Macao, la Cina e le regole patriottiche

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5 Aprile 2021

Come Hong Kong, l’ex colonia portoghese conosce una stretta sul pluralismo

La settimana scorsa, nel pieno della recentissima battaglia a colpi di sanzioni tra Unione Europea e Cina, arrivavano sui giornali del Portogallo notizie preoccupanti dalla remota ex colonia di Macao.

La redazione di lingua portoghese della radiotelevisione pubblica locale era stata convocata per una riunione in cui la direzione avrebbe comunicato che quel canale televisivo era un organo di diffusione delle informazioni del governo e che valorizzava l’amor patrio, probabilmente lo stesso amore che in questo momento attanaglia Hong Kong nell’abbraccio che sappiamo.

In sostanza si trattava di un regolamento non scritto ma assai preciso, articolato in nove punti, incluso quello che prevede il licenziamento per giusta causa dei giornalisti inadempienti.

Conquistata nel XVI secolo dai portoghesi e trapassata ufficialmente alla Repubblica popolare cinese verso la fine del 1999 (due anni dopo Hong Kong) la regione speciale di Macao riconosce ancora il portoghese come una delle sue lingue, sebbene sia ormai ampiamente minoritaria.

Proprio insieme a Hong Kong doveva essere il laboratorio di quella che rimarrà alla storia (e forse nel cassetto, purtroppo) come la formula “un paese, due sistemi”.

Secondo la visione ottimistica che, negli anni ’90 del secolo scorso, immaginava un’avanzata inarrestabile e pacifica delle democrazie di stampo occidentale, entrambe le città-stato sarebbero state gli avamposti democratici di una Cina che forse non si sarebbe democratizzata rapidamente (gli echi di Tienanmen erano ancora assordanti), ma di certo avrebbe tollerato sacche di pluralismo politico e informativo all’interno dei suoi confini. Poi è andata come tutti stiamo assistendo a Hong Kong.

In questo scenario, Macao ha rappresentato una sorta di anomalia. Era il nuovo acquisto mansueto del gigante cinese, la sorella ubbidiente della ribelle ex colonia inglese.

Le spiegazioni per questo comportamento variavano dalla demografia (640 mila abitanti contro gli oltre sette milioni di Hong Kong) al reddito pro capite tra i più alti al mondo, grazie a un’economia quasi interamente fondata sul gioco d’azzardo, che da tempo attrae nelle sue strade i tentacoli delle triadi cinesi, altro elemento di controllo rigido del territorio.

In realtà, di tensioni striscianti ce n’erano state, soprattutto nel mondo accademico e giornalistico in lingua cinese, fino alle manifestazioni di solidarietà a Hong Kong del 2019.

Con questa emanazione delle nove regole patriottiche – che hanno già provocato varie dimissioni, mentre chi resta denuncia pressioni, ma lo fa nel più rigoroso anonimato – probabilmente si chiude anche un’altra sacca di diversità e di pluralismo in Cina, forse l’ultima.

In tutto ciò non resta che segnalare il dibattito all’interno dell’opinione pubblica portoghese. Riuscirà Lisbona, come Londra, a fare la voce grossa con Pechino? Potrà mai addirittura ripetere l’exploit diplomatico che, sempre in quel 1999, riuscì a proiettare l’attenzione del mondo sull’altra sua ex colonia estremo-orientale, Timor est, che sottopose a referendum l’indipendenza dall’Indonesia?

Molti attribuiscono a quell’esperienza memorabile la crescita e la proiezione internazionale di una generazione di politici lusitani, fra cui l’allora primo ministro António Guterres, oggi segretario generale delle Nazioni Unite. Il Portogallo, al momento, avrebbe anche la presidenza semestrale della UE.

Ma il peso internazionale dello stato cinese oggi non è paragonabile a quello del regime trentennale e già moribondo dell’Indonesia post Suharto, né il Portogallo è lo stesso.

Durante la crisi dell’Euro, soprattutto fra il 2011 e il 2014, le imprese cinesi (ovviamente statali, quindi emanazioni dello stesso governo di Pechino) sono state fra i clienti che più shopping hanno fatto nel Portogallo indebitato e sottoposto alle politiche di rigore della troika.

Hanno comprato alcune delle maggiori banche private dove i portoghesi depositano i loro risparmi, alcune delle maggiori compagnie assicurative a cui i portoghesi affidano i propri contributi pensionistici e perfino la compagnia elettrica ex pubblica, che oggi si occupa anche della transizione energetica.

A quei tempi Bruxelles, che solo ieri pare si sia riscoperta anticinese, in nome del debito sovrano lasciava fare.