L’Iraq ai tempi del Covid-19: quale futuro per la rentier economy?

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8 Maggio 2020

“Siete voi il vero virus” si leggeva a metà marzo in piazza Tahrir, a Baghdad, su uno striscione esposto durante una delle ultime manifestazioni possibili prima che il lockdown venisse applicato anche in Iraq, così come in quasi tutti i paesi del mondo, come misura di contenimento della pandemia Covid-19. Quel “siete voi” generico era rivolto alla classe politica, in linea con quanto ribadito con dimostrazioni di piazza da decine di migliaia di iracheni sin dal 1 Ottobre dello scorso anno.

E’ indubbio che il Covid-19 stia colpendo negativamente anche l’Iraq. In primo luogo, ciò è vero non solo in termini di persone infette e decedute – ad oggi 2,480 le prime, 102 le seconde, numeri relativamente bassi rispetto ai paesi più colpiti, nonostante la prossimità territoriale con l’Iran, il paese che in Medio Oriente riporta il maggior numero di casi – ma lo è ancora di più considerando una situazione generale di vulnerabilità che coinvolge in particolar modo i circa 1,7 milioni tra rifugiati e sfollati interni, le cui condizioni di vita in campi formali e informali rende particolarmente difficile l’osservanza di misure di distanziamento sociale.

Tuttavia e purtroppo, condizioni generali di precarietà si applicano anche a diversi strati della società, rendendo ancora più evidente il fatto che i problemi dell’Iraq erano e rimangono altri.

Semmai, l’attuale pandemia sta fungendo da acceleratore per ingrandirli ulteriormente, a tal punto da mettere seriamente a rischio la tenuta dell’intero sistema economico e statale su cui si regge l’Iraq. Ovvero il modello di rentier state che dal 2003 in poi e’ reso possibile dal sistema della muhasasa, termine arabo con il quale in Iraq si definisce il “controllo e la redistribuzione del potere e delle risorse dello stato attraverso una proporzionale ripartizione tra partiti su base etnico-settaria”.

Già prima dell’arrivo del Covid-19 la situazione generale nel Paese era lungi dall’essere stabile. Dallo scorso ottobre era in corso la crisi più grave che il governo (nello specifico) e l’intera classe politica (in generale) abbiano mai affrontato dalla caduta del regime di Saddam Hussein nell’aprile del 2003. Attraverso una partecipazione di massa senza precedenti la popolazione irachena era tornata a protestare contro la corruzione dilagante, il sistema settario, diseguaglianze sociali, disoccupazione e  povertà, mancanza di servizi di base e per il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali. Proteste alle quali le forze di sicurezza governative e paramilitari legate ad alcuni partiti politici hanno risposto duramente, provocando la morte di quasi 700 persone e decine di migliaia tra feriti, arresti, sparizioni forzate.

Proteste che erano continuate nonostante nel frattempo si fossero aggiunte anche le rinnovate tensioni tra Stati Uniti e Iran , le quali hanno riportato in maniera ancora più evidente quanto l’Iraq sia dipendente dalle relazioni tra i due suoi principali alleati e partner politico-commerciali. Tutto questo in una situazione generale in cui cellule dello Stato Islamico persistono ed operano pericolosamente ancora in diverse zone del Paese, la ricostruzione post-conflitto procede a singhiozzo nelle aree liberate e anche nella regione semi-autonoma del Kurdistan iracheno (KR-I) i conflitti politici infra-curdi non mancano e dove la Turchia continua regolarmente a violare la sovranità territoriale irachena con attacchi aerei rivolti contro le roccaforti del PKK, ma che non di rado colpiscono anche la popolazione civile locale.

E’ evidente dunque che il Covid-19 non poteva arrivare in un momento peggiore. Con gli effetti della pandemia (insieme anche a dispute politiche tra Arabia Saudita e Russia) che hanno gia’ portato i prezzi del petrolio ai minimi storici, l’Iraq subisce le inevitabili conseguenze sulle proprie entrate statali, le quali dipendono per oltre il 90% dall’oro nero.

Secondo la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, per Baghdad questo significa perdite nette di almeno il 70% delle entrate previste per il 2020, che soltanto per il mese di marzo equivalgono a 3,3 miliardi di dollari in meno, una contrazione del PIL di almeno 5 punti e una crescita del debito pubblico fino al 90% della ricchezza totale del Paese. Numeri che nelle prossime settimane andranno peggiorando, dato che i prezzi del petrolio non sono destinati ad una ripresa consistente (che nel caso dell’Iraq dovrebbe significare almeno 50$ al barile, dato che a 56 era stato basato il bilancio di quest’anno) e soprattutto se aumentassero le perdite giornaliere per lo stato di circa 120 milioni di dollari, come affermato recentemente da un consigliere finanziario dell’ufficio del Primo Ministro.

Per capire come la situazione attuale non rappresenti soltanto un problema – grave – di natura fiscale è importante sottolineare almeno tre elementi.

Il primo è legato alla struttura tipica di una rentier economy come l’Iraq, ovvero di uno stato che “vive di rendita” e con un settore pubblico che accoglie circa 70% del totale della forza lavoro. Ricordando che il 23,5% della popolazione irachena vive sotto la soglie di povertà e che la mancanza di lavoro e prospettive è al centro delle manifestazioni di piazza, è difficile non prevedere ulteriori pressioni su un governo che al di là dell’utilizzo della forza ha sempre risposto espandendo il settore pubblico per “comprare legittimita” e “calmare gli animi”.

Una strategia che se sotto la dittatura di Saddam Hussein poteva essere definito “semplice” clientelismo e riconducibile ad un singolo centro di potere, negli ultimi 17 anni si è declinata attraverso i diversi partiti politici organizzati su base etnico-settaria. La muhasasa, per l’appunto, un sistema di regole non scritte nella costituzione ne’ in alcuna altra legge, ma che sin dai primi anni ’90 fu ideata e sviluppata da gruppi di opposizione al regime e sostenuta, tra gli altri, dai governi di Stati Uniti e Gran Bretagna, secondo cui il potere politico e le risorse statali devono essere amministrate e redistribuite tra i principali gruppi etnici e confessionali – Sciiti, Sunniti e Curdi.

In secondo luogo, il rovescio della medaglia di un settore pubblico così ingombrante corrisponde all’esistenza di un settore privato quantomeno sottosviluppato. Ciononostante, sono circa 4 milioni le persone che, escluse dal settore pubblico e principalmente giovani tra i 18 e 35 anni, si affidano al privato per generare reddito, tuttavia in condizioni precarie che riversano per lo più nell’informalità.

Oltre all’assenza di standard minimi di sicurezza e protezione sociale, lavorare nel settore privato in Iraq significa navigare in un ecosistema economico sfavorevole anche a livello finanziario, di servizi di supporto e di scarse opportunità per operare in modo competitivo, soprattutto alla luce del fatto che – come spesso accade nelle rentier economies – il Paese dipende fortemente da importazioni poco costose e produce poco o niente internamente.

E’ logica conseguenza dunque l’impatto deleterio che hanno avuto su migliaia di lavoratori, commercianti e artigiani le misure di confinamento per evitare la diffusione del Covid-19.

Il terzo elemento ha a che fare con l’attuale deficit di leadership e prospettive politiche. Dopo le dimissioni del premier Adel Abdul Mahdi lo scorso 29 Novembre, la formazione di un nuovo governo era fallita già in due occasioni, con i premier designati Mohammed Tawfiq Allawi e Adnan Zurfi che non erano riusciti ad ottenere una maggioranza di governo e che hanno messo a nudo le innumerevoli divisioni tra i partiti politici e i blocchi etno-settari che costituiscono la muhasasa. La svolta infine è arrivata soltanto nella serata di mercoledì 6 maggio, con il terzo candidato premier, Mustafa al-Khadimi, incaricato dal presidente della Repubblica Barham Salih lo scorso 10 Aprile, che ha ricevuto il voto fiducia dal Parlamento per 15 dei 22 ministri proposti.

Numeri non proprio incoraggianti, questi ultimi, che confermano le diverse difficoltà riscontrate anche da al-Khadimi, confermate anche ieri sera dal ritardo di quasi due ore per l’inizio della seduta parlamentare, a quanto pare causato da continui dissidi tra i partiti che si sono infine riflettuti nel mancato accordo sui nomi a cui affidare ministeri chiave quali, ad esempio, il Petrolio e le Risorse Naturali, la Giustizia e soprattutto gli Affari Esteri.

Un compito non facile, quello che aspetta Khadimi, il cui discorso pronunciato di fronte al Parlamento subito dopo il voto ha individuato le priorità del nuovo governo “nella lotta alla pandemia e nella ricerca dei responsabili delle centinaia di vittime tra i manifestanti dei mesi scorsi”, riconoscendo che il paese “sta attraversando una fase molto critica della sua storia”.  Compito aggravato ulteriormente anche dalle rinnovate tensioni tra il governo regionale curdo e Baghdad a proposito degli accordi tra le due parti circa la quota del budget federale spettante ad Erbil. Tensioni non nuove e che risalgono alla decisione del 2006 del KR-I di esportare petrolio indipendentemente (attraverso e con il supporto logistico e politico della Turchia) da Baghdad.

Attraverso vari alti e bassi di conflittualità, nell’ambito dei negoziati per superare l’ “impasse” politico post-referendum sull’indipendenza curda del 2017 si era giunti ad un compromesso secondo il quale il governo del KR-I avrebbe dovuto corrispondere un certo quantitativo di petrolio proporzionale alla quota di budget federale annuale, da specificare di anno in anno. Per il 2019 e per il 2020, l’accordo prevedeva che a fronte di un 12.67% di share del bilancio iracheno la regione curda avrebbe dovuto inviare 250,000 barili al giorno di petrolio a Baghdad. Tuttavia, se ciò si è realizzato già a fatica nel 2019, quest’anno, alla luce dell’attuale crisi budgetaria, il 16 aprile l’ex-primo ministro reggente Abdul Mahdi ha ordinato al Ministero delle Finanze di sospendere l’erogazione dei fondi verso il KR-I – fondamentali per attuare gli obblighi finanziari del governo curdo, in primis il pagamento dei salari dei dipendenti pubblici – e addirittura di richiedere indietro quanto gia’ ricevuto, data la continua inadempienza da parte di Erbil nella condivisione della produzione petrolifera con il governo centrale.

Ma a prescindere dalle capacità del nuovo governo di districarsi tra le tante e problematiche questioni in ballo, ciò che sembra evidente a diversi analisti ed esperti – come emerso in una recente conferenza virtuale organizzata dall’Universita’ Americana di Sulaymaniyah – è la mancanza di consapevolezza nell’intera classe politica irachena che per affrontare la gravissima crisi multiforme che il Paese sta vivendo occorrano strategie ed azioni che inneschino trasformazioni politiche, sociali, culturali ed economiche profonde.

Secondo quanto emerge dagli ambienti ufficiali, possibili soluzioni vertono sul fare affidamento nuovamente alle istituzioni internazionali e aiuti umanitari di agenzie ONU e governi esterni, i quali tuttavia stanno già investendo massicciamente dal 2014 e che in una situazione generale di crisi mondiale starebbero principalmente offrendo la possibilità di riconvertire i programmi esistenti in misure adeguate a rispondere alle crisi attuali e agli effetti causati della pandemia. Nel caso di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, inoltre, la possibilità di nuovi prestiti implicherebbe ulteriori condizionalità di diversificazione economica a cui l’Iraq ritarda già da anni nell’adempiere.

Una simile strategia tuttavia non sembra considerare il fatto che i mancati pagamenti dei salari dei dipendenti pubblici di marzo, aprile e molto probabilmente anche maggio potrebbero aggiungere nuova linfa alle proteste di piazza.

Queste potrebbero rinvigorirsi non solo di gruppi sociali che fino ad ora erano stati meno presenti, ma anche di motivazioni ancor più forti da parte di chi in piazza c’è sin dall’inizio, anche perchè dei morti, feriti, rapiti e arrestati nulla è stato fatto in termini di giustizia.

In conclusione, l’Iraq di oggi, che rimane il quarto produttore al mondo di petrolio, si ritrova a un bivio. Cercare soluzioni nel passato oppure guardare al futuro, partendo dal suo capitale umano – il Paese rimane una delle popolazioni più giovani e con uno dei tassi demografici più alti al mondo – che soltanto negli ultimi mesi ha dimostrato di poter dare il suo contributo a più riprese e in diversi ambiti (1, 2, 3). In alternativa, il credere “che prima o poi il prezzo del petrolio risalirà e che si potrà tornare al business as usual” è una “strategia” estremamente fragile, ed insistervi potrebbe condurre l’Iraq verso scenari imprevedibili e ancor più rischiosi rispetto al passato.