolazione rinchiusa dietro le sbarre non resta che una parola: sumud. Intraducibile in italiano, sumud racchiude i concetti di resilienza, fermezza e perseveranza, sumud così rappresenta le migliaia di forme di resistenza dei palestinesi con l’obbiettivo finale di mantenere la loro presenza fisica sul territorio.
Sumud descrive la storia di tutti i giorni, le difficoltà di vivere in un territorio occupato, la gioia di accompagnare i figli a scuola, la soddisfazione di piantare un albero d’ulivo… la fermezza di resistere alle torture in carcere.
“Sorridere, ballare, fare l’amore, proteggere le nostre pietre. Questa è
resistenza. Aspettare in piedi per quattro ore per attraversare un checkpoint
e poi passare. Questa è resistenza. Noi siamo ancora qui.”
Nassar Ibrahim, attivista, analista e giornalista