La Bolivia strappata

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19 Novembre 2019

La cultura indigena tra le occasioni perdute di Morales e la violenza identitaria della destra boliviana

Difficile dare definizioni di quello che sta succedendo in Bolivia in queste settimane: definire “golpe” la fuga in Messico del presidente destituito Evo Morales – invitato ad andarsene dopo la vittoria elettorale dello scorso 20 ottobre, subito tacciata di brogli dagli stati della Organización de los Estados Americanos (OEA) – o “dittatura” l’iniziativa della presidenta autoproclamata Janine Añez, che da sabato ha dato pieni poteri all’esercito, esonerandolo da conseguenze penali se dovesse usare la mano dura contro il popolo disobbediente.

Di certo, sono le ore più dure del Paese andino, dal 20 ottobre scorso nel pieno del
caos post elettorale: l’ascesa del governo ad interim dall’inquietante volto destroide e razzista ha provocato la rabbiosa reazione di parte della popolazione e dei movimenti di base vicini a Morales, che chiedono a gran voce elezioni subito e rifiutano la dialettica anti – indigenista della Presidenta.

La reazione dell’esercito non si è fatta aspettare: secondo le fonti della Commissione Interamericana per i Diritti Umani (CIDH) la brutale repressione lascia almeno 23 manifestanti uccisi e decine i feriti.

foto di ©Francesca Caprini

Per domani, martedì 19 novembre, il partito del Movimento Al Socialismo ha chiesto di fissare la nuova tornata elettorale. E il 21 di novembre è stato decretato il Paro Nacional. Lo stesso giorno della Colombia.

El Alto a La Paz, Sacaba a Cochabamba. Ma anche la marcha de las mujeres a Santa Cruz: la forza contadina, indigena e cocalera – base politica dell’ex presidente Evo Morales – scende per le strade e si mobilita in tutta la Bolivia. E la risposta della presidenta Añez non si fa attendere: all’indomani della sanguinosa repressione contro la popolazione, emette il Decreto Supremo 4078 ed autorizza
nella notte fra il 16 il 17 novembre le Fuerzas Armadas de Bolivia a realizzare qualsiasi operazione per ristabilire l’ordine sociale, senza conseguenze penali.

“Ce lo chiede il popolo”, è stato il senso dello stringato discorso che la Añez ha tenuto per giustificare la decisione, degna del peggior incubo latinoamericano del secolo scorso.

La stessa frase pronunciata quando la nuova presidenta – avvocata, ex presentatrice televisiva e militante della prima ora del partito di opposizione Movimiento Demócrata Social della capitale orientale Santa Cruz – si è fatta eleggere senza avere la maggioranza né alla Camera, né al Senato: “Me lo chiede il popolo”, aveva detto agitando una Bibbia nella sala della cerimonia per l’incarico al più alto scranno, con la postura invasata di una madre accorsa per salvare l’anima dei poveri indigeni “satanizzati dai riti indios”(così un suo tweet di qualche tempo fa), mentre le teneva la mano il candidato del suo partito alle ultime elezioni Óscar Ortiz, e di fronte all’officiante, il comandante delle Forze Armate Williams Kaliman.

I ministri ad interim in queste ore si affrettano a rispondere alle preoccupazioni internazionali, espresse anche dal Tribunale Interamericano dei Diritti Umani, affermando che l’esercito potrà agire in questo senso” solo per necessità e legittima difesa, non per uccidere”, mentre il MAS – Movimiento Al Socialismo (MAS), il partito di governo durante i 13 anni di presidenza Morales – auspica che martedì il congresso indica nuove elezioni, così come da accordi con il Governo provvisorio. Intanto, in molte città boliviane cominciano già a scarseggiare viveri ed acqua.

Evo Morales, dal suo esilio messicano punta il dito verso la OEA come “responsabile delle morti e della repressione”, e lo scacchiere internazionale – Russia in primis, ma anche il redivivo Guaidò dal Venezuela – si plasma di giorno in giorno nel riconoscere ufficialmente il nuovo governo di destra che vuole cambiare la faccia della Bolivia.

foto di ©Francesca Caprini

Ma pare che non si tenga in conto un dato storico: la Bolivia – Paese a maggioranza indigena – ha una storia di resistenza e dignità che ha più volte influenzato i destini dell’intero continente e anche più in là.

Con la Guerra dell’Acqua nel 2000 e quella del Gas nel 2003 e 2005, la lotta per l’autodeterminazione e contro il neocolonialismo dei boliviani è riuscita a piegare l’arroganza dei governi e lo strapotere delle multinazionali.

Ed anche ora che in molti descrivono la Bolivia spaccata in due – fra sostenitori ed oppositori di Morales – forse si rischia di perdere una lettura più complessa delle dinamiche sociali che la caratterizzano. In piazza ci sono studenti, cittadini, e un variegato movimento femminista: chiedono democrazia e rispetto del voto.

Sanno che in tutta l’America latina la base sociale sta giocando un ruolo fondamentale nel rispetto dei diritti e nel contrastare le istanze dei governi corrotti che vorrebbero di nuovo, squarciare le vene del Continente Desaparecido.

Dalle roccaforti di Morales – Sacaba in primis, capoluogo della regione cocalera del Chapare – parte comunque il grido alla rivolta e viene proclamata una giornata di Paro Nacional per il 21 di novembre. Lo stesso giorno che anche la Colombia scenderà in piazza per esigere la pace e giustizia per il massacro degli indigeni in Cauca e in tutto il Paese.

Sacaba ce la ricordiamo bene, quando vivevamo nella Bolivia dei primi anni duemila: capitale del Chapare, zona di transito, sempre piena di camion e pullman, fa da porta d’entrata della zona cocalera del Tropico di Cochabamba. Si spiava sempre una tensione tangibile, quando si transitava per la via principale: l’aria era dura, gli sguardi torvi dei contadini ammassati sui furgoni che andavano a lavorare nei campi di piante di coca, abituati ad anni di brutale repressione.

La Bolivia era allora un Paese pieno di speranze, un vero e proprio laboratorio politico dove una popolazione impoverita aveva finalmente avuto il coraggio di alzare la testa ed esigere l’accesso alle proprie risorse fondamentali: l’acqua, la terra, il gas.

Le organizzazioni di base provavano a costruire la propria democrazia di stampo socialista ed indigenista, ed il primo presidente indigeno della storia – il sindacalista cocalero Evo Morales – veniva eletto anche con il sostegno dei movimenti della Coordinadora del Agua e e la Vida, oltre che del partito del MAS.

Insieme ad Evo, altri presidenti izquierdistas – Lula, Chavez, Lugo, Correa – cambiavano la faccia dell’America latina irritando non poco gli Stati Uniti, abituati a trattare il continente del Sud come il patio trasero, il giardino dietro casa da cui attingere senza chiedere.

Le ferite di un Paese da sempre crocefisso da dittature e violenza, anche nella Bolivia della ricostruzione, dell’acqua “di tutti e di nessuno”, e della Nuova Costituzione di Stato, erano ovunque. E la marcata ritrosia verso chi avesse parvenze occidentali la raccontava lunga di una popolazione al 90% rappresentata da indigeni – aymara, quachua e guaranì i gruppi più numerosi – vessata da violenza e neocolonialismo, che fino a qualche anno prima veniva insultata con
ogni forma di razzismo ed apartheid.

Nel 2008 ci fu il primo tentativo di rovesciamento del neoeletto Morales: l’Oriente boliviano, latifondista ed armato, aveva tentato di invadere con un esercito di 10mila paramilitari la città di Cochabamba, roccaforte della base politica del presidente.

Furono giornate di guerra civile, con la seconda città del Paese messa a ferro e fuoco, l’esercito connivente con i gruppi armati che faceva poco o nulla per proteggere le migliaia di contadini inermi che pacificamente resistevano nelle strade, e ancora morti, ancora feriti.

La Bolivia mostrava al mondo la sua situazione: ancora una volta sembrava un Paese diviso, con gli altipiani andini e il tropico cocalero con Evo Morales e il suo vice di sempre, l’intellettuale socialista Garcia Linera; e l’Oriente boliviano con i blancos cristiani e ricchi abituati a comandare e schiavizzare gli indios. “La scimmia”, veniva definito Morales nelle vignette dei giornali di destra. “Servo di Chavez, corrotto”, insinuavano i più moderati oppositori.

L’aver giocato male le sue carte non attuando riforme integrali della società boliviana, nazionalizzando tiepidamente le imprese, accentrando su di sé il potere nel più narcisistico populismo venato a tratti di misoginia e di omofobia, non ha aiutato il presidente cocalero a mantenere una base solida, nemmeno fra gli ex compagni di viaggio della Coordinadora del Agua y La Vida, la piattaforma nata dopo la Guerra dell’Acqua, che all’indomani della vittoria popolare contro la multinazionale statunitense Bechtel che aveva privatizzato l’acqua della regione, provava a sperimentare riforme strutturali della società e della politica, attuando la partecipazione, l’orizzontalità, l’autogestione delle risorse, la costruzione di un’economia non liberista.

Morales è riuscito a bruciarsi anche la favorevole congiuntura economica e il potente risultato elettorale che nel 2009 – e poi nel 2014 – aveva eroso voti persino nella città di Santa Cruz, storicamente di destra.

Con l’ultima tirata di corda – prima il referendum popolare del 2016 per essere rieletto ben oltre i limiti costituzionali, perso e non rispettato, poi la recente elezione presidenziale dai passaggi poco chiari – Evo stesso si è imbrigliato da solo i piedi, regalando il miglior l’assist a tutti coloro che dentro e fuori il Paese hanno sempre voluto togliere di mezzo un presidente simbolo per tutta l’America latina e forse per buona parte dei movimenti di sinistra mondiali.

Proprio a Sacaba, la porta del Chapare, venerdì gli scontri più efferati: nuvole irrespirabili di gas lacrimogeni e pallottole ad altezza uomo. Così l’esercito aveva tentato di frenare la marea umana di cocaleros, giunta dalle sei federazioni del Tropico per gridare il proprio appoggio ad Evo e tentare di entrare a Cochabamba.

Al ponte Huayllani, al chilometro 10 della strada che porta verso l’Oriente boliviano – la terra dei cambas, i bianchi terratenientes che fin dal primo giorno hanno tentato la destituzione di Evo Morales – il corteo di militanti – ma anche tanti masistas e studenti – aveva provato a negoziare con la polizia, che chiedeva loro di tornarsene indietro.

Fra gli slogan la pollera se respeta (rispetto per le donne cholas , le indigene quechua) o “Mesa, Camacho el pueblo está emputado” (riferito all’ex presidente Carlos Mesa, che insieme all’ultracattolico di destra Camacho ha guidato la cacciata di Morales), i manifestanti hanno provato a raggiungere la storica piazza 14 de septiembre di Cochabamba, chiedendo la destituzione del governo Anez, a loro avviso illegittimo, autoproclamato ed frutto delle pressioni dei settori imprenditoriali stranieri e delle politiche filo statunitensi. Da lì, la reazione violenta dell’esercito, che da oggi non avrà più limite nel suo agire.

Ora sul piatto della Bolivia ci sono le pressioni che sicuramente dagli Usa in giù oliano un ingranaggio pronto a partire da chissà quanto tempo e che non disdegna di forgiare i proprio slogan mescolandosi al cattolicesimo più invasato e corrotto; c’è lo scenario in fermento dell’intera America latina, che prima col Venezuela, poi col Brasile, il Cile, l’Ecuador, dimostra un tentativo di golpe continentale, più che regionale; ma anche la capacità di lotta del suo popolo: quel corazon de
Latinoamerica che ha sempre insegnato a pulsare e resistere per i diritti degli umani e la protezione della Pachamama, e ha spesso insegnato a lottare e vincere.

E dove, non per ultimo, si fa strada un movimento femminista e indigeno che chiede di uscire dalla polarizzazione che da anni strappa la Bolivia.

foto di ©Francesca Caprini