4 Dicembre 2020
Qualche riflessione sulla recente proposta di tassa patrimoniale light
A forza di ripetere che occorre tendere al centro si finisce per mettere radici sempre più a destra. Qualora non fosse già sufficientemente chiaro, ne abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione con la levata di scudi per l’emendamento alla Legge di Bilancio presentato da Liberi e Uguali e alcuni parlamentari del Partito Democratico, che propone una timida ipotesi di imposta patrimoniale.
Il ricorso alla bocciatura da parte della Commissione Bilancio per ragioni di copertura finanziaria è stato accettato, per cui nei prossimi giorni la proposta verrà messa al voto. È quindi opportuno formulare alcune considerazioni per rimettere a fuoco il dibattito.
Cominciamo innanzitutto dai contenuti dell’emendamento. Sulla base delle informazioni circolate nei giorni passati, viene prevista un’aliquota progressiva dallo 0,2% al 2% sui patrimoni con base imponibile superiore a 500.000 euro (ricchezze immobiliari da valore catastale e mobiliari, al netto delle passività finanziarie); unicamente per l’anno 2021, si applica un’aliquota del 3% per i patrimoni superiori al miliardo di euro, una sorta di “contributo di solidarietà” alla luce della portata della crisi economica che stiamo vivendo. Infine, l’emendamento introduce multe tra il 3% e il 15% per i patrimoni esteri “suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia” non dichiarati.
Il governo belga avrebbe in cantiere un progetto di legge per un prelievo dello 0,15% sui conti di deposito titoli superiori al milione di euro. Il più noto caso spagnolo prevede invece l’aumento di un punto percentuale (dal 2,5% al 3,5%) sulle ricchezze nette superiori ai 10 milioni di euro (per altro con alcune limitazioni dovute alle specificità dei singoli ordinamenti regionali).
Misure modeste, che intaccano solo lievemente i grandi patrimoni al fine di racimolare un’entrata aggiuntiva alle casse statali, ma senza scardinare i rapporti di forza delle economie in oggetto.
Senza soffermarsi su calcoli di costi e risparmi, l’eliminazione di specifiche “mini-patrimoniali” e balzelli che il/la contribuente italiano/a già paga sarebbe considerabile come una forma di razionalizzazione dell’imposizione fiscale, cosa di per sé desiderabile.
Fatte le dovute riflessioni di contesto, passiamo ora all’analisi delle critiche infiammate alla possibilità di introdurre una imposta patrimoniale in Italia, cercando di rendere conto di tutti i veri punti politici che sono finiti fuori dalla cornice della discussione.
Primo, la retorica del ceto medio. Uno degli infausti successi del combinato disposto tra il concetto di “ceto medio” e la mitologia del “merito” è stato convincere diversi/e esponenti della classe lavoratrice di avere destini distinti (quando non indipendenti) rispetto ai soggetti più sfruttati e vulnerabili.
Non solo, perché prendendo le distanze si finisce per intendere gli interventi di redistribuzione economica come sottrazioni di benessere oppure come ostacoli alla progressione sociale, senza guardare alle macerie sociali che ci circondano.
Basti pensare all’accanimento sull’impiego statale, perché in situazione di conflitto se i diritti non sono di tutti, essi vengono percepiti come privilegi; e nella confusione tra diritti e privilegi le vittime, anche inconsapevoli, sono moltissime.
Ciò detto, un ottimo articolo di Giacomo Gabbuti su The Jacobin ha dettagliatamente illustrato come – nonostante gli strali lanciati – a essere oggetto dell’imposta nella forma dell’emendamento in oggetto sarebbe tra il 10% e il 6% della popolazione italiana, detentore di circa il 45% della ricchezza italiana. Se questo è ceto medio.
Secondo, gli investimenti e dove non trovarli. La convinzione che tassare grandi redditi e grandi patrimoni abbia un effetto di contrazione per gli investimenti è oggetto di appassionati dibattiti nell’ambito economico. Senza scomodare Keynes, gli animal spirits imprenditoriali, la questione della rendita e molti decenni di teoria, è sufficiente riprendere le parole dell’economista Andrea Roventini in una intervista per Open, nel quale si evidenziava come un’imposta di questo tipo non andrebbe ad alterare l’andamento dei mercati, ma al contrario potrebbe generare entrate statali da utilizzare nel welfare o per investimenti pubblici.
Non solo, perché contrariamente ai triti ritornelli che si continuano a sentire, il settore privato italiano si caratterizza per i bassi investimenti, per altro secondo una dinamica scollegata da quella dei profitti.
Terzo, la giustizia fiscale che non c’è. Evocare una patrimoniale ha immancabilmente il potere di scatenare pulsioni difensive, probabilmente per una diffusa difficoltà a collocarsi nella società secondo i propri reali interessi di classe, come menzionato al punto primo di questa lista parziale. Eppure, le iniquità fiscali da evidenziare sono numerose.
Citando nuovamente Roventini, in questo caso per il manifesto, una riforma fondamentale riguarderebbe l’Irpef: “[…] è fintamente progressiva perché gli scaglioni più alti sono troppo vicini [e troppo sperequati rispetto alla salto di aliquota tra il secondo e il terzo scalone, NdA] e i vari regimi forfettari ne riducono la base imponibile”.
E ancora: in un dettagliato articolo per Domani del responsabile economico del PD, Emanuele Felice, si trova una puntuale riflessione sull’intrico di detrazioni e generose disposizioni fiscali su redditi da capitale ed eredità, il quale non solo rende il nostro sistema fiscale de facto regressivo (si ricorda che la progressività in ambito tributario è principio costituzionale, art.53), ma consolida l’accumulazione di capitali improduttivi e rafforza rendite di posizione. Un assetto più simile alle forme di pre-capitalismo che non al placido universo di ceto medio difeso da molti intellettuali nostrani direttamente dalla loro realtà parallela.
Lasciando da parte la questione dell’evasione fiscale, è doveroso aggiungere a complemento di quanto detto che nel capitalismo contemporaneo i capitali sono liberi di muoversi dove conviene loro maggiormente (per restare sul caso italiano, si menziona a titolo di esempio che Fiat/FCA ha sede legale nei Paesi Bassi e sede fiscale a Londra), sia in termini di regime fiscale, sia di agevolazioni, cosa che crea enormi disparità di potere.
Infine, se l’imposta patrimoniale viene accolta con tale generalizzata indignazione, altrettanto disappunto dovrebbe allora osservarsi anche per le proposte di flat tax tanto care a Lega e destre varie, considerato l’elevato potenziale regressivo dell’aliquota unica, se non mitigato con un dedicato sistema di esenzioni e deduzioni.
Però. Ecco, se però accompagnata anche da altre necessarie misure (semplificando all’osso, non è solo una questione di giustizia fiscale, ma anche di remunerazione di capitale e lavoro, di composizione della struttura produttiva, etc.), un’imposta patrimoniale sarebbe desiderabile.
In primo luogo, abbracciando la grammatica di crescita ed efficienza dell’OCSE, perché una ricalibrazione fiscale anche in questo senso porterebbe a una crescita più sostenuta e inclusiva.
In secondo luogo, includendo nel discorso anche l’opzione della tassazione delle (grandi) successioni, l’imposta patrimoniale avrebbe il potenziale di riperequare le cosiddette “dotazioni di ripartenza”, garantendo una maggiore “uguaglianza delle opportunità”, tema assai caro ai liberali (quelli veri). Sempre sulla necessità di intervenire sull’accumulazione di ricchezza a fini di crescita, si vuole citare anche “L’imposta patrimoniale” del liberale Luigi Einaudi (1946): “Più che tanti piani e tanti discorsi sul latifondo e sulla proprietà oziosa, giova a debellare l’uno e l’altra una buona imposta successoria, la quale costringa i proprietari a lavorare, se non vogliono andare in rovina”.
In terzo luogo, raccogliendo i sassolini sparsi in questo articolo per ritrovare la strada, una patrimoniale considerabile come tale serve per porre le basi di un’economia più giusta (non solo in chiave crescita), attaccando posizioni di potere e ricchezze accumulate e sottraendo risorse per rassegnarle ai più; coi dovuti distinguo per chi conosce la letteratura in materia, quello che si è fatto (o si sarebbe dovuto fare) con le riforme agrarie.
Concludiamo qui, tra il rapido esaurimento della discussione su un timido emendamento e la constatazione della portata delle questioni di politica economica da affrontare con urgenza. Tutto questo mentre ci troviamo di fronte a dibattiti posizionati sempre un po’ più a destra, ai pozzi avvelenati del discorso politico. Spostare l’asticella dell’agenda di politica economica un poco più in alto e a sinistra è l’unico sforzo che vale ancora la pena fare.