Le realizzazioni imperfette del modello perfetto

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4 Agosto 2021

Abbandonata l’età dell’infanzia ci vuole coraggio per denunciare che il re è nudo. Ed è quindi coraggioso quanto hanno recentemente fatto tre neodiplomate della Normale di Pisa – Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi – che, nel corso della cerimonia di consegna dei loro diplomi, hanno preso parola per denunciare le contraddizioni del sistema accademico italiano.

Ben presto il video del discorso ha iniziato a girare sui social ed è diventato virale, aumentando così la forza della scossa sismica che deve aver provocato nella Scuola che vanta alumni di un certo peso: da Giovanni Gentile a Giosué Carducci, da Remo Bodei a Michela Marzano, Walter Siti, Tomaso Montanari…

Sotto attacco è l’approccio neoliberista che, a colpi di privatizzazioni e tagli ai finanziamenti, ha trasformato le università in aziende “in cui l’indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto, in cui la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi” – ha denunciato Virginia Magnaghi. “Un’università in cui lo sfruttamento della forza lavoro si esprime attraverso la precarizzazione sistemica e crescente, in cui le disuguaglianze sono inasprite da un sistema concorrenziale che premia i più forti e punisce i più deboli aumentando i divari sociali e territoriali”.

Si tratta dello stesso approccio che ha inasprito la competizione tra gli studenti e le studentesse, la loro performatività a tutti i costi; l’esternalizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici di mense e biblioteche; le disparità di genere nell’assegnazione delle cattedre; la precarietà di docenti, ricercatori e ricercatrici – sempre più occupati a scalare i ranking della produzione scientifica che a svolgere un ruolo di pubblico faro.

Secondo il Rapporto sull’Università italiana 2008-2020 di UnRest-Net, piattaforma collaborativa per la ricerca sull’Università, la decrescita (infelice) dell’università italiana è iniziata con i tagli ai finanziamenti pubblici, sia per le Università che per il Diritto allo Studio, votati dal governo Berlusconi III nel 2008 e accelerati dalla cosiddetta Legge Gelmini del 2010.

In dodici anni, secondo i ricercatori di UnRest, i docenti/ricercatori dell’università italiana sono diminuiti dell’11,74; gli iscritti alle classi di laurea triennali e magistrali sono calati del 4,68%; ci sono quasi un quarto di iscritti alle scuole di dottorato in meno e, dal 2012 al 2019 i titolari di assegno di ricerca sono diminuiti del 8,18%.

Ma nell’ascoltare la denuncia delle tre neodiplomate della Normale, torna in mente limpidissimo anche un saggio di Angelique Del Rey, uscito nel 2018 per i tipi di elèuthera e intitolato La tirannia della valutazione.

Angelique Del Rey è una critica della meritocrazia da tempo. Vive a Parigi dove insegna filosofia agli adolescenti. Ha scritto insieme allo psicanalista argentino Miguel Benasayag i testi Elogio del conflitto (Feltrinelli 2008) e Oltre le passioni tristi. Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa (Feltrinelli, 2016). Sempre con Miguel Benasayag ha fondato il collettivo multidisciplinare e internazionale Malgré Tout, nato per “articolare il pensiero complesso con l’azione”.

Secondo Angelique Del Rey, “la valutazione, nel nostro mondo neoliberista, è diventata un potente strumento di potere”, una vera e propria “follia della valutazione” che ci accompagna dalle scuole – dove si pretende di prevedere sin dall’asilo gli studenti e le studentesse a rischio di fallimento scolastico – fino al posto di lavoro – dove vige la “logica delle competenze” – e che porta a una precarietà non solo lavorativa ma anche psicologica e, infine, esistenziale.

Valutazione e meritocrazia vanno a braccetto dal tempo in cui Michael Young pubblicò a Londra un romanzo intitolato: The rise of the Meritocracy 1980-2033.t

Era il 1958 e la meritocrazia entrava nel sentire comune sotto la forma di un governo di pochi selezionati sulla base di una misurazione scientifica della loro intelligenza. In questa distopia, le classi di lavoratori e lavoratrici non potevano che auto-dichiararsi esseri inferiori, salvo poi rivoltarsi contro l’intero sistema meritocratico che nel frattempo si era conquistato il potere a suon di riforme scolastiche e socio-economiche ispirate al principio dell’uguaglianza delle opportunità…

Ma non è sempre stato così. Anche il merito è un effetto del capitalismo. Già nel Medioevo, ad esempio, il “merito” esisteva ma era considerato qualcosa di innato e non da confermare quotidianamente con il proverbiale sudore della fronte (metaforico o meno). Mentre è con la nascita del capitalismo che il merito assume la concezione moderna di “riconoscimento delle capacità individuali e degli sforzi che le sottendono”.

In una società e in un mondo del lavoro dove disponibilità e opportunità sono finite e “a numero chiuso”, questo modo di pensare e di agire si riversa pesantemente sulla quotidianità: dal lavoro allo studio. È così ad esempio che cambia il modo di intendere la formazione: non più un atto collettivo in cui la comunità trasmette conoscenze, educa e forma, bensì un atto individualistico, un investimento su di sé, sulle proprie ‘competenze’, ovvero sul proprio ‘capitale umano’, per aumentare la propria competitività sul mercato del lavoro. In questa logica intrisa di neoliberismo, anche le scelte personali – oltre al modo di vedere sé stessi e gli altri – si compiono sulla base di un superficiale calcolo costi/benefici.

Il successo della valutazione – nonché il suo potere – nasce da una pretesa di una oggettività che a sua volta implica una normalità altrettanto pretenziosa basata sulla logica della performance. Gli individui, in questo sistema, diventano “le realizzazioni imperfette del modello perfetto”. Ognuno è schiacciato sulla sua stessa valutazione, fino a coincidervi, per cui si è meritevoli di tutto ciò che ci succede. O, al contrario, responsabili di tutti i problemi della società.

“Coloro che soccombono alla disoccupazione, coloro che cadono in miseria, quei ceti sociali caratterizzati da un fallimento scolastico di massa ecc., in un certo senso non ‘meritano’ di sopravvivere perché sono ‘inadeguati’ (ineducabili, irrecuperabili, incurabili!)”. Ecco che la valutazione, chiosa Del Rey, si svela per quello che è: un biopotere dispotico, “un dispositivo panottico, ancora più ‘tirannico’ in quanto inavvertito, che si presenta come un semplice sguardo chiarificatore (non giudicante) sulla vita umana… un semplice discorso di verità.”

Parlando del criterio secondo cui i ricercatori universitari si classificano in base al numero di citazioni apparse sulle riviste accreditate, Isabelle Barbéris dell’università di Paris-Diderot ha scritto che “l’ideologia della valutazione indica la comparsa di una società balbettante, incapace di pensare se non per frammenti.”

Con il cortocircuito innescato da Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi e la loro denuncia alla Normale di Pisa c’è da sperare che la società balbettante abbia iniziato a parlare.