Kler: grazie a Dio per le mele marce!

di

17 Ottobre 2018

Il controverso film di Wojciech Smarzowski condanna le violenze e la corruzione del clero Polacco ma non tocca il ruolo ideologico della Chiesa

Kler (Clero, diretto da Wojciech Smarzowski, Polonia 2018) è un film anticlericale in un paese clericale e questo va apprezzato.

Moltissimi polacchi sono andati a vedere il film – quasi un milione di spettatori durante il week end di apertura due settimane fa (1) – e molti l’hanno fatto anche come atto di protesta.

Una manifestazione è stata organizzata la settimana scorsa a Varsavia dall’associazione Nie lękajcie się (Non abbiate paura!) che raccoglie le vittime di pedofilia ecclesiastica in Polonia (259 casi riconosciuti e 35 presunti, con 63 preti condannati) (2), anche sulla scia della conferma in Corte d’Appello di una condanna della Chiesa Cattolica ad un risarcimento di 230.000 euro per un caso di violenza su una minorenne risalente a dieci anni fa.

La giustizia si muove lentamente ed è spesso soffocata dall’omertà e dall’influenza della curia polacca, per cui un film che ne denuncia i soprusi inevitabilmente si trasforma anche in una denuncia dell’ingerenza della Chiesa nella politica e nella cultura polacche.

Kler è abbastanza aggressivo da urtare chi non può ammettere una rappresentazione negativa del clero. Sia il partito al governo che le autorità ecclesiastiche si sono espressi duramente contro il film, accusandolo di calunnia, proponendo boicottaggi e minacciando di ritirarlo dalle sale, ma per il momento il flusso di spettatori, benché fisiologicamente diminuito, non si arresta.

E tuttavia una critica più radicale è possibile e, io credo, necessaria: come notava un articolo (3), nelle città dove le sale si sono riempite per il film, le chiese non si sono svuotate la Domenica.

Il film si apre sul contrasto, in chiave di commedia, tra due icone dell’identità nazionale polacca, vodka e abito talare: tre amici sacerdoti si ritrovano per una notte di bevute che finirà in ubriachezza molesta e un incidente d’auto con possibile omissione di soccorso.

L’intreccio delle loro storie serve a tracciare un ritratto sintomatico della corruzione e dell’ipocrisia dei sacerdoti in Polonia.

Padre Trybus (Robert Wieckiewicz) è il parroco di una piccola chiesa di campagna: alcolista, si paga il vizio con le piccole e meno piccole estorsioni che è uso chiedere ai fedeli in cambio di un matrimonio riparatore, di un funerale, di un posto al cimitero.

Convive con una ragazza, Hanka (Joanna Kulig), e quando lei rimarrà incinta (“pensavo prendessi precauzioni…” “la mia religione non me lo permette”) Trybus dovrà scegliere tra tonaca e paternità.

Padre Kukula (Arkadiusz Jakubik), pastore di un gregge più numeroso, si apparta troppo spesso in sagrestia con i giovani chierichetti. Quando uno di loro ha un malore e viene ricoverato vengono scoperti segni di violenza sessuale ed il prete è messo sotto accusa e quasi linciato dai suoi parrocchiani.

Nascosto dalla Chiesa in una casa di riposo, Kukula confronterà il suo passato – da bambino è stato lui stesso vittima di violenza sessuale da parte di un prete – e contribuirà a fare luce sugli abusi subiti dal suo parrocchiano.

Padre Lisowski (Jacek Braciak) è il personaggio più potente e più malevolo del trio: corrotto e corruttore, frequenta il Vaticano, preti vicini all’estrema destra, affaristi malavitosi e alti prelati, tutti coinvolti in un appalto truccato per la costruzione di un grande santuario.

Tra le altre cose, quando una compagnia rivale minaccia di soffiare il contratto ai suoi protetti, che arrivano a minacciarlo di morte, Lisowski si mette a spiare l’Arcivescovo Mordowicz (Janusz Gajos), del quale a sua volta emergono i crimini, le menzogne e le perversioni.

Nella scena che precede la scioccante conclusione del film, il prete ricattatore compra il silenzio dell’amico Kukula sulle proprie responsabilità nella vicenda del ragazzo violentato ed esce di scena vincitore ed impunito.

Il film è particolarmente duro quando mostra gli effetti della violenza sessuale dei preti sulle vittime assieme all’indifferenza della Chiesa. In questo senso, si può sperare che Kler contribuisca a mettere in piedi una campagna contro l’impunità del clero e volta ad organizzare le vittime e sensibilizzare l’opinione pubblica.

Al di là di questo, una lettura più o meno positiva di Kler dipende da una presa di posizione più generale.

Se si considera che il problema principale degli stretti rapporti tra Chiesa cattolica e società polacca sia la corruzione della Chiesa, e non la Chiesa stessa, allora il film può sembrare più incisivo.

Se invece si considera che il problema siano la religione e la Chiesa in quanto tale, anche e specialmente quando quest’ultima non è ipocrita e corrotta e quando la prima è vissuta con autentico fervore, allora il film – pur restando una critica – diventa in definitiva appropriabile anche da forze clericali.

Tolta forse una sua costante reinvenzione sociale, la Chiesa non è meno pericolosa quando rispetta i suoi principi che quando li trasgredisce.

Anzi, mentre una chiesa ipocrita e corrotta si riduce ad una delle tante istituzioni del capitalismo, una chiesa “pura” crea un problema addizionale e potenzialmente più temibile.

Nel complesso in Kler i crimini e le deviazioni all’interno della Chiesa finiscono per nascondere almeno in parte il problema del potere della Chiesa in quanto istituzione ideologica.

Il discorso familista, quello contro l’aborto, la discriminazione delle donne, la violenza ordinaria dell’educazione sessuale cattolica in tutte le sue forme, il ruolo della religione nel discorso nazionalista polacco e la sua prossimità con la destra fascista, su tutto questo il film non prende posizione, riducendo così l’influenza negativa della Chiesa alle sole azioni criminali e all’immoralità del clero.

Anche rispetto alle violenze sessuali, il film propone una visione piuttosto rozza della psicologia dell’abuso e permette di dimenticare che la “buona educazione” cristiana cattolica costituisce una violenza in sé, e non solo quando questa educazione è impartita con ipocrisia.

Un esempio, al contrario, di un film che tratta la questione della pedofilia ecclesiastica e dell’abuso su minori allo stesso tempo denunciandola con forza, affrontandone coraggiosamente gli aspetti psichici più complessi e mettendone in evidenza l’intima coerenza con i principi della Chiesa è Agnus Dei di Alejandra Sanchez (Messico 2011) – un film difficile che però consiglio vivamente.

Allo stesso modo, il discorso familista caro alla Chiesa fa vittime anche quando non prende la forma paradossale, come nel film di Smarzowski, di un padre che si fa “padre di famiglia” (riuscendo in tutto questo ad interrompere l’aborto di due donne!).

Ad una critica della violenza sistematica della Chiesa cattolica Kler sostituisce troppo spesso un’accusa che pur essendo feroce è rivolta soltanto contro i suoi tralignamenti.

Da un lato, Kler non riduce la questione della corruzione e della violenza ecclesiastica interamente al livello di casi di singole mele marce: tutta la mela è marcia.

Dall’altro, niente della religione e del discorso cattolico è messo in questione – solo l’ipocrisia o il comportamento criminale di molti che lo professano. L’analisi che mette in piedi oppone il clero alla religione, e in definitiva la strada che auspica sembra essere più quella di una rigenerazione del clero che quella della laicità o, dio non voglia, dell’ateismo.

A ben vedere, l’argomento delle mele marce si rinforza via via che il film procede, a misura che padre Kukula si rivela essere sempre più una vittima, e che sia lui che Trybus reagiscono sempre più umanamente ai loro peccati e alla loro iniziale insincerità. Alla fine resta Lisowski nel ruolo di sempre più demoniaco manipolatore, sempre più unico responsabile.

La scena che conclude il film, in cui Kukula si immola durante il comizio dell’Arcivescovo Mordowicz sul sito del nuovo santuario, è alla fine meno un atto d’accusa che un atto di fede.

La sena è di forte impatto e per certi versi ricalca il finale di un altro film controverso di Smarzowski, questa volta sulle malversazioni della polizia stradale (Drogówka, Polonia 2013) in cui il protagonista, un “Bad Lieutenant” versione ex-sovietica, si trova coinvolto in un gioco più grande di lui, passa da criminale a vittima, sceglie di prendere posizione contro un avversario troppo potente e viene brutalmente assassinato.

Nel raccontare la vicenda, il problema da sistemico si fa morale e la soluzione sembra dover passare più attraverso il martirio che attraverso la critica.

Senza nulla togliere al potenziale di denuncia di Kler, né alle intenzioni di chi lo sta usando per mettere in discussione diversi aspetti dell’influenza della Chiesa sulla cultura polacca, niente vieta, a partire dal film, di condannare la Chiesa corrotta dal punto di vista di una Chiesa più integra e integralista (o che sappia presentarsi come tale).

Kler, in definitiva, è un film che pur chiaramente compromettendo l’immagine dell’istituzione ecclesiastica, non ne mette mai in questione i principi. Quello che denuncia sono precisamente infrazioni di quei principi.

Il finale del film diventa allora per me piuttosto inquietante: il volontario auto da fé di Kukula, il suo corpo iscritto in un triangolo di fedeli con sullo sfondo il palco dove predica l’arcivescovo corrotto, si presenta più come un secondo avvento della Chiesa cattolica, con rinnovate fiamme di colpa, vendetta e sacrificio, che come la sua disfatta.

(1) Marek Strzelecki, “Film About Catholic Church Pedophilia Sets Box-Office Record in Poland,” Bloomberg, 2 Ottobre 2018.
(2) Przemysław Kossakowski, “Une carte interactive pour alerter sur la pédophilie dans l’Eglise en Pologne,” Le Courrier de l’Europe Centrale, 8 Ottobre 2018.
(3) Paulina Gruzik, “Church in Poland disturbed by success of anti-clerical film,” Crux, 6 Ottobre 2018.