di Bilgin Ayata and Artemis Fyssa
5 Maggio 2020
La crisi del coronavirus e i rifugiati in trappola sulle isole greche
In molti paesi la pandemia di COVID-19 ha reso più lampanti problematiche già esistenti, operando come una sorta di lente di ingrandimento.
È il caso, tra gli altri, della Grecia, dove nell’ultimo periodo si sono fatte ancora più evidenti le diseguaglianze strutturali interne, le dinamiche di potere che attanagliano il paese, i fallimenti e i limiti delle politiche del passato.
Le carenze croniche della sanità pubblica, unite alle politiche congiunte (UE e nazionali) nella gestione delle migrazioni, avevano già creato una crisi umanitaria permanente nei campi per rifugiati. Adesso il coronavirus promette di peggiorare ancora le cose.
Negli ultimi mesi in Grecia si è ulteriormente inasprita la già rigida gestione pre-epidemia delle frontiere e delle migrazioni. L’UE ha legittimato queste misure con l’obiettivo dichiarato di scongiurare una seconda ‘crisi migratoria’. La risposta data dal governo greco al COVID-19 in riferimento ai campi per rifugiati dev’essere letta, dunque, all’interno del contesto più ampio della politica migratoria complessiva della Grecia e dell’Europa. La convergenza tra politiche migratorie restrittive ed emergenza di salute pubblica non solo pone seriamente a rischio le vite delle persone rifugiate ma mette anche in luce come quella promossa nei confronti delle persone migranti sia a tutti gli effetti una “politica dell’abbandono”.
La crisi prima della crisi
Il partito di destra Nuova Democrazia è stato eletto lo scorso luglio dopo aver promesso un ‘ritorno alla normalità’ per l’economia nazionale ed essersi impegnato ad affrontare senza mezzi termini le questioni dei rifugiati e dell’asilo, con cui la Grecia ha a che fare ormai da cinque anni. In particolare, il governo aveva promesso misure immediate per decongestionare le strutture ‘hotspot’ sulle isole, dove le persone rifugiate sono trattenute per lunghi periodi di tempo mentre vengono esaminate le loro richieste di asilo.
Per realizzare questo proposito, il governo ha approvato una nuova legge sull’asilo che è entrata in vigore il primo gennaio. Scopo principale della legge è quello di accelerare la procedura di esame delle richieste. Ma le misure previste dal governo sono molto discutibili e tradiscono la sua linea intransigente in tema di migrazione.
Ad esempio, la legge riduce al minimo le motivazioni per le quali un richiedente asilo può ritenersi vulnerabile, depennando dalla lista tutti i gravi disturbi mentali, come il disturbo post-traumatico da stress (PTSD). Contemporaneamente, la nuova normativa impone nuove procedure, come l’obbligo di avere una rappresentanza legale per i richiedenti asilo, senza però fornire gli strumenti adeguati perché queste siano rispettate: sono veramente basse le possibilità di ottenere assistenza legale da parte dello stato per le persone rifugiate.
Inoltre, la proposta di costruire nuovi hotspot e di riconvertire a questo scopo alcune strutture sulle isole dell’Egeo orientale (Lesbos, Chios, Samos, Leros e Kos) ha causato una levata di scudi sia tra i rifugiati che tra gli abitanti del luogo che si sono opposti fermamente ai lavori. Il governo ha reagito alle proteste recenti con una dura violenza poliziesca. Successivamente, alcuni locali gruppi estremisti di destra hanno risolutamente respinto le ONG e i rifugiati. Ad ogni modo, la resistenza locale nel complesso è stata così forte che alla fine il governo ha dovuto ritirare le sue forze speciali e sospendere i progetti in cantiere.
Proprio quando i piani del governo sembravano essere appesi a un filo, è emersa una nuova crisi delle frontiere: nel momento in cui la Turchia ha riaperto i suoi confini, migliaia di rifugiati si sono ammassati alla frontiera terrestre tra Grecia e Turchia, sul fiume Evros. Gli eventi che allora si sono succeduti sono stati dipinti come una ‘invasione’ dal governo greco, che ha reagito di conseguenza.
Per tutto il mese di marzo, ma soprattutto nei primi quindici giorni, la polizia antisommossa e le guardie di confine hanno messo in campo una serie di operazioni militari durante le quali si è scatenato un fitto scambio di gas lacrimogeni da entrambe le parti. I rifugiati arrivati in Grecia sono stati accolti da una brutale violenza di polizia, processi per direttissima e arresti, detenzioni arbitrarie e un’accelerazione delle operazioni di respingimento, già in atto, verso la Turchia. Con un’iniziativa senza precedenti, il governo greco ha poi sospeso il diritto a fare domanda d’asilo per tutto il mese di marzo.
All’apice delle tensioni sulla frontiera dell’Evros, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha visitato la regione insieme a un gruppo di alti funzionari UE, che hanno lodato il governo greco per aver tutelato il confine europeo e hanno promesso alla Grecia 700 milioni di euro in aiuti economici per la gestione delle migrazioni e il controllo dei confini.
È stato proprio in corrispondenza con questi sviluppi che anche la Grecia è stata raggiunta dal dibattito sull’impatto del COVID-19. L’intersecarsi di queste dinamiche ha rappresentato per Atene un’occasione favorevole da sfruttare per legittimare i pregressi progetti di segregazione dei rifugiati in campi chiusi, con l’imposizione di ulteriori restrizioni.
La risposta greca alla pandemia
Dal 10 marzo il governo greco ha imposto una serie di misure stringenti per appiattire la curva dei contagi da coronavirus, nella speranza di guadagnare tempo per predisporre la propria risposta sanitaria. La Grecia ha un disperato bisogno di questo tempo, considerati i drastici tagli che le politiche di austerità neoliberista hanno imposto ai servizi pubblici del paese negli ultimi dieci anni. Un’esplosione dell’epidemia metterebbe duramente alla prova il sistema.
Le principali misure vietano i grandi assembramenti o mirano a limitare la congestione e il sovraffollamento. Sono stati imposti anche divieti relativi agli spostamenti interni. Dal 21 marzo, ad esempio, non è concesso a nessuno imbarcarsi sui traghetti per le isole egee, così da impedire alle persone di trasferirsi dal continente alle case vacanza per il periodo di lockdown.
Anche se probabilmente nessun funzionario sarebbe disposto ad ammettere le carenze del sistema sanitario, è ben noto che le strutture pubbliche periferiche, soprattutto sulle isole, sono quelle più colpite dalle misure di austerità.
Gli ospedali sono privi delle attrezzature basilari e gli specialisti sono introvabili. Secondo l’ultimo comunicato della Federazione ellenica dei lavoratori degli ospedali pubblici, l’ospedale di Chio non ha neppure un posto letto in terapia intensiva. Sulla stessa isola è ospitata la terza struttura hotspot più grande dell’Unione Europea, nella quale vivono 5.600 rifugiati. A Lesbos, invece, ci sarebbero soltanto sei posti letto in terapia intensiva. In caso di una rapida diffusione dell’epidemia questi pochi posti letto dovrebbero provvedere all’assistenza dei 86.436 abitanti del luogo e delle 21.151 persone rifugiate che vivono nel campo hotspot di Moria e in altre strutture di accoglienza per rifugiati di Lesbos.
Il divieto di viaggio per le isole potrebbe sembrare una misura di contenimento del virus ragionevole, ma rappresenta anche un esempio paradigmatico del trattamento differenziale tra cittadini e rifugiati. Mentre ai cittadini greci si chiede di restare a casa e di evitare i grandi assembramenti, i rifugiati sono costretti in una situazione che è esattamente l’opposto di quella raccomandata. Vivono in campi sovraffollati, senza servizi igienici né infrastrutture sanitarie: l’auto-isolamento per loro è semplicemente impossibile.
Nelle cinque strutture hotspot di Lesbos, Chios, Samos, Leros e Kos attualmente sono detenute oltre 40.000 persone rifugiate. Questi hotspot sono stati allestiti dal 2015 in poi dall’UE per rispondere all’elevato numero di arrivi. Sono amministrati dalle autorità greche ma finanziati dall’Unione Europea e, sebbene fossero stati istituiti come misura temporanea di emergenza, questi centri sono diventati strutture permanenti in cui i nuovi arrivati vengono detenuti e poi intrappolati per diversi mesi, se non addirittura anni. Ad oggi questi hotspot rappresentano i campi profughi più grandi d’Europa.
La vita negli hotspot prima della pandemia
Anche se ciascuna delle strutture hotspot ha le sue caratteristiche peculiari, tutte sono però accomunate da una sistematica inadeguatezza delle infrastrutture di base. Ormai da anni le condizioni disumanizzanti dei campi sono ampiamente denunciate dai resoconti dei membri delle ONG, così come da chi fa ricerca accademica o informazione giornalistica. L’inadeguatezza cronica dell’infrastruttura sanitaria e igienica di base non può essere semplicemente attribuita alla cattiva gestione, ai grandi numeri e alla mancanza di risorse. A più di quattro anni dall’apertura degli hotspot, servizi essenziali quali la fornitura di cibo, di ricovero e igiene adeguati, nonché di istruzione e cure mediche, sono peggiorati anziché migliorare. Viene da chiedersi se questa situazione sia non solo tollerata ma anche deliberatamente utilizzata per scoraggiare altri arrivi.
I numeri parlano da soli. Il centro di accoglienza e identificazione di Lesbos, comunemente noto come Camp Moria, costruito per 2757 persone, ne ospita attualmente 18.985, cioè 6,8 volte la propria capienza massima. La maggior parte delle persone rifugiate vive negli uliveti attigui al campo, all’interno di tende e ripari autocostruiti. Coloro che vivono al di fuori del centro ne condividono i servizi insieme a chi vive all’interno, nei container e nelle tende.
Sebbene nel corso degli anni le presenze siano aumentate notevolmente, l’infrastruttura non è stata adeguata in maniera commisurata alle mutevoli esigenze. L’accesso all’acqua, ai bagni e alle docce è estremamente ridotto. A Camp Moria ad esempio c’è un rubinetto per 1300 persone e ogni bagno dovrebbe essere condiviso da 200 persone. I container dovrebbero alloggiare non più di quattro persone ma spesso sono condivisi anche da più di 12 persone. Le famiglie vivono in spazi angusti di 3 metri quadri, mentre alcune centinaia di persone vivono in grandi tendoni chiamati rubb halls.
L’accesso all’assistenza sanitaria, che è di importanza cruciale per rifugiati fuggiti da zone di guerra e persecuzioni, è del tutto insufficiente.
La carenza di personale, l’insufficienza dei finanziamenti alla sanità e i numerosi ostacoli burocratici spesso fanno sì che gli hotspot rimangano senza alcuna assistenza medica. Questa è la situazione riscontrata in diverse strutture che abbiamo visitato, dove i medici dell’esercito o le ONG tentavano di colmare enormi vuoti alla fornitura dei servizi sanitari essenziali.
Le persone rifugiate passano ore ed ore aspettando in fila per ottenere prodotti per l’igiene di base, cibo e acqua, assistenza medica, trasporto o informazioni riguardanti le loro domande d’asilo. L’esperienza quotidiana dell’hotspot consiste nell’essere costantemente costretti a lunghe code, in qualsiasi condizione climatica, esposti al vento, alla pioggia, o al sole. Anche prima dell’epidemia le ONG chiedevano che i campi venissero chiusi e che i rifugiati fossero trasferiti sulla terraferma. Anziché rispondere a questi appelli il governo greco ha proposto di costruire nuovi campi sulle isole, sotto forma di centri di detenzione ufficiali con divieto di entrata e di uscita.
Le misure anti-epidemia nelle strutture hotspot
Esattamente all’opposto del distanziamento sociale raccomandato ai cittadini, il governo greco costringe all’assembramento le persone rifugiate, che ora sono anche isolate, dal momento che le autorità hanno impedito alle ONG l’accesso ai campi sovraffollati. Questa importantissima connessione vitale con l’esterno, che avrebbe potuto fornire un supporto aggiuntivo alla prevenzione del contagio, è stata quindi cancellata. Peggio ancora, nel tentativo di separare i nuovi arrivati da coloro che sono già nei campi, il governo ha completamente abbandonato i primi, lasciandoli privi di un riparo, di cibo o di assistenza medica nel luogo dello sbarco.
Diamo adesso concretamente un’occhiata alle ultime misure adottate in relazione a questi hotspot. Il 16 marzo un rappresentante del governo greco annunciava che chiunque fosse risultato positivo al COVID-19 in uno dei cinque hotspot sarebbe stato isolato all’interno dei campi. Il giorno successivo il ministero per la migrazione e l’asilo promulgava una direttiva per tutte le strutture hotspot. Il 27 marzo venivano comunicate ulteriori misure.
La prima direttiva è composta di dodici raccomandazioni sostanzialmente di facciata, perché ignorano le condizioni che generano realmente i rischi di contagio nei campi. Ad esempio, si raccomandano ‘regole igieniche di base’, come la ‘pulizia quotidiana delle aree comuni interne con detergenti e disinfettanti e la disinfezione continua delle maniglie delle porte’ nelle aree pubbliche. Considerato che le maniglie sono rare nel campo di Moria, così come i rubinetti, essenziali per lavarsi le mani, questo genere di raccomandazioni banalizza il problema anziché affrontarlo.
Il rischio principale di infezione nei campi sovraffollati deriva da spazi abitati angusti, mancanza di sapone, acqua, bagni e docce, e lunghe code per il cibo e i servizi. Nessun intervento efficace è stato adottato rispetto a queste situazioni. Un’altra raccomandazione è quella di distribuire il cibo una volta al giorno, così da evitare il formarsi di tre code ogni giorno. Ma in ogni caso il distanziamento sociale è fisicamente impossibile; se i rifugiati dovessero mantenere una distanza di un metro e mezzo l’uno dall’altro anche nella fila per la distribuzione del cibo a Moria, la coda raggiungerebbe una lunghezza di circa 30 km. Proprio perché queste semplici prescrizioni per il contenimento del virus non possono essere applicate nei campi, le ONG e il parlamento europeo hanno chiesto l’evacuazione immediata dei rifugiati. Ma il governo greco resta determinato nell’intento di segregare la popolazione rifugiata da quella locale.
Con il pretesto della pandemia, ma fondamentalmente con l’obiettivo di attuare questo isolamento, sono state adottate le seguenti misure: per prima cosa, sono stati posizionati dei posti di blocco sulle strade che conducono all’hotspot di Moria a Lesbos, il più affollato di tutti.
Questi posti di blocco colpiscono sia le persone rifugiate che le ONG, bloccando i volontari e le volontarie che vogliono accedere alle strutture per fornire aiuto e assistenza. Così si mettono ulteriormente a rischio le persone richiedenti asilo, sospendendo gli aiuti proprio quando ce n’è più bisogno. Secondo l’ultimo resoconto dall’interno di Moria, molti dei funzionari nella struttura non stanno svolgendo il proprio lavoro ordinario, o hanno ricevuto indicazioni in tal senso. Le tensioni diffuse, la violenza sessuale di genere e gli scontri intercomunitari rischiano di inasprirsi ancora di più senza l’assistenza esterna di ONG e volontari.
Anche a chi esce dai campi sono state imposte gradualmente delle restrizioni: è stato permesso di allontanarsi dalle strutture solo dalle 7 alle 19 e per ‘spostamenti assolutamente necessari’ non meglio definiti. Ad esempio, non è specificato se lasciare il campo per soddisfare i bisogni essenziali sia considerato assolutamente necessario. Nel caso dell’hotspot di Samos, dove in un campo costruito per 648 persone ne vivono 7178, non ci sono strutture per lavare gli indumenti. Gli abitanti devono quindi uscire per raggiungere una lavanderia in città messa a disposizione da una ONG.
La fase successiva dell’isolamento dei campi è cominciata il 27 marzo, quando il governo greco ha annunciato il taglio dell’assistenza in denaro per le persone richiedenti asilo, che da quattro anni viene erogata con cadenza mensile. Il ministero delle politiche per l’immigrazione ha giustificato questa decisione affermando che i richiedenti asilo non devono recarsi in città per ritirare il denaro. Il ministero ha poi aggiunto che all’interno degli hotspot sarebbero stati installati degli sportelli bancomat, oltre ad alimentari e altri piccoli negozi. Dovrebbe essere evidente che qualunque sospensione dell’assistenza monetaria durante un’emergenza finisce per privare i rifugiati della possibilità di acquistare cibo e prodotti per l’igiene, come il sapone. Considerato che l’assistenza in denaro mensile è un prerequisito legale del programma ESTIA (Supporto di emergenza all’integrazione e all’alloggio), attuato dall’UNHCR e finanziato con fondi UE della Direzione generale per la migrazione e gli affari interni, anche una sospensione temporanea dei pagamenti è fonte di forti preoccupazioni.
Il governo ha stabilito che intorno al perimetro degli hotspot di Lesbos, Chios e Samos saranno posizionate dodici nuove unità mediche. Le unità potranno somministrare test per il COVID-19 ed essere usate per isolare i casi positivi. Inutile dire che dodici unità sarebbero insufficienti in caso di esplosione dell’epidemia. Gli altri servizi sanitari per i rifugiati sono stati per lo più interrotti. Alle persone rifugiate negli hotspot è stato chiesto con forza di rivolgersi al medico solo in caso di febbre e tosse. Così, pazienti con malattie croniche, donne incinte e altri che necessitano di cure mediche saranno ancora una volta lasciati senza assistenza. In linea con le indicazioni generali sulle misure di confinamento, il servizio sanitario si è limitato ad affiggere dei manifesti informativi per comunicare ai rifugiati tutte le nuove misure.
Non è esagerato, dunque, affermare che le persone rifugiate sono state lasciate sole ad affrontare la pandemia e gli onnipresenti rischi sanitari. Anziché cercare soluzioni pragmatiche, come l’utilizzo dell’infrastruttura turistica delle isole, con gli alberghi attualmente vuoti, il governo ha focalizzato la sua azione sull’isolamento dei rifugiati nei campi.
In realtà, la proposta di far alloggiare le persone rifugiate nelle strutture alberghiere attualmente in disuso era stata inizialmente avanzata da alcuni attivisti e poi raccolta dalla commissaria Johannson durante una seduta del 2 aprile della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni. Anche se la Commissione europea afferma di essere al lavoro su un piano d’azione con il governo greco riguardante questa questione, finora è rimasta piuttosto silenziosa in merito. L’unica azione concreta preannunciata è stata il trasferimento di 1600 minori non accompagnati.
Sicurezza delle frontiere o diritti umani?
Al momento in cui scriviamo, ci sono diversi casi confermati di COVID-19 nei campi per rifugiati greci sulla terraferma. Il governo ha reagito mettendo interi centri in quarantena, impedendo a chiunque di entrare e di uscire. Finora non è stata messa in atto alcuna evacuazione, neppure per i soggetti più vulnerabili.
È l’agenda politica del governo a dettare le misure per l’epidemia adottate in relazione ai campi per persone rifugiate, che puntano a limitare la migrazione anziché dare priorità alla protezione di tutte le persone. Negando la realtà delle condizioni di vita negli hotspot e addossando la responsabilità della tutela dei rifugiati a chi è nell’impossibilità di praticare l’isolamento, lavarsi le mani e disinfettare gli spazi pubblici, le misure preventive del governo diventano nient’altro che un esercizio retorico. Finora, queste decisioni hanno solo contribuito ad aggravare procedure di crescente segregazione delle persone rifugiate.
Se questa politica dell’abbandono dovesse proseguire, i campi sovraffollati diventeranno trappole mortali. Le responsabilità per i costi umani derivanti da queste politiche concentrazionarie ricadranno anche sulla Commissione europea, che fino ad oggi ha imposto e finanziato gli hotspot delle isole.
Negli ultimi anni la priorità data alla sicurezza delle frontiere europee a danno dei diritti umani ha prodotto una crisi umanitaria nei campi che sono stati aperti sulle isole. La situazione è peggiorata dopo l’elezione del nuovo governo nel 2019. La sua politica migratoria intransigente ha ricevuto un’ulteriore spinta grazie al sostegno della Commissione europea durante la crisi di frontiera a Evros. Oggi siamo testimoni di come la scelta di anteporre la sicurezza delle frontiere ai diritti umani stia diventando “un gioco” sempre più pericoloso.
La politica migratoria dell’UE è evidentemente giunta ad un punto morto. È necessaria un’azione urgente, prima che produca conseguenze letali. In tutta Europa sta crescendo un movimento che contesta la politica dell’abbandono, sottolineando il paradosso insito nelle decisioni di molti governi di spendere milioni per il rimpatrio di cittadine e cittadini in vacanza, dimenticandosi dei rifugiati. Le voci del dissenso hanno avuto una certa risonanza nel parlamento europeo, e sembrano essere giunte in sordina anche fino alla Direzione migrazione e affari interni. Questo è il momento opportuno per una svolta, che superi la politica dell’abbandono, in direzione di una concezione di principi quali protezione e tutela che abolisca la distinzione tra cittadino e non-cittadino.
Questo articolo è il terzo contributo di una miniserie con inchieste dall’Italia e dalla Grecia e una panoramica sulla situazione della libertà di movimento all’interno dell’Unione Europea che è stata pubblicata in inglese per la prima volta su Eurozine. La traduzione è a cura di Francesco De Lellis.