L’omicidio di Abba, dieci anni dopo

di

14 Settembre 2018

Non lo conoscevo, ma mi ricordo bene la notte in cui Abba è stato ucciso. Avevo 19 anni proprio come lui. Era una calda serata di settembre, con un gruppo di amici tornavamo dal Milano Film Festival, quando ancora gli stand erano alloggiati nei fossati del Castello Sforzesco, ci trovavamo in piazza Brera.

Quella che per me era, ed è tuttora, una sorella riceve una telefonata, si allontana e dopo pochi minuti torna singhiozzando: “Abba è morto, lo hanno ucciso”. Incredulità, sconforto, rabbia, poi piano piano riprendiamo fiato e cominciamo a mettere insieme i frammenti di una storia che allora ci sembrava impossibile.

Abdoul Guiebre, per tutti Abba, era un ragazzo originario del Burkina Faso, nato in Italia, cittadino italiano e residente a Cernusco sul Naviglio, un paese tranquillo e benestante dell’hinterland milanese. E’ stato ucciso la notte del 14 settembre 2008 in via Zuretti a due passi dalla stazione Centrale di Milano.

In una sera di fine estate era andato con alcuni amici a ballare e divertirsi in discoteca, alla chiusura decide di non tornare a casa ma di continuare la serata al Leoncavallo, dove la musica sarebbe andata avanti fino alla mattina. Però al Leoncavallo Abba non ci arrivò mai, fu ucciso per strada. Le effettive cause dell’omicidio non sono mai state chiarite. Pare che lui i suoi amici entrarono nel bar Shining e fecero una cazzata: afferrarono una scatola di biscotti e scapparono via.

I baristi, padre e figlio, che stavano scaricando un furgone li vedono, senza pensarci due volte li inseguono, riescono a agguantare Abba e lo pestano a sangue con delle spranghe al grido – dieci anni dopo fin troppo familiare – di “sporco negro”, poi chiudono la saracinesca e se ne vanno. Quello che sappiamo per certo è che Abba rimase a terra sull’asfalto, perdeva sangue dalla testa. Arriva un’ambulanza ma è troppo tardi, è in corso un’emorragia cranica, Abba muore poche ore dopo al Fatebenefratelli di Milano.

I responsabili vengono subito fermati e identificati, si tratta di Fausto e Daniele Cristofoli, padre e figlio. Non negano di aver pestato il giovane, la loro strategia difensiva s’incentra fin da subito nel negare la matrice razzista delle loro azioni. Hanno aggredito Abba perché colpevole del furto di alcune confezioni di biscotti e inizialmente credevano anche di una parte degli incassi. Secondo questa ricostruzione si è trattato di legittima difesa, Abba e i suoi amici avrebbero avuto una mazza da baseball, che però non è mai stata ritrovata.

Secondo Bolchini, avvocato difensore dei Cristofoli: “Il razzismo è fuori discussione, non c’entra nulla. Si tratta di un episodio certamente sciagurato e tragico che sarebbe successo ugualmente se il ragazzo non fosse stato di colore.” Come spiegare allora gli insulti “sporco negro”, “ladro di merda”, “ti ammazziamo negro di merda” ripresi dalle telecamere installate sulla strada? Come spiegare che nel 2008 a Milano un pacco di biscotti vale la vita di un ragazzo di colore?

 

 

A parole la condanna dal mondo politico è unanime. Letizia Moratti, allora sindaco di Milano per la Casa delle Libertà, condanna “l’intolleranza e il razzismo” che si celano dietro il fatto di cronaca; il vicesindaco della città e assessore alla sicurezza Riccardo De Corato parla di un “episodio barbaro e sconcertante”. Il presidente della provincia, Filippo Penati, addita irrisolti problemi di sicurezza pubblica. Anche a livello nazionale piovono dichiarazioni: il presidente del Senato, Renato Schifani, esprime “sconcerto e indignazione”, l’UDC denuncia il clima di “intolleranza diffusa”, la sinistra parla di “clima d’odio” e rabbia per questo “mostruoso episodio di razzismo”.

La Lega invece pur condannando la violenza rifiuta la sua “strumentalizzazione” e auspica politiche tese ad incrementare la sicurezza dei cittadini. Il PRC con un gesto simbolico depone fiori sul luogo dell’omicidio. Seppure per pochi giorni, il dibattito politico s’infiamma, tre sono i temi caldi: la sicurezza, il razzismo e i biscotti. Secondo alcune importanti testate giornalistiche bisogna prima di tutto fare chiarezza sui fatti, e capire se gli snacks siano stati effettivamente rubati. In televisione si urla, io ricordo solo il silenzio e l’incredulità.

I tasselli di un dolore pubblico e intimo, estraneo e vicino, personale e politico s’incastrano come in un puzzle. C’è la rabbia per il razzismo e l’intolleranza che dilagano nella mia città, alimentati dalle politiche securitarie e di criminalizzazione dei migranti varate dagli stessi politici che condannano i Cristofoli, ma sono colpevoli di averne plasmato l’immaginazione xenofoba e paranoica.

C’è il dolore umano di fronte alla morte, specie se violenta, prematura ed insensata. E poi c’è il velo negli occhi e la voce rotta di chi Abba lo conosceva e gli voleva bene. Milano è piccola e la periferia ancora di più. Scopro che avevamo tante conoscenze in comune, i miei amici di adesso erano stati i suoi compagni di classe alle medie. Il loro dolore rimbomba tutto attorno e amplifica il mio.

Lunedì sera c’è un primo incontro pubblico, una fiaccolata a Cernusco sul Naviglio. Partecipo con i miei genitori, gli amici di una vita e le loro famiglie, c’è tanta altra gente, siamo un migliaio. E’ il momento del dolore, in tanti si stringono intorno alla famiglia che chiede giustizia per un figlio morto ammazzato.

Pochi giorni dopo ci sono i funerali, migliaia di persone si ritrovano nell’auditorium di Cernusco sul Naviglio. Ricordo i fiori, i canti in arabo, le lacrime trattenute a stento, i “santini” con la foto di Abba, canottiera bianca, sorriso abbagliante e occhi felici. Fin da subito il dolore si accompagna alla rabbia. Già durante la fiaccolata cominciava, sommessamente, a farsi largo uno slogan che ripeteremo senza sosta nei giorni a venire: “Il razzismo uccide. E’ questa la vostra sicurezza?”.
Tanti cominciano a mobilitarsi, ed io mi ritrovo coinvolta in turbinio di eventi.

Ci riuniamo nella biblioteca del paese. Ci sono gli amici di Abba, i compagni di scuola, chi aveva giocato a calcio con lui nella squadra di calcio del paese, chi condivideva la sua passione per l’hip hop e si ritrovava il sabato pomeriggio al Muretto di San Babila per fare break dance e free style, partecipano attivisti di diverse realtà politiche e di associazioni, cittadini che non riescono a guardare dall’altra parte. Fondiamo un comitato, “ABBA VIVE, PER NON DIMENTICARE ABBA E PER FERMARE IL RAZZISMO”.

Viene indetta una manifestazione. All’appello aderiscono collettivi studenteschi e universitari, artisti e personaggi dello spettacolo, docenti universitari, centri sociali, librerie e case editrici, gruppi antifascisti. Sabato 20 settembre in piazza Venezia saremo ancora di più, tanti cittadini di tutte le età, anziani e bambini, studenti, militanti, comunità immigrate, ragazzi delle cosiddette “seconde generazioni”, il mondo dell’associazionismo, si vedono bandiere dei sindacati e dei partiti politici di sinistra, arrivano pullman da altre città italiane… Fu un successo, eravamo più di 10.000 persone. La massiccia e trasversale partecipazione al corteo dimostra quanto Milano, e l’Italia intera, fosse scossa e indignata per la morte di Abba. In tantissimi marciammo per dire no al razzismo.

Sfogliando i giornali dell’epoca leggo di disordini e scontri con la polizia, ma sono sicura che chi era tra la folla conserva un’immagine completamente diversa di quel pomeriggio, più simile alla mia. Ricordo la famiglia di Abba che sfilava in prima fila dietro uno striscione che diceva “Perché non succeda più. No al razzismo”, persone coraggiose che nel dolore mantennero la forza per rivendicare giustizia, per il figlio e per chiunque sognava un mondo dove il colore della pelle non facesse più la differenza.

Poi c’erano gli amici, un gruppo di ragazzi, quasi tutti di colore, con rabbia ed energia da vendere che saltavano e gridavano “Abba vive” senza sosta. I cartelli recitavano “Siamo tutti Abba” e “Stop razzismo”, tanti manifestanti lanciavano con sdegno biscotti e arrivammo presto in Piazza del Duomo. Non ascoltai nessuno degli interventi perché giravo senza sosta a parlare con tutti, distribuire i volantini del Comitato e scattare fotografie per documentare gli eventi. In seguito vidi le dichiarazioni di una delle sorelle di Abba che parlava del suo dolore e del razzismo, di come da un giorno all’altro, era stata costretta ad “accorgersi di essere negra”. C’era tanta tristezza ma era un momento magico, di quelli in cui le emozioni dei singoli si sommano e creano qualcosa di nuovo e migliore, la speranza delle lotte che rinasce tra le lacrime e i sorrisi, in un’atmosfera complice di fratellanza e sorellanza tra sconosciuti.

Quel giorno fu come un risveglio. La mia generazione scoprì che la città era meticcia e interculturale, che gli stranieri erano tanti e da tempo vivevano insieme a noi, persone a tutto tondo ben diverse dall’immagine del clandestino tratteggiata in televisione.

Erano i bambini nelle scuole, le badanti che accudivano le nostre nonne, i lavoratori mal pagati dell’agricoltura, della logistica e dei servizi, giovani scappati da guerra e miseria in cerca di un futuro migliore, ragazzi della nostra età con i nostri stessi sogni, cresciuti in Italia ma considerati stranieri.

La mescolanza di vite, culture, tradizioni e sapori era iniziata prima ancora che ce ne rendessimo conto e le trovassimo un nome.
Improvvisamente qualcosa succede, tanti ragazzi iniziano a correre in direzione nord, tra le vie del centro, verso la Stazione Centrale, mi trovo tra di loro e decido di seguirli con qualche amico e amica del mio collettivo. La strada non è così breve e si alterna marcia veloce e corsa, la polizia ci segue un po’ da lontano, prima davanti, poi dietro, poi ancora davanti. All’epoca credevo che fossimo riusciti a disorientarli, adesso sono abbastanza sicura che avessero deciso di lasciarci fare.

Arriviamo in via Zuretti che è completamente militarizzata, blindati militari e almeno un centinaio di poliziotti in assetto antisommossa, la tensione è palpabile ma la rabbia e il bisogno di gridare giustizia sono ancora più potenti. Dopo un tempo che sembra lunghissimo arriva il resto del corteo, abbraccio i miei amici, anche loro un po’ preoccupati dalla nostra improvvisata avanzata.

Dopo una contrattazione con le forze dell’ordine due amici e uno zio di Abba vengono autorizzati a superare i cordoni della polizia e depositare simbolicamente dei biscotti davanti al bar dei Cristofoli, uno di loro si inginocchia per pregare. Di fronte alle telecamere dicono: “Il nostro sangue è uguale a quello dei bianchi. Abba era un ragazzo gentile, che è cresciuto con noi. Pensate cosa sarebbe successo se un nero avesse ucciso un bianco di 19 anni”. Rimaniamo in via Zuretti a lungo, poi lentamente il corteo si scioglie.

L’energia del Comitato non si esaurì in quella giornata. Per molti anni a Cernusco si sono svolte iniziative per ricordare Abba e per creare – quelli che abbiamo sempre amato chiamare – “anticorpi” al razzismo, al fascismo, all’intolleranza e alla paura. Le jam hip-hop, i murales, i banchetti in piazza, attività formative nelle scuole e con i bambini, le cene interculturali.

Ci incontravamo nella sede di Africa 80, un’associazione del posto. Con il tempo, al Centro Sociale Cantiere, viene fondata una scuola di italiano per stranieri intitolata ad “Abba Abdoul Guiebre”. Nel 2014 il Milano Film Festival istituisce il “Premio ABBA”. Tutti gli anni, in concomitanza del 14 settembre, si organizza un grande evento pubblico. Quest’anno è stata indetta una manifestazione cittadina per il 22 settembre, preceduta da un festival all’Arco della Pace dove tra dibattiti, tornei sportivi, musica ed editoria indipendente si parlerà di antirazzismo e antifascismo, “con Abba nel cuore”.

 

 

Dopo 10 anni continuiamo a lottare per fermare il razzismo e per chiedere giustizia. Nel luglio 2009 i Cristofoli, sono stati processati con rito abbreviato, condannati a 15 anni e 4 mesi di detenzione e a versare un risarcimento di 100.000 euro alla famiglia per “concorso in omicidio volontario”. Inizialmente venne validata l’aggravante per “futili e abietti motivi”, in seguito negata dalla Cassazione nel 2012.

Nel tentativo di ridimensionare la gravità del reato, in quest’ultima sentenza si parla della “componente psichica soggettiva che indusse i Cristofoli, persone di non elevata cultura, reduci da una pesante notte di lavoro e pronti a continuare la loro attività nel bar, a reagire, seppur del tutto sproporzionatamente sul piano oggettivo, al piccolo furto commesso ai loro danni dai giovani stranieri al culmine di una notte di pellegrinanti evasioni che li rese particolarmente disinibiti e scanzonati al cospetto degli affaticati e suscettibili derubati”. Solo nel 2014, nel corso della quinta sessione della Cassazione, l’aggravante verrà reintrodotta e la riduzione della pena negata. L’aggravante razzista invece non verrà mai riconosciuta da alcun tribunale.

Eppure fu proprio il razzismo insito nel comportamento efferato e brutale degli assassini a fare della vicenda di Abba una cassa di risonanza per gli eventi a seguire. Chi ucciderebbe due ragazzini per una bravata del genere? Nessuno a meno che i ragazzi non abbiano la pelle nera, allora la loro umanità perde consistenza e una caratteristica fisica diventa il simbolo del loro essere diversi, inferiori, una minaccia, degli sporchi negri, degli animali.

La morte di Abba segnò un punto di svolta nell’immaginario di tanti cittadini, così come nei discorsi e nelle pratiche dei movimenti sociali. Per noi era la prima volta che un ragazzo moriva di razzismo, la prima volta che il colore della pelle diventava ragione di vita o di morte. Le storie dei ghetti e della brutale violenza contro i neri ci arrivavano dagli Stati Uniti, filtrate dai ritmi dell’hip hop; conoscevamo il razzismo ma non lo percepivamo come un problema nostrano. Per tanto tempo l’Italia ha potuto fingere che di tanti mali, almeno questo non le appartenesse, dopo l’omicidio di Abba non fu più possibile.

Oggi più che mai ha senso riflettere su come siamo giunti a questo punto, superando ogni limite e sprofondando in un abisso colmo di odio e disumanità. Un elemento determinante nel plasmare l’opinione pubblica e guidarla verso sentimenti “anti-immigrato” fu l’istituzione – nel 1998 all’interno della legge Turco-Napolitano – dei Centri di Permanenza Temporanea (CPT), rinominati in seguito Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE). Queste strutture avevano come scopo contrastare l’arrivo e la permanenza in Italia degli immigrati irregolari che, una volta scoperti, venivano rinchiusi e poi accompagnati alla frontiera. La loro realtà di luoghi detentivi e punitivi venne denunciata da molti, primo fra tutti Fabrizio Gatti.

Le documentate vessazioni, violenze fisiche, restrizioni alla libertà personali e violazioni dei diritti umani portarono a grandi mobilitazioni, vanificate dall’insediamento del governo Berlusconi e da una nuova legge in materia di immigrazione. Nel 2002 la Bossi-Fini rafforzò questo sistema di espulsioni coatte, estendendo in modo abnorme gli strumenti (economici e militari) per la gestione repressiva dell’immigrazione irregolare. Questo sistema para-carcerario, la criminalizzazione dell’immigrato, l’introduzione del cosiddetto “reato di clandestinità” giocarono un ruolo fondamentale nell’alimentare la paura per il diverso, la contrapposizione tra un “noi” da difendere e un “loro” da cui difendersi.

In poco tempo la retorica della paura prese il sopravvento e si dilagò a macchia d’olio, alimentata, più che contrastata, a colpi di decreti. Nel 2007 e nel 2008 due ordinanze in materia di sicurezza invocano misure sempre più repressive contro gli immigrati, i rom, i senzatetto e gli indigenti, i giovani che bivaccano per strada, i movimenti sociali. A Milano si chiusero spazi sociali, si transennarono parchi e si impose la chiusura dei kebabbari a mezzanotte al fine di rendere le strade più sicure. I media mainstream e la politica alimentarono un’intolleranza viscerale, diventata ormai costitutiva della mentalità italiana.

Non è un caso che uno degli slogan del corteo fosse proprio “E’ questa la vostra sicurezza?”. Non è un caso che il padre di Abba, si riferisca proprio a questo tema, ribaltandolo e svelando con semplicità e chiarezza chi sono davvero le vittime e chi i carnefici, chiedendo funerali pubblici per il figlio, dicendo di volerli trasformare in una manifestazione sulla sicurezza: “Perché Milano non è una città sicura se dei ragazzi di diciannove anni vengono abbattuti come animali. Bianchi o neri non importa, quello che importa è che in questa città si possa vivere. Chiedo allo Stato, a Berlusconi, a Bossi di spiegare agli italiani che gli stranieri non sono delinquenti, perché qualcuno fa presto a prendersela con noi.”

E’ in questo clima che l’omicidio di Abba si verifica, e da allora il limite dell’accettabile si è spostato sempre più a destra. Ogni giorno di più comportamenti razzisti ed escludenti vengono giustificati e normalizzati in nome della salvaguardia del popolo italiano, delle sue tradizioni e del suo benessere. Da quando Salvini è Ministro degli Interni 12 sparatorie, 2 assassini e 33 atti di violenza fisica sono stati registrati ai danni di persone di colore.

A luglio una bambina rom di 13 mesi è stata colpita da un proiettile di gomma da un uomo che dice di aver voluto provare il suo giocattolo nuovo. Nello stesso mese Daisy Osakue, atleta italiana di origine nigeriana, viene aggredita a Torino. L’11 luglio Ibrahim Manneh, ivoriano, muore di peritonite a Napoli perché gli viene sistematicamente rifiutata assistenza medica. L’11 giugno 2018 Daby e Sekou, titolari di protezione internazionale, provenienti dal Mali, vengono colpiti da una pistola ad aria compressa al grido di “Salvini! Salvini!”. Il primo giugno Soumalia Sacko, sindacalista maliano per i braccianti agricoli, viene ucciso a Rosarno mentre rimediava dei materiali di recupero in un sito abbandonato. Il 3 febbraio a Macerata Wilson, Omar, Jennifer, Gideon, Mahamadou e Festus vengono feriti da Luca Traini che spara dalla sua macchina contro la folla. Il 5 marzo Idy Diene, senegalese, viene ucciso da Roberto Pirrone, l’assassino disse di aver scelto un bersaglio a caso. A Fermo il 5 luglio 2016 Emmanuel, nigeriano, viene ucciso per non aver taciuto di fronte alle aggressioni verbali rivolte alla sua compagna. Nel 2011 Modou e Mor, senegalesi, vengono uccisi a Firenze da un militante di CasaPound.

Lunaria nel suo Quarto Libro Bianco sul Razzismo in Italia parla di un razzismo “ordinario, legittimato e persino ostentato”, accettato ed accettabile nel dibattito pubblico. La retorica della paura, le strumentalizzazioni politiche, l’informazione scorretta, l’assimilazione tra migranti, profughi e terroristi, le discriminazioni istituzionali, la delegittimazione della solidarietà non fanno che favorire sempre nuove ondate di xenofobia, alimentando la violenza razzista spontanea e popolare. Purtroppo, come recita il comunicato facebook per il corteo del 22 settembre prossimo, “la storia di Abba è solo un piccolo pezzo di questa storia, un pezzo grande come una vita”.

Dieci anni dopo il razzismo dilaga nella società italiana e il volto di Abba si sovrappone a quello di tanti altri, di cui quasi non ricordiamo più i nomi. E’ importante invece che queste storie continuino ad essere ascoltate e che le vittime del razzismo continuino ad essere ricordate. Ne abbiamo bisogno per contrastare la crescente egemonia dei discorsi razzisti e intolleranti e per neutralizzare la “narrazione tossica” sull’immigrazione che i nostri politici vorrebbero imporci. Perché ogni storia, per essere compresa, ha bisogno di essere raccontata da diversi punti di vista.