Le vene aperte di Gerusalemme

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8 Maggio 2021

Oltre l’aura simbolica dei suoi luoghi religiosi, Gerusalemme è una città innervata di violenza. Gli occhi affascinati dal mito del forestiero spesso faticano a vedere ciò che i suoi abitanti vivono, dentro e fuori la Città Vecchia. Specialmente se si parla dei palestinesi di Gerusalemme, ossia circa 330.000 persone, molte delle quali solo con lo status di residenti (revocabile) della città, senza essere cittadini di alcuno Stato.

Nel mese di Ramadan, il secondo in tempi di pandemia, la violenza è tornata a palesarsi in maniera prepotente, ricatturando i riflettori. Si è cominciato con le restrizioni alla Porta di Damasco (o Bab al-Amud, uno degli accessi alla Città Vecchia per i quartieri abitati da palestinesi), fra i pochi spazi, specialmente a Gerusalemme Est, che per la sua conformazione architettonica consente l’aggregazione.

Le scale che conducono a Bab al-Amud sono spesso gremite di giovani, in maggioranza maschi, i quali trascorrono il tempo sotto gli occhi dell’esercito israeliano, che li osserva da due postazioni: una sulla sommità delle scale e una all’ingresso della porta, di fronte agli spazi solitamente occupati da anziani e venditrici di verdure.

Se il forestiero prestasse attenzione, probabilmente vedrebbe qualche ragazzo spalle al muro mentre viene perquisito per controlli. Scene analoghe si potrebbero cogliere percorrendo al-Wad Street, oltre l’ingresso di Bab al-Amud, dove i controlli a giovani e bambini non sono certo infrequenti. Nell’esperienza turistica, tuttavia, sovente ciò che accade nei vicoli e negli angoli ci sfugge. Gli abitanti invece sì, lo notano, lo vivono.

Nemmeno un anno fa, Eyad Hallaq, affetto da autismo, non si ferma ai controlli alla Porta dei Leoni. Muore per le ferite da arma da fuoco, diventando il George Floyd palestinese e guadagnandosi accanto a lui un posto sul Muro di Separazione a Betlemme, entrambi simboli di un sistema di pratiche poliziesche discriminatorie. Sono spesso i portatori di disabilità, per la loro incapacità di sentire o capire gli ordini, a pagare un prezzo particolarmente alto in questo intrico di barriere e frontiere che è il conflitto israelo-palestinese.

Durante Ramadan è abitudine uscire la sera, dopo una giornata di digiuno completo. L’accesso a un luogo pubblico è ancora più essenziale per chi vive in condizioni abitative di affollamento, di spazi angusti e non confortevoli. L’ha raccontato molto bene Mahmoud Mouna, fra i volti noti e cari dell’Educational Bookshop di Gerusalemme Est, su The Independent.

Dentro la Città Vecchia così come in molti altri quartieri, la questione abitativa è assai seria. Sciatteria? No, mancanza di mezzi economici e, nei casi migliori, semi-impossibilità di ottenere dei permessi per ristrutturazioni, mantenimenti e migliorie. E riguardo alla mancanza di mezzi, è forse pigrizia, assenza di etica del lavoro? No, è mancanza di opportunità, perché l’economia di Gerusalemme Est è rendita per le famiglie più agiate e commercio per la piccola borghesia; l’alternativa per un giovane palestinese, magari anche con un buon livello di istruzione, è fra il piccolo padronato palestinese e il padronato israeliano, per il quale sarà sempre un po’ più subalterno degli altri.

Non è la prima volta che vengono vietati assembramenti sulle scalinate di Bab al-Amud, specialmente di Ramadan. La rabbia però è stata fomentata da gruppi di ultranazionalisti ebrei, i quali al grido di “Morte agli Arabi” (si noti che nel vocabolario della destra israeliana il riferimento è tendenzialmente agli arabi, non ai palestinesi; nel loro orizzonte ideologico la Palestina non esiste) hanno sfilato per Gerusalemme Est. Pare che la marcia fosse a sua volta una reazione a video di TikTok di ragazzini palestinesi che importunavano ebrei ultraortodossi (altra scena non inconsueta del paesaggio della città, specialmente fuori dalla Città Vecchia), ennesimo prodotto della violenza che si tesse e monta quotidianamente. Dopo alcuni giorni di accesi scontri e arresti da parte delle forze di polizia, le barriere alla Porta di Damasco sono state rimosse.

La violenza si sposta solo di poco più di un chilometro, nel quartiere di Sheikh Jarrah, sempre Gerusalemme Est. Non nella zona “alta”, ossia quella dei consolati e delle case lussuose, bensì quella più popolare, che da decenni si puntella a poco a poco di insediamenti israeliani. In parte per la presenza della tomba del rabbino Shim’on HaTsadik (e con questo nome molti israeliani ed ebrei si riferiscono al quartiere di Sheikh Jarrah), in parte per la posizione strategica dell’area, anche in ottica di rottura della continuità spaziale di Gerusalemme Est, come illustrato in Wujood (in arabo “presenza”, nel senso di essere presenti perché si esiste), la guida alla città dell’associazione Grassroots Al-Quds.

Non si tratta solo di contese di spazi per ragioni “identitarie” o religiose. Da Silwan a Sheikh Jarrah, l’acquisto o l’acquisizione di terre e case è infatti mosso da considerevoli interessi edilizi, in un intreccio di movimenti internazionali di capitali.

Non sarebbe da escludere che i video di TikTok degli adolescenti palestinesi intenti a infastidire ultraortodossi, che tanto hanno fatto infuriare l’ultradestra israeliana, possano essere stati filmati proprio in questo quartiere così esposto agli attriti. Forse qualche forestiero che alloggia negli alberghi turistici di Sheikh Jarrah ha assistito a una scena simile. Nel conflitto israelo-palestinese si commette spesso l’errore di voler risalire a una catena cronologica di torti per individuare una responsabilità originaria. Sarebbe più opportuno, sebbene più scomodo, guardare semplicemente agli squilibri di potere, senza cercare vittime immacolate.

Il 2 maggio alcune famiglie di Sheikh Jarrah hanno ricevuto un ordine di sfratto: decine di persone dovranno dunque sgomberare le case dove sono vissute per tutta la loro vita, o almeno buona parte di essa (alcune appartengono a famiglie di Jaffa e Haifa, vittime della nakba del 1948). La validità dei titoli di proprietà palestinesi è immancabilmente oggetto di scrutinio da queste parti, messa in discussione sulla base di leggi e giurisprudenza non neutrali, come nel caso della Absentee Property Law del 1950.

Nei giorni successivi si sono susseguiti altri accesi scontri tra palestinesi, coloni israeliani e forze di polizia. L’espulsione di decine di persone dalle proprie abitazioni, per altro in un quartiere come Sheikh Jarrah, ha generato una grande mobilitazione, soprattutto da parte dei suoi giovani: sui social media ma anche nelle strade, con iniziative di resistenza pacifica come l’organizzazione di una rottura di digiuno (iftar) nel quartiere. Nel frattempo, la notte tra il 7 e l’8 maggio, le forze di polizia sono entrate in massa sulla Spianata delle Moschee e ad al-Aqsa; al momento si contano circa duecento feriti fra i palestinesi che si trovavano sul posto nell’ultimo venerdì di Ramadan.

È difficile essere ottimisti a Gerusalemme, soprattutto quando la si abita in condizione di marginalità. Non si parlerà a nome dei suoi abitanti, ma ci si limiterà a far notare quanto faticosa, precaria e vulnerabile sia l’esistenza di molti di loro. Quanta energia e pazienza debbano essere raccolte ogni volta per difendere un brandello di diritto, irrilevante per occhi non allenati al conflitto, ma invece fondamentale, perché nessuna sottrazione sarà mai compensata. E spesso, forse, non rimangono che corpi arrabbiati.

La crucialità della questione palestinese risiede ancora, dopo tutto questo tempo, nello spingere a interrogarsi su dove posizionare l’asticella in materia di diritti, dignità e giustizia. Non solo rispetto al conflitto israelo-palestinese, ma su temi che ci riguardano da vicino. Cosa rende un soggetto “pericoloso per la sicurezza”? Fin dove si possono spingere controllo e sorveglianza? Quali sono i rapporti di forza dietro limitazioni ed espropriazioni? Gerusalemme, con le sue molteplici guerre urbane, torna a porre queste domande.

Per approfondimento, si rimanda al rapporto 2021 di Human Rights Watch, nel quale si tratta anche dei e delle palestinesi residenti di Gerusalemme.

A ‘amm Omar, Shireen, Fayrouz e, soprattutto, al giovane e arrabbiato Yousef, ragazzo di Gerusalemme.