Libano, la preghiera dell’assente

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8 Febbraio 2021

Il sangue degli intellettuali, da Kassir a Slim

In sociologia, una diade (dal greco: δυάς – Dyas, “coppia”) è un gruppo di due persone, il più piccolo gruppo sociale possibile. Come un aggettivo, “diadica” descrive la loro interazione.
Diadiche è un progetto che nasce con la volontà, nel formato dell’intervista, di interagire con l’anima in rivolta del Nord Africa e del Medio Oriente. Diadiche, ciclicamente, sarà un confronto con persone comuni che partecipano ai movimenti per la dignità e il cambiamento che non sono cessati nel 2011, anzi, che ne rappresentano lo spirito più forte: si può fare.
Ecco che, protette dall’anonimato quando sarà necessario, senza essere leader o volti e nomi conosciuti, si rintracceranno (per lasciare traccia) voci, vite e storie di persone che non si sono arrese al giudizio dei media e delle analisi d’Occidente. Non era primavera, nel 2011, ma non è rimasto solo inverno oggi. Buona lettura, perché queste persone lottano per le loro idee in contesti difficili e meritano di essere ascoltate.

Questa puntata di Diadiche è diversa dalle altre. Fino a oggi, dall’Algeria all’Iraq, questa rubrica ha sempre raccolto voci ribelli del Nord Africa e del Medio Oriente, che proprio nel decennale delle rivolte arabe sembrano – sulla stampa mainstream – silenti. E invece no.

Vecchie e nuove lotte abitano quella breccia che il 2011 ha irrevocabilmente aperto in un mondo che, dagli anni Settanta in poi, è stato sprofondato in una buia cella, dove la condanna era quella alla sottomissione: o la dittatura o il caos.

Dare voce a chi, ciascuno a modo suo, continua a lottare perché le società civili di tanti paesi riescano a ribellarsi a quello che a volte viene raccontato come un destino è lo scopo di Diadiche, ma questa puntata dedicata al Libano tenta un dialogo impossibile: quello con chi non c’è più.

Ancora Beirut, ancora un’auto, ancora un omicidio. Il 2 giugno 2005 venne colpito Samir Kassir, giornalista, scrittore, docente universitario, con una carica di esplosivo che ha fatto esplodere la sua auto e la sua vita. Il 4 febbraio 2021 è stata la volta di Loqman Slim, editore, animatore assieme alla moglie Monika Borgman, dell’associazione culturale Umam (Nazioni) per la conservazione della memoria collettiva scritta e orale libanese.

Tadmor è un documentario di Slim e Borgman in cui sono raccolte le testimonianze delle vittime della dittatura di Assad rinchiuse nella prigione Tadmor nei pressi di Palmira. È il racconto di un regime infame, ma in fondo parla della condizione di tante persone nella regione, che pagano il prezzo della loro ribellione a un destino claustrofobico.
La stessa claustrofobia, con linguaggi differenti, che raccontava Kassir.

Lo hanno trovato morto, crivellato di pallottole nella sua auto, dopo che non si avevano sue notizie dal giorno prima. Ancora Beirut, ancora un’auto, ancora un omicidio. Per Samir Kassir non ci sono ancora dei colpevoli. Per Slim vedremo, ma le sensazioni sono molto cupe.

Slim, in questi anni, ha sempre preso posizione per una società multiculturale capace di superare il confessionalismo armato nel quale il Libano è sprofondato dopo la guerra civile del 1975 – 1990. Negli ultimi due anni, tanti libanesi sono scesi in piazza, anche durante la pandemia, per chiedere una società capace di farti sentire cittadino e non parte di una fazione, di un gruppo, gli uni contro gli altri armati.

Loqman Slim

Ogni gruppo con i suoi martiri, i suoi padrini nazionali e internazionali, dove alcune famiglie sono diventate partiti, dove la politica è affare di famiglia, clientela, nascita. Una generazione di ragazze e ragazzi, invece, in piazza, chiede di essere semplicemente libanese.

Il Libano è al collasso: la sanità, il lavoro, l’economia, la politica. Uno sfascio che, ciclicamente, sanguina. Con le autobombe, oppure con una guerra come quella del 2006, quando l’esercito israeliano tornò a bombardare con ferocia, oppure con drammi collettivi, come la devastante esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020, il Libano è ancora una terra di intrighi e inganni, per i quali nessuno è mai colpevole.

Slim era considerato un fiero oppositore del partito Hezbollah, sostenuto dall’Iran, coinvolto nella guerra in Siria e nel conflitto israelo-palestinese. Ma le altre formazioni confessionali non hanno metodi differenti da quelli del partito di Dio, la costante è sempre una: mettere a tacere le voci libere, quelle che – armate solo di penne e fogli – diventano i portavoce di tutti e nessuno, che non si affiliano, che non si arruolano.

Un articolo di Pierre Haski, per France Inter, lo racconta così: “Ma soprattutto Lokman Slim era uno sciita che viveva in un quartiere ritenuto un feudo di Hezbollah, l’organizzazione filoiraniana da lui ferocemente criticata.” E con tutto il rispetto, questa narrazione è parte del problema, perché la sua visione, il suo racconto, la sua denuncia è l’opposto di questa definizione, che suona come una sorta di ‘distanza’ dalla tua tribù. Voci come quella di Slim e di altri, invece, hanno proprio nella capacità di pensare senza appartenenze il loro senso.

Sono considerate le più pericolose, queste voci, Kassir ieri, Slim oggi, domani chi? E quando ci sarà, per il Libano e per molti altri luoghi, un domani sicuro per queste voci?

Nel loro ultimo articolo, pubblicato dal quotidiano francofono di Beirut, L’Orient-le-Jour, Lokman Slim e sua moglie, commentavano le peripezie politiche del Libano, chiudendo con una domanda: “E ora dove andiamo?”. Gli assassini hanno risposto, ma quando sapremo rispondere noi, tutti noi delle società civili altre?

I funerali di Samir Kassir

Quando la stampa europea avrà la capacità di dare spazio a queste voci, per raccontare la complessità di un mondo che, a volte, sembriamo stanchi di voler capire, essendo così semplice arrendersi al fatto che, in certe zone del mondo, la democrazia è un bene troppo oneroso, come alcuni beni di consumo occidentali.

Samir Kassir, con il suo L’infelicità araba, è stato capace come nessun altro di raccontare una solitudine, quella dell’intellettuale, che nella sua società lotta contro il confessionalismo, ma è anche contrario al colonialismo, nelle sue forme antiche e contemporanee.

Dopo la preghiera solenne del venerdì, in moschea, capita che qualcuno domandi di pregare per l’anima di un corpo sparito, un corpo che non è stato ritrovato o non è presente. È una preghiera breve, la preghiera dell’assente, il titolo di un bel libro di Tahar Ben Jelloun.

La preghiera dell’assente, per credenti e laici, in Libano e altrove, è quella per la figura del dissidente, intellettuale o meno. E’ la preghiera per tutti coloro che non si arruolano in un mondo dove essere schierato sembra l’unico modo di sopravvivere. Kassir ieri, Slim oggi, e mille altri in mille posti diversi, dal Marocco al Golfo Persico.

La preghiera dell’assente è per loro, non perché non ci siano, anzi, ma perché sono scomparsi dal racconto in Europa e in America. L’assente è la loro voce, non perché non esiste, ma perché viene raccontata solo quando ha smesso di parlare.