21 Gennaio 2021
Se il capitalismo è una “sindemia”, continuerà a produrre virus e pandemie.
Questo intervento è stato pubblicato originariamente da Contexto y Actión il 4 gennaio 2021. La traduzione è di Mario Sei.
Lo scorso settembre, Richard Horton pubblicò nella famosa rivista The Lancet un articolo con un titolo dal tono provocatorio e perlomeno ambiguo: Il Covid-19 non è una pandemia. Ovviamente una delle riviste scientifiche più prestigiose al mondo non poteva diffondere dalle sue pagine l’opinione di un negazionista. Nell’articolo, Horton infatti non negava l’esistenza del virus e non intendeva nemmeno alimentare deliri da cospirazione.
Basandosi su un concetto coniato dall’epidemiologo Merrill Singer, Horton sosteneva che oggi non abbiamo a che fare con una pandemia, ma con qualcosa di ben più complesso e quindi più pericoloso: una sindemia. Il termine serve a indicare un quadro epidemico in cui la patologia del virus si combina con altre patologie, croniche o ricorrenti, associate alla diversa distribuzione della ricchezza, alla gerarchia sociale, al maggior o minor accesso ai beni fondamentali, etc. dei fattori che sono tutti attraversati da profonde distinzioni determinate dalla razza, dalla classe sociale e dal genere.
La sindemia è una pandemia in cui i fattori biologici, economici e sociali sono talmente intrecciati da rendere impossibile una soluzione parziale o specialistica e ancora meno una soluzione magica, immediata e definitiva.
Il problema, in realtà, non è il coronavirus. Il problema è un capitalismo “sindemico” in cui è impossibile distinguere tra natura e cultura e quindi tra morte naturale e morte artificiale. Il capitalismo è la sindemia. Pensiamo soltanto al recente moltiplicarsi di nuovi virus (influenza aviaria, SARS, etc.), un fenomeno inseparabile dall’industria agroalimentare e dalla pressione estrattiva esercitata sul mondo animale. In un libro rigoroso e inquietante pubblicato nel 2016, intitolato Grandi fattorie, grandi influenze (Big farms make flu), il biologo Rob Wallace descriveva già un modello dell’allevamento animale in cui tutto il processo – dal tipo di nutrizione per volatili e mammiferi alla concentrazione in gigantesche aree produttive – non solo facilita, ma rende pressoché inevitabile la generazione di nuovi ceppi virali e la loro trasmissione agli umani.
A questo si deve aggiungere che la rapidità di diffusione di un virus oggi dipende non solo dai maggiori spostamenti di cose ed esseri umani, ma anche dalla progressive distruzione di barriere naturali quali foreste e varietà genetiche. Non serve ricorrere a teorie della cospirazione, ci spiega Wallace: i nuovi virus sono stati effettivamente creati in laboratorio, ma solo nel senso che il capitalismo ha trasformato la natura stessa in un laboratorio vivo, dove la permanente ebollizione patologica è divenuta incontrollabile persino per i suoi amministratori e beneficiari.
Il termine “iatrogenesi” si usa per riferirsi ai morti provocati, senza dolo o seconde finalità, dalla stessa istituzione medica: è il caso, per esempio, delle infezioni ospedaliere, che ogni anno provocano più decessi delle comuni influenze. Se anche un ospedale, concepito come luogo di sicurezza sanitaria e soggetto a restrittive misure d’igiene, produce infezioni mortali, è facile immaginare cosa può succedere in enormi fattorie progettate per contenere decine di migliaia di animali in condizioni infernali e per accelerare la loro crescita con cocktail antibiotici.
La volontà potrebbe arrestare la macchina, ma la macchina si muove ormai al margine della nostra volontà. Wallace afferma che “trasformando la natura in una risorsa capitalista, alla fine è il capitalismo che si trasforma in natura”, al punto che “i virus nascono dai nostri stessi geni, dal nostro interno e non dai vari sistemi di apartheid“.
Il capitalismo ha sicuramente introdotto nella natura le proprie leggi mortifere, ma l’apartheid, al di là di ciò che afferma Wallace, continua a incidere in modo determinante nella diffusione e nelle conseguenze dell’infezione virale. E qui torna utile il termine tecnico di “sindemia” proposto da Singer e Horton. I nuovi virus, nati nei “laboratori naturali” delle grande aziende agroalimentari senza l’intervento di alcun malefico conspiratore, passano in società umane molto stratificate dove sono soprattutto le fasce più deboli – le donne, le minoranze razzializzate o le popolazioni urbane marginalizzate -, più esposte ai contatti e più fragili fisicamente, che finiscono per soccombere. E’ inoltre su queste fasce che pesano maggiormente le misure di contenimento e isolamento, aggravando le loro condizioni sociali e moltiplicando così, in un circolo vizioso, i rischi di contagio. I virus passano da animali maltrattati con una sinergia potenzialmente apocalittica.
Se dunque il capitalismo è una sindemia che trasforma le fattorie in laboratori biochimici e le città in focolai di disuguaglianza epidemica, quale può essere la soluzione per porre fine alla pandemia del Covid-19? Va osservato innanzitutto, che esiste un grande paradosso in questa dimensione “sindemica”: lo stesso sistema capitalista, che ha distrutto e continua a distruggere barriere o risorse naturali, si sostiene sull’illusione di una “sicurezza totale”. Guardandoci attorno, possiamo osservare che dal marzo del 2020, quando la OMS ha dichiarato il carattere pandemico, e cioè globale, del coronavirus, la lotta contro la sua diffusione ha preso forme diverse secondo i regimi e le tradizioni locali.
La Cina ha adottato misure basate sul controllo e la tecnologia; Inghilterra, Brasile e Stati Uniti hanno scelto una forma d’inibizione neoliberale; l’Europa ha optato per una formula mista, combinando le misure sanitarie con misure sociali che rallentavano o interrompevano il nostro modello di produzione e di consumo basato sulla mobilità.
Il dibattito si è comunque sostanzialmente centrato su un presunto conflitto tra politica e scienza. Bisogna continuare a fare politica oppure lasciare che siano medici ed epidemiologi a decidere? La pandemia mette definitivamente in crisi l’azione politica, già molto screditata in un mondo segnato da una “de-democratizzazione” globale? Non sarebbe forse meglio se a governare fossero gli scienziati?
Il fatto è che è proprio il problema del dibattito a essere un falso problema. E’ falso perché parte da un doppio presupposto sbagliato: pensa che di fronte a un fenomeno sindemico possa esserci una soluzione specialistica e crede, ingenuamente, che politica e scienza siano ancora poteri realmente determinati. In realtà, politici e scienziati sono, se non sequestrati, comunque diretti o limitati dalle stesse forze economiche. Negli ultimi quarant’anni, soprattutto dopo l’implosione dell’URSS, vari movimenti altermondisti per il rinnovo democratico hanno recuperato il concetto anticoloniale di “sovranità” per reclamare l’emancipazione della sfera pubblica – lo Stato e le sue istituzioni – dall’economia e dalle imprese; se indubbiamente non è laico uno Stato che confonde la sfera politica con quella religiosa, non lo è nemmeno, o comunque non completamente, uno Stato che confonde politica ed economia.
In quasi tutti i paesi del mondo, come conseguenza di questa mancanza di “laicismo”, tragica in epoca di crisi economica e gestione neoliberale, siamo giunti ad affrontare la pandemia in un clima di generale sfiducia nei confronti dei politici e delle istituzioni, con gli effetti che vediamo tutti. Ciò spiega perché molti cittadini, cercando una soluzione alla catastrofe sanitaria, si siano rivolti alla scienza. Ebbene, il COVID-19 ci ha rivelato che anche la scienza, al pari della politica, è minacciata da un capitalismo sindemico e dalle sue spontaneità distruttive.
Storicamente, le epidemie (dalla peste di Atene alla spagnola del 1919) hanno sempre generato reazioni di panico individuale e collettivo, un terreno assai propizio per le teorie cospirative. Per quanto risulti sconsolante, è antropologicamente normale difendersi dalla cecità e arbitrarietà biologica individuando un colpevole concreto: gli ebrei, gli stranieri, i peccatori, i preti, i cinesi, Bill Gates.
Niente ci spaventa più della contingenza, che ci rende esseri vulnerabili e intercambiabili, e qindi preferiamo concepire i destini del mondo in termini di “volontà”, anche se avversa o negativi, anziché riconoscere l’aleatorietà. Preferiamo cioè un Dio cattivo a un virus geometrico che non si può controllare e nemmeno insultare o denunciare; ci sgomenta questa astrazione cieca che non riconosce la nostra esistenza e annienta a caso le nostre vite.
Sì, è preferibile un racconto in cui il Male onnipotente abbia un’identità corporea, nominabile e visibile, anche perché l’odio è un potente ansiolitico. In una situazione incontrollabile, trasformarsi in protagonisti – anche se in quanto vittime, e quindi oggetto di una persecuzione premeditata e soggetti di un sapere superiore – produce un certo sollievo, perché giustifica la nostra impotenza e placa il nostro bisogno di autostima. Tutte questi fattori antropologici si sono facilmente – o meglio pericolosamente – combinati al contesto di una pandemia sindemica che è stata preceduta da un processo di dissoluzione dei vincoli comunitari e di discredito nei confronti dei politici e delle istituzioni.
Ciò che voglio dire è che, nel mezzo di questo dibattito tra politici e scienziati, i deliri complottisti hanno comunque il merito di segnalare in modo sbagliato la falsità di questo conflitto. Negando l’esistenza di un virus che non possono vedere, attribuendo la sua nascita a una “cattiva volontà” nascosta tra le quinte o vedendo nei vaccini una strategia d’ingegneria sociale e di controllo mondiale, le teorie della cospirazione hanno mostrato l’inconsistenza del conflitto politici vs. scienziati.
Anche se sbagliando strada, hanno infatti spostato su un altro piano l’origine e la soluzione del problema. Sbagliano perché attribuiscono al problema una tranquillizzante causa personalizzata e narrativa, quando invece si tratta di una situazione sistemica, ma a modo loro sono rivelatrici. Come dicevo, il COVID-19 fu effettivamente creato in laboratorio perché il capitalismo ha trasformato l’intera natura in laboratorio; i vaccini, d’altra parte, rappresentano senz’altro ambizioni di potere e di profitto, dato che il potere economico controlla la ricerca scientifica, in particolare quella applicata. Ci sono molti motivi per dubitare dell’origine naturale del coronavirus e altrettanti per avere dei dubbi su questi vaccini prodotti a velocità siderale, ma nessuno di questi motivi ha a che fare con la cattiveria del governo cinese o col desiderio di dominio mondiale di Bill Gates. Magari fosse così, sarebbe tutto molto più semplice e tranquillizzante.
Vogliamo credere nei politici, ma la politica è condizionata agli indici di borsa, ai tassi d’interesse e ai limiti draconiani del deficit pubblico; ci rivolgiamo verso gli scienziati, ma la scienza è soggetta alle industrie farmaceutiche. Il mercato, in effetti, è la sindemia. Pensiamo a ciò che significa “scienza”: la splendida idea di una comunità effettiva di scambio trasparente e generalizzato, dove il progresso, necessariamente lento, può unicamente essere garantito dalla collaborazione tra i suoi membri e dall’appoggio della società attraverso lo Stato.
Questa comunità esiste e continua a produrre risultati oggettivamente fondati; se non fosse così, le industrie farmaceutiche vendessero solo fumo, avrebbero già commercializzato il corno di rinoceronte, il balsamo di Fierabras o gli abracadabra della magia bianca e nera. Questa comunità esiste e non smette di lavorare, ma è stata penetrata, frammentata e riorganizzata da un mercato paradossale che ha bisogno di una scienza efficace e di scienziati convinti, ma che può funzionare solo in un clima di opacità, di competizione e di precipitazione, violando così le regole specifiche della comunità scientifica. Il mercato ha bisogno di scienza vera e nello stesso tempo ha bisogno di dissolvere le sole condizioni in cui l’umanità può produrre vera scienza: ha bisogno di una comunità scientifica universale e concreta, e ha bisogno – non solo nell’ambito della scienza – di distruggere tutti i concreti vincoli comunitari.
Se non si è capaci di vedere e affrontare questa contraddizione si finisce inevitabilmente per cedere a uno di questi due atteggiamenti: dar fiducia al mercato, confondendolo con la scienza, o diffidare della scienza, confondendola con il mercato.
I due atteggiamenti alimentano la sindemia: il primo, che è quello del consumatore passivo, perché accetta senza protestare la perdita di trasparenza, d’universalità e d’efficacia della scienza medica; il secondo, tipico dei paranoici cospiratori totalitari, perché non lascia alcuno spiraglio alla vera politica e alla vera scienza. La vera politica non ha ovviamente nulla a che vedere con la governance neoliberale, così come la vera scienza non si riduce allo studio delle patologie e dei suoi rimedi, che diventano poi fonti di reddito per le industrie farmaceutiche o per il sistema medico in generale.
Il vero problema è che la produzione e la distribuzione dei vaccini – la cui esistenza va celebrata con gioia e di certo non demonizzata – funziona in modo tale da riprodurre il modello sindemico responsabile della nascita e della circolazione del virus. E questo perché esiste una pressione sulla comunità scientifica da parte delle industrie farmaceutiche, così come esiste una pressione sugli animali e sulla natura da parte delle industrie agroalimentari. Esiste inoltre una disparità sociale, e quindi anche geografica, nella distribuzione dei vaccini, così come esiste nella circolazione e nell’incidenza del virus. Il termine sindemia indica proprio questo intreccio di fattori patogeni.
Come sappiamo, la velocità con cui si sono prodotti i primi vaccini contro il COVID-19 (Pfizer, Moderna, Oxford) non ha precedenti nella storia della medicina. E’ probabilmente vero, come afferma la professoressa Charlotte Summers, che questo si deve ai progressi della ricerca compiuti negli ultimi anni, i quali assicurano ai vaccini una sicurezza epistemologica, sufficiente per la loro commercializzazione. Ma è anche vero che questa velocità ha suscitato alcune perplessità all’interno della stessa comunità scientifica. Alcuni scienziati considerano infatti, con altrettanto fondate ragioni epistemologiche, che l’urgenza sindemica abbia drasticamente ridotto i tempi cautelari applicati a tutte le ricerche precedenti, e di conseguenza – come spiega Els Torreele, fondatrice dell’iniziativa Medicine per Malattie Dimenticate – non si abbia alcuna certezza sulla durata della copertura immunologica di questi vaccini e non è chiaro se i vaccinati possano ancora trasmetterlo.
Quest’incertezza, afferma la scienziata belga, è associata alla concorrenza tra le industrie farmaceutiche che hanno mantenuto segrete le loro ricerche, contravvenendo così alle regole della pratica scientifica, al punto con le agenzie sanitarie dei singoli Stati hanno spesso autorizzato questi vaccini “senza altri dati che un semplice comunicato della casa farmaceutica“. La velocità e la concorrenza sono inseparabili dall’opacità e dalla mancanza di collaborazione, che generano un risultato incerto e ciò, osserva Torreele, può rivelarsi pericoloso non solo per eventuali effetti collaterali sulla salute delle persone, ma anche perché può minare la fiducia nei vaccini in generale, alimentando le pericolose teorie della cospirazione.
Considerata la situazione, l’urgenza è senz’altro giustificata, ma non si possono ignorare i rischi – anche per la credibilità stessa della scienza – di questa accelerazione indotta da una pressione esterna alla comunità scientifica.
A cosa è dovuta questa velocità? Le pressioni, esterne e interne, sono ovvie. Le pressioni interne dipendono dal fatto che benché i finanziamenti siano perlopiù pubblici, i brevetti per lo sfruttamento commerciale sono privati. Il capitalismo sindemico, che ha sempre selezionato le malattie da curare e quelle da ignorare, ha trovato una straordinaria opportunità di guadagno in un mercato globale che trasforma 7.600 milioni di esseri umani in potenziali acquirenti dei suoi prodotti. La stessa logica estrattiva che si applica in altri settori – dal petrolio all’agroalimentare – è impiegartaqui per estrarre finanziamenti dagli Stati e conoscenza dai cervelli della comunità scientifica.
Per quanto riguarda le pressioni esterne, ve ne sono due organicamente associate: quella dei vari governi nazionali cui è toccato gestire la pandemia e che, anche per ragioni elettorali, devono rispondere ai loro cittadini; quella della popolazione mondiale, in particolare della classe media occidentale, cui era stata promessa la “sicurezza totale” e che per questo esige una soluzione immediata e definitiva.
Né il capitalismo sindemico, né le sue vittime umane – perlomeno in Occidente – possono accettare l’idea della morte e della fragilità. Il paradosso è che per soddisfare la domanda d’immortalità individuale, un vaccino poco testato può aumentare, come effetto contrario, la vulnerabilità e l’insicurezza generale.
Insomma, la logica che produce i vaccini è la stessa che ha determinato la nascita del virus. La stessa cosa succede nel caso della distribuzione farmaceutica, dove la concorrenza tra imprese impedisce la collaborazione e l’universalizzazione dei benefici. “Alla maggioranza dei paesi“, come ricordava Juan Elman in un recente articolo “non sono garantite le dosi necessarie per vaccinare la loro popolazione“. Mentre il Canada, il Regno Unito, gli Stati Uniti, l’Unione europea, l’Australia e il Giappone hanno già acquisito da 4 a 8 dosi per persona, sono pochi i paesi che sono riusciti ad acquistare una sola dose, quando ne servono almeno due per l’immunizzazione, e il resto dei paesi più poveri non ha firmato alcun accordo per accedere al vaccino.
La proposta iniziale dell’India e del Sudafrica di rendere pubblici i brevetti e sospendere ogni diritto proprietaroi su medicine e vaccini – perlomeno fino a che fosse immunizzata il 70% della popolazione mondiale – è stata rifiutata dall’OMS per il voto contrario dell’Unione europea, degli Stati Uniti, del Canada e del Brasile. D’altra parte, il fondo Covax, gestito dalla stessa OMS e destinato alle vaccinazioni dei paesi poveri, non è stato appoggiato dagli Stati Uniti e non riceve che briciole dai paesi che hanno deciso la sua creazione. Invece che interrompere, i vaccini riproducono, come ben si vede, il movimento circolare, articolato e senza uscita, della sindemia capitalista.
Ma se il capitalismo è una sindemia, allora continuerà a produrre virus e pandemie, e continuerà a produrre, senza sosta, medicine e vacciin selettivi e mal distribuiti. Questo è il futuro che si prospetta e non è certo promettente per l’umanità. Ma se il capitalismo è una sindemia, la politica e la scienza, oggi sue prigioniere, dovrebbero cominciare a lottare per liberare l’umanità, e se stesse, dal capitalismo. E questo sarebbe senza dubbio salutare per tutti.