Il Libano è un piccolo Paese in Asia che si affaccia sul Mediterraneo. Ha un’area di soli 10.452 km². Diecimila quattrocento cinquantadue chilometri quadrati di Terra contesi da tutti e reclamati da nessuno. Amati, odiati, ma soprattutto violentati. Rasi al suolo e risorti, come una fenice che si rigenera dalle ceneri: da 50 anni a questa parte, ogni volta che sembra dato per vinto, il Libano non molla la presa.
Per decenni il Paese è stato dilaniato da conflitti e guerre interne ed esterne spesso e volentieri anche contemporaneamente. Conflitti che hanno visto vicini di casa giocare a carte in un momento e pugnalarsi alle spalle quello dopo. Fortunato è chi l’ha conosciuto prima che cominciasse il suo declino. Chi ne ha conosciuto le meraviglie, chi l’ha visto fiorire. Chi l’ha vissuto giorno e notte passeggiando per le strade di Beirut, Byblos e Alay udendo migliaia di voci e di accenti diversi, provenienti da ogni dove. Beato chi di giorno si alzava cantando Fairuz e di notte concludeva la serata ballando in discoteca e non a suon di bombe e kalashnikov. Questo racconto riporta le testimonianze di tre generazioni e di due conflitti in un unico paese, in un unico tempo.
Halima e Fatina sono madre e figlia. Halima ha conosciuto il Libano in tutte le sue fasi. È cresciuta in un Paese dove si stava bene. Un Paese pacifico, moderno, alla moda e pieno di turisti. Ce lo descrive come la Dubai di oggi, dove bastava girare per le città per incontrare persone da ogni dove. “Ricordo la bellezza del Libano prima della guerra. La zona di Beirut, in generale del Governato del Monte Libano, era una zona turistica sempre piena di persone che provenivano da tutto il mondo arabo. La vita notturna era all’ordine del giorno. Beirut veniva chiamata ‘Om el Donya, la Madre del Mondo”.
“Io sono originaria del Jiyeh, una piccola cittadina affacciata sul mare che si trova a 23 km a Sud di Beirut, da dove invece viene la famiglia di mio marito. Abbiamo vissuto nella capitale per un po’, quando avevamo ancora un solo figlio, poi attorno al ‘72, ci siamo trasferiti nel mio paese, accanto alla mia famiglia e lì è nata Fatina Vivevamo bene, facevamo una vita normale come tutte le famiglie di tutto il mondo. Casa, lavoro, svago. Mio marito si recava ogni giorno a lavoro a Beirut e spesso ci capitava di andare a visitare la sua famiglia”.
Ma quella vita tranquilla da lì a poco iniziò a scontrarsi con le prime difficoltà e le prime tensioni. Tensioni che con il tempo si accumularono e sfociarono in un tragico evento: il 13 aprile del 1975, un bus che trasportava profughi palestinesi diretto al campo profughi di Tal el Zaatar a Nord-Est di Beirut, fu preso di mira nel quartiere di Ein el Roummani e venne coinvolto in una sparatoria che uccise quasi una trentina di passeggeri.
“I fatti di Ein el Roummani sono stati un segnale chiaro: il Libano era a un punto di non ritorno. Tra la popolazione cresceva l’incertezza, non si stava più sicuri”. Da tempo il Libano ospitava, tra varie controversie, i profughi Palestinesi in campi allestiti in varie città. Ma fino a quel momento non c’era stato nessun vero e proprio segnale di guerra da parte di nessuno. “Ogni tanto c’erano i soliti scontri tra gang, i teppistelli, ma non venivano presi così seriamente”.
Nel ’75 però il numero dei palestinesi era cresciuto notevolmente, l’OLP aveva acquisito potere e con lui il suo leader Yasser Arafat fatto che era percepito come una minaccia dalle fazioni politiche di destra.
“Tutt’ora non è certo chi fossero gli uomini che spararono contro il bus. La zona verso cui si stava recando si trovava a est di Beirut, zona a prevalenza cristiana sotto il controllo delle milizie falangiste. A uno dispiace dover tirare fuori questi termini (cristiano o musulmano) ma all’epoca Beirut era così divisa”, amareggiata continua “Si dice siano stati i falangisti per rivendicare la morte di un loro leader, rimasto ucciso durante precedenti scontri con l’OLP. Ma girano anche voci che possano essere stati gli israeliani per incendiare la zona e far scoppiare la guerra civile. Di sicuro la seconda opzione è quella più confortevole o comunque quella meno dolorosa: è meglio pensare che una guerra così straziante, i cui effetti non sono ancora terminati, non sia stata colpa dei tuoi concittadini. Da quel momento in poi, tutto è cambiato, la situazione è degenerata rapidamente” continua a raccontare Halima “I partiti iniziarono a distribuire le armi ognuno nella sua zona. Subito si diffusero i posti di blocco in tutta Beirut, la città venne divisa ormai in via ufficiale tra Est ed Ovest: se abitavi a Ovest, e soprattutto se eri musulmano, non ti era concesso andare a Est. E, allo stesso modo, se eri di Beirut Est e cristiano, non eri ben accetto a Beirut Ovest. Le persone che cercavano di attraversare la città, anche solo per andare al lavoro, spesso venivano catturate o uccise. Mio marito tutti i giorni doveva andare al lavoro a Beirut Est, noi siamo musulmani, e quindi rischiava la vita tutti i giorni e anche noi con lui quando decidevamo di andare a visitare la sua famiglia. Finché una volta ero in macchina con mio marito e mio figlio, era notte e stavamo tornando da Beirut verso casa. Eravamo sul ponte del Damour, 20 km a sud di Beirut, quando ci fermarono e ci fecero scendere dalla macchina. Fortunatamente riuscimmo a convincerli che dovevamo tornare a casa nostra al Jiyeh e ci lasciarono andare. Nonostante questo episodio, lui continuò ad andare al lavoro. Era della zona e conosceva la sua città così quando un giorno, di sabato, vennero catturate centinaia di persone, lui riuscì a svicolare ed uscire da Beirut e fu in quel momento che decise di non andare più a lavoro”.
Come lui, migliaia di persone dovettero abbandonare i loro lavori e cercarne di nuovi concentrando la ricerca nelle zone dove abitavano. Il paese venne attraversato da una crisi economica, la gente cominciò a vivere, o meglio sopravvivere, con quello che aveva.
“Per questo motivo era facile per i partiti attirare verso di sé i giovani con uno stipendio che, pur se minimo, era meglio di niente”.
Il Libano è un Paese demograficamente frammentato dove convivono 18 confessioni religiose diverse e dove il potere stesso è distribuito secondo rapporti di forza tra queste. Così l’unica grande differenza su cui si poté fare leva fu proprio quella religiosa e fu in questo modo, secondo la testimonianza di Halima, che i partiti cominciarono a raccogliere consensi e a crescere, radicando nella gente il senso di appartenenza a una fazione piuttosto che all’altra.
Questo sistema basato sul censimento confessionale in Libano esiste dal 1926 e fu istituito dai coloni francesi quando il Paese era ancora sotto l’egemonia degli stessi. Secondo questo sistema le cariche maggiori quali Presidente della Repubblica e Capo delle Forze Armate devono essere rivestite dai rappresentanti della confessione con il maggior numero di fedeli nel Paese il che implica anche un maggior numero di seggi in parlamento. L’ultimo censimento, risalente al 1932, vede il numero di cristiani prevalere su quello dei musulmani e sebbene nel 1975 la realtà del momento fosse ben lontana da quelle cifre così datate, il potere e la maggioranza in parlamento era ancora detenuto dai cristiani, nello specifico i cattolico-maroniti.
In quegli anni i partiti di destra, costituiti prevalentemente da cristiani maroniti, arano al potere e nel momento in cui avvertirono la presenza palestinese armata come una minaccia alla loro egemonia e sentirono la necessità di difendersi ed espellerli dal proprio Paese. Si allearono con Israele, appoggiati dall’occidente e si schierarono contro i partiti di sinistra libanesi prevalentemente comunisti e socialisti che fiancheggiavano invece l’OLP.
“Il governo non aveva più alcun potere. Ciascuna zona doveva organizzarsi da sola, e ogni partito era a capo di una zona e se ne prendeva cura: sistemavano le strade, gestivano elettricità ed acqua che senza la centralità dello stato mancavano, costruivano e organizzavano le scuole e gli ospedali. Questa è stata una delle ragioni maggiori per cui i partiti acquisirono potere e la gente si sentiva protetta da loro e quindi iniziò a sentirsi ancora più legata e a loro debitrice. Fu in quel momento che cominciò a radicarsi la divisione confessionale che oggi governa il popolo”.
Lavorare e crescere una famiglia in un Paese lacerato da conflitti interni, dove da un momento all’altro il tuo vicino poteva rivoltarsi contro di te o reprimere le tue libertà e i tuoi diritti non fu certo facile.
“Nella zona del Monte Libano, per un periodo ci fu l’egemonia del partito socialista e solo in seguito arrivarono le milizie falangiste. Così loro, così come tutti gli altri partiti, iniziarono a distribuire le armi tra i giovani per accrescere la propria forza”. Beirut probabilmente fu la città che più risentì della divisione ma i conflitti si spostarono presto nei villaggi attorno, nella regione del Monte Libano, dove i ragazzi dei partiti, spesso senza nessun ordine, se ne andavano in giro terrorizzando gli abitanti. Così era frequente che si organizzassero ronde per proteggersi dagli attacchi di questi teppisti. Fu durante una di queste ronde che suo cognato venne ucciso dai teppisti del partito socialista. Questo fatto cambiò e segnò profondamente il destino di Halima e della sua famiglia.
“Mio marito, Zakaria, era andato per assistere al processo della morte di suo fratello, che era stato catturato e torturato fino alla morte. Doveva assistere al processo e tornare invece, anche lui venne catturato. Gli stessi teppisti trattennero lui e l’altro fratello, Jamal, e li torturarono. Alla fine, Jamal venne liberato mentre di mio marito non si ebbero notizie. Dopo qualche giorno, venne trovato il suo corpo nei boschi. E così nel ‘76 diventai vedova con tre figli a carico in mezzo a una guerra che dilaniava il paese. Non fu facile”. Halima si trovò a passare quello che molte donne e molte famiglie passano in tempi di guerra, ma non si perse d’animo. “Dopo l’invasione israeliana il mio paese divenne sotto il controllo dei falangisti di destra. La divisione e l’odio tra cristiani e musulmani era diventata la norma. Ricordo che un giorno rinchiusero la mia famiglia e altre quattro famiglie del Jiyeh in un’unica casa e li trattennero per un po’. Se non fosse stato per l’intervento di alcuni responsabili della zona che avevano conoscenze e che riuscirono a farli rilasciare, sarebbero morti. Si arrivò al punto che venne vietato, l’adhan, il richiamo alla preghiera. Erano condizioni davvero terribili”.
Fino a prima della guerra civile in Libano era la norma sentire adhan e campane risuonare per le strade, spesso all’unisono. Tuttavia, l’ostilità tra le due fazioni era arrivata a tal punto che chi aveva il potere negava agli oppositori un diritto strettamente legato alla fede, dichiarando così una guerra tra religioni. “Data la situazione fui anche fortunata rispetto ad altre donne che avevano perso tutto. Avevo il supporto della mia famiglia, che mi diede una casa dove stare, che si prese cura dei miei figli quando decisi di studiare per cercare lavoro e anche quando dovevo lavorare. Cercavo di mettere da parte dei soldi per permettere ai miei figli di studiare e curarsi. Non essendoci un governo, queste spese non erano coperte. Mio figlio più piccolo aveva l’asma e ogni volta che gli veniva una crisi, metà del mio stipendio lo usavo per le sue cure. Quando accadeva dovevo stringere i denti. Così, oltre al lavoro che trovai in uno studio di architettura, davo ripetizioni, facevo la sarta e lavoravo a maglia. Sono riuscita a crescere tre figli e non fargli mancare nulla”.
Come in ogni guerra, i bambini erano vittime senza colpa. Per loro non c’erano modi per svagarsi: niente giostre, luna park, parchi sicuri o centri commerciali. L’unica valvola di sfogo era l’iscrizione agli Scout che per Fatina sono stati un luogo di formazione e di crescita che l’hanno accompagnata fino a poco prima della sua partenza in Italia.
“La guerra mi ha segnata sicuramente. Quando arrivai in Italia e nacquero i miei figli ricordo che, senza neanche pensarci, li avvertivo sempre: ‘non raccogliete nulla da terra, nemmeno se sono giochi, potrebbero esplodervi in mano’. Le mine antiuomo venivano disseminate ovunque in Libano, anche sotto forma di giochi, per attirare i bambini e per me erano come la caramella dello sconosciuto”.
La normalità di un tempo era stata stravolta. I ragazzi nati negli anni Settanta o poco prima non conobbero mai un momento di pace. Sullo sfondo della loro infanzia, adolescenza ed età adulta, regnava la guerra. Non ci sono ricordi loro che non siano legati a qualche vicenda tumultuosa.
“Ci sono due episodi indelebili nella mia memoria legati alla guerra. Il primo è sicuramente la scomparsa di mio padre. Mi ricordo che quando arrivò la notizia, abitavamo al Jiyeh. Tutti si son messi a urlare e piangere. Mio zio ci mise in macchina e ci portò a casa di mio nonno. Ricordo che mia mamma era disperata e stava urlando e piangendo. Mio fratello maggiore aveva 7 anni e quello più piccolo solo pochi mesi. Mia mamma si diede molto da fare per cercare di darci una vita il più normale possibile in una situazione come quella e ci spinse sempre ad iscriverci agli Scout. La prima volta che mi iscrissi era quando abitavamo a Sidone. Ci eravamo dovuti trasferire a cause dell’invasione israeliana. Avevo 11 anni ed entrai a fare parte di un’organizzazione di Scout, Al Jarah, tra le più antiche che non si appoggiava ad alcun partito o ideologia politica. Ci facevano fare attività sociali e di socializzazione senza farci entrare nei meriti della guerra. Anche Sidone all’epoca era divisa tra Est e Ovest, quindi non c’era la partecipazione di ragazzi cristiani perché non gli era consentito accedere alla zona. A scuola invece eravamo misti”.
Lì, tra le mura scolastiche, l’odio che lacerava la città non contaminava gli spiriti e gli animi dei bambini che vivevano in armonia: “Ricordo che le mie migliori amiche erano cristiane e spesso ci scambiavamo il cibo durante la pausa. Siamo cresciuti musulmani e cristiani assieme. In tutte le scuole che ho frequentato, per fortuna, non esisteva alcuna differenza. Era uno spazio sicuro”. Ma non per tutti i bambini. Chi abitava in città, a Beirut, doveva fare i conti ogni giorno con problemi di vario tipo.
“I miei cugini che andavano a scuola a Beirut ci raccontavano come a volte si trovavano a dover andare a scuola di pomeriggio perché venivano organizzati turni per consentire a tutti gli studenti di avere un’educazione, dato che non tutte le scuole erano accessibili, soprattutto quelle nelle zone degli ‘avversari’. Spesso si ritrovavano a dover saltare la scuola a causa dei bombardamenti e degli scontri armati. Sicuramente non ho vissuto come i bambini di Beirut ma anche noi abbiamo vissuto le mie difficoltà, soprattutto durante l’invasione israeliana”. A causa della guerra ai bambini e ai giovani vennero precluse parecchie opportunità: non era possibile fare le classiche gite scolastiche o partecipare ai programmi di scambio con la Francia e nemmeno spostarsi da casa a scuola in tranquillità.
“In quel periodo per raggiungere la scuola, dovevo percorrere un tratto di strada costeggiato da frutteti dove le macchine non passavano perché era molto pericoloso aggirarsi lì. Ero quindi costretta ad attraversarlo a piedi. Tutti i giorni alle sette del mattino, mi trovavo a camminare di fronte a una pattuglia dell’esercito israeliano. Tutti i giorni, sempre la stessa pattuglia. Al che i soldati, ragazzi che avevano attorno ai 18 anni, iniziarono ad attaccare bottone. Parlavano un arabo stentato, molti di loro erano di origini palestinesi e marocchine. E nonostante fosse una consuetudine giornaliera, ogni volta che passavo di lì avevo una paura tremenda e pensavo al peggio. Il mio cuore batteva a mille”.
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Lavoro realizzato per il secondo corso di “Citizen Journalism: Laboratorio di Autonarrazioni” organizzato da Traparentesi Onlus in collaborazione con l’Associazione Kosmopolis, nell’ambito del progetto Impact Campania, con la partecipazione di Q Code Magazine e della Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma.