di Andrea Cegna
10 Gennaio 2020
Mentre le destre dilagano, con l’appoggio delle chiese evangeliche a targa Usa, i movimenti sociali tengono duro, oltre i fallimenti e le vittorie della stagione di governo delle sinistre
Le Americhe restano un laboratorio politico interessante, dove l’egemonia economia statunitense – con le sue forme d’imperialismo sempre attive – è elemento imprescindibile.
L’arrivo alla presidenza di Donald Trump ha cambiato pratiche e interessi transnazionali Usa e riportato una certa morbosa attenzione per tutto quello che si muove dal Messico in giù. La presidenza del tycoon è arrivata in una fase di profonda crisi per tutti quei governi inscatolati nella maglie della “sinistra progressista latino americana”. E le attenzioni statunitensi sul continente non hanno fatto altro che rendere più complessi gli ultimi mesi.
Oggi, forse più che mai, è impossibile pensare e capire l’America Latina senza prendere in considerazione il ruolo delle chiese evangeliche e la presenza massiccia dell’evangelismo nella regione che è anche uno dei principali motivi del perché oggi si ha come Papa un argentino – gesuista di nome Bergoglio.
Raul Zibecchi, giornalista e scrittore uruguaiano, così scriveva nel marzo del 2019: “Prima o poi, nei prossimi anni, l’ondata evangelica raggiungerà tutti i paesi dell’America Latina, perché sta crescendo in modo esponenziale, si sta trasformando in uno tsunami sociale e politico capace di modificare gli scenari a cui ci siamo abituati. Dovremmo apprendere qualcosa da quello che sta succedendo lì dove quell’ondata s’è imposta. Quello del Brasile è il caso più sintomatico della crescita evangelica e pentecostale. Gli studi che stanno pubblicando mostrano come il successo di Jair Bolsonaro è stato possibile grazie all’elettorato evangelico. Tra la popolazione cattolica c’è stato un pareggio tra Bolsonaro e il candidato del PT, Fernando Haddad.”
La chiesa evangelica negli Usa si è fortemente appoggiata proprio a Trump. Così l’asse destre continentali – chiesa evangelica sta portando un forte e feroce attacco al laboratorio latino americano. E non solo dal punto di vista dei governi, ma anche e soprattutto della cultura e degli immaginari.
La crisi sistemica che l’America Latina vive è quindi la reazione al “decennio conquistato”, cioè ai dieci anni di sperimentazione di governi progressisti spesso nati da lotte sociali e grandi critiche all’esistente, ma allo stesso tempo dal fallimento delle esperienze di governo.
Certo l’arricchimento di parte della popolazione povera, l’accrescimento delle possibilità di chi era escluso e spesso l’aver tolto dalle orbite Usa le materie prime sono successi ineludibili, ma gli accordi economici con altre grandi potenze (Cina e Russia soprattutto) e il quasi assente tentativo di forme diverse di sviluppo economico, rivendicando forme di socialismo solo nel senso della gestione dei guadagni, hanno mostrato tutta la loro fragilità così come il contesto sociale che non ha visto una politicizzazione della nuova classe media.
Federico Larsen, sulla rivista Jacobin, scrive: “Quello del ‘decennio conquistato’ è un modello sorto dalle ceneri dell’ultraliberismo testato in America Latina tra gli anni Ottanta e Novanta e concluso nelle tragiche crisi finanziarie in Messico nel 1994, Brasile nel 1998, Ecuador nel 1999, Argentina nel 2001, Uruguay nel 2002, per citarne solo alcune. In queste circostanze i movimenti sociali latinoamericani hanno confermato il loro ruolo di veri e propri agenti di costruzione sociale, cittadina e umana, oltre a quello di attori politici di peso. Si tratta di movimenti che ancor oggi entrano fino in fondo nella dinamica quotidiana dei settori popolari, che creano mense, costruiscono case, propongono attività di aggregazione sociale. Non solo vanno in piazza per chiedere la continuità dei sussidi statali alle loro attività, ma hanno saputo costruire un’alternativa reale e tangibile per quei settori che vogliono interpellare”.
Se lo stesso continente si guarda non dal lato del “chi governa”, ma dal lato dei movimento sociali, oggi vediamo una distanza fortissima.
Mentre la sinistra di governo arranca, riproduce modelli vecchi e perdenti (il primo anno di governo Lopez Obrador e la sua corsa all’estrattivismo né è termometro feroce) non solo economicamente ma anche nella “retta” del patto sociale con le realtà di base che li portano al governo, i movimenti sociali sono forti, vitali e attivi oltre che molto diversi tra loro.
Ma dal Cile all’Ecuador, dall’Argentina al Messico, dalla Colombia all’Honduras, passando per gli altri paesi dell’area, vediamo la crescita delle esperienze femministe targate Non una di Meno e non solo. Vediamo l’esplosione di movimenti studenteschi pretendere la rottura con i passati coloniali e neo-liberali (l’esempio cileno è centrale). E poi vediamo le resistenze indigene, migranti e campesine resistere alle peggiori pratiche del capitalismo estrattivo, alla grandi opere, così come alle politiche razziste ed escludenti che cercano di cancellarli dal pianeta.
Tutti questi movimenti mettono in discussione il capitalismo nelle sue forme attuali e pretendono una trasformazione nella relazione tra persone e territori. Ovvero il modello latinoamericano resiste, vive, e si trasforma. Nuovamente diventa elemento di alternativa sistemica, che non è detto avrà le forme dell’elezione e i confini dello stato nazione come Mapuche o Zapatisti teorizzano da molti anni.