di Maria Izzo
24 Gennaio 2022
L’ong Memorial, simbolo della transizione, viene cancellata dalle autorità russe
Vicino al canale Belomor, nell’angolo nord-occidentale della Russia, si trova una foresta di pini, chiamata Sandarmokh dal villaggio più vicino. Fra gli alberi si vedono avvallamenti del terreno, che rivelano le tracce della terribile storia rinchiusa per decenni nel sottosuolo.
Sotto gli alberi di Sardarmokh si trovava una grande fossa comune, dove erano sepolte circa novemila persone, uccise in quel punto nel 1937 e 1938. Le vittime erano uomini e donne di etnie e religioni diverse. Molti di loro erano intellettuali o persone impegnate in politica. Erano arrivati fin lì ancora vivi, perché i loro assassini sapevano bene che le persone vive sono più facili da trasportare. Poi furono costretti a scavare le proprie tombe e fucilati sul posto.
La fossa e la tragica fine delle persone che vi erano sepolte forse sarebbero rimaste nell’ombra se nel 1997 Veniamin Iofe e Irina Flige, accompagnati da un locale di nome Jurij Dmitriev, non fossero arrivati da San Pietroburgo in quell’angolo remoto del Nord russo.
Veniamin Iofe e Irina Flige non passavano di lì per caso. A spingerli nel fitto dei boschi della Carelia, era stata la testimonianza del Capitano Matveev, che su ordine della polizia politica sovietica aveva giustiziato in quel punto migliaia di persone. Entrambi membri di Memorial, l’organizzazione che da un decennio circa si occupava di portare alla luce gli abusi dell’epoca sovietica, avevano viaggiato fino a Sandarmokh per restituire un nome alle persone scomparse e commemorarle.
Oggi a Sandarmokh sorge un sito memoriale che rappresenta non solo uno dei più significativi luoghi di memoria delle repressioni sovietiche, ma anche la testimonianza concreta dell’operato di Memorial e del suo impegno per il recupero della memoria delle vittime.
Memorial è nato alla fine degli anni Ottanta, mentre l’Unione Sovietica era già attraversata da grandi cambiamenti che ne avrebbero poi segnato la fine. A innescare la scintilla fu l’iniziativa di alcuni giovani economisti di Mosca e Leningrado, che nel 1987, con l’intento di scambiarsi idee per immaginare un futuro a partire dalle riforme in corso, decisero di riunirsi in un gruppo di discussione su temi di interesse socio-politico chiamato Perestrojka.
Il numero dei membri del gruppo iniziò ad allargarsi velocemente fra le tante persone che, nell’attesa di un cambio di rotta nella società sovietica, si ritrovavano regolarmente a centinaia nel grande atrio dell’Istituto Centrale di Economia e Matematica di Mosca.
Il campo di analisi uscì velocemente dai confini dell’economia per allargarsi a tutto il sistema sovietico, al quale si guardava sempre più spesso attraverso una lente fortemente critica.
Il tema delle repressioni emerse subito come uno dei nodi più dolorosi e ricorrenti. Circolavano a voce sempre più alta fra i partecipanti del gruppo il desiderio, la necessità, l’urgenza di condannare quegli atti di violenza e soprattutto di mobilitarsi perché non potessero ripetersi mai più.
Da Perestrojka si generò quindi Memorial, un gruppo formatosi spontaneamente con l’obiettivo di riportare alla luce le violenze del regime sovietico e ricordarne le vittime.
Nel giugno 1988 una folla di manifestanti si riunì pubblicamente nella capitale sovietica, nei pressi del Palazzo dello Sport della Dinamo Mosca, chiedendo un memoriale alle vittime della repressione. Alla manifestazione intervenne Andreij Sacharov, il fisico nucleare e intellettuale già noto nell’ambiente dei dissidenti, che dai sotterranei della società si esprimevano in maniera critica verso il sistema sovietico e cercavano di disegnare un percorso alternativo.
Molti intellettuali avevano vedute nazionaliste, che auspicavano un ritorno alla Russia premoderna e al suo spirito religioso originario.
Parlavano inoltre della Russia come un paese con un destino a sé, distinto e indipendente dal cammino intrapreso dalla pur vicina Europa. La Russia futura di Sacharov andava in direzione opposta. Sacharov guardava al modello europeo, alla democrazia e alla cultura dei diritti umani come unica via possibile per uscire dalla rete repressiva del totalitarismo. Per questo, Sacharov era ben noto anche alle autorità sovietiche, che per anni lo avevano tenuto sotto stretta sorveglianza e poi lo avevano costretto all’esilio.
Il sostegno di Sacharov alla causa di Memorial fu profondamente significativo della forza che lega la battaglia per la memoria a quelle per l’affermazione dei diritti umani.
Il linguaggio dei diritti umani, infatti, nasce come reazione alla memoria recente dell’orrore e della crudeltà. Il linguaggio dei diritti umani è quindi strettamente connesso alla memoria del male. Fu subito chiaro che nella visione dei membri di Memorial l’indagine storica non poteva limitarsi a una ricostruzione del passato fine a se stessa, ma doveva diventare parte di un discorso molto più ampio di affermazione e di rispetto della dignità dell’individuo di fronte alla macchina spietata della dittatura.
Così Memorial è diventato qualcosa di più di un’associazione. E’ diventato un movimento che, come recita lo statuto, “si pone il compito di rivelare e custodire la verità storica a proposito della repressione politica su larga scala in Unione Sovietica, così come di difendere, oggi, i diritti umani”.
Sullo sfondo di un paese in cerca di un nuovo percorso e di nuovi linguaggi, nel giro di un anno il movimento si espanse ben oltre la capitale, con iniziative che nascevano in città sparse su tutto l’enorme territorio dell’URSS, dalla Siberia all’Ucraina.
Andrei Sacharov divenne presidente dell’organizzazione, che ai tempi non aveva ancora uno status ufficiale. Il riconoscimento delle autorità sarebbe arrivato solo dopo la sua morte, nel dicembre 1989. Poco dopo apparve anche un monumento alle vittime delle repressioni politiche: una pietra che gli attivisti di Memorial avevano portato dal remoto campo di prigionia delle isole Solovki, nel Mar Bianco. La Pietra fu simbolicamente installata in piazza Lubjanka, direttamente di fronte al quartier generale del KGB, che ai tempi e per il decennio successivo non fece alcun ostruzionismo.
Con il tempo, Memorial ha allestito un museo che raccoglie oggetti appartenuti a prigionieri politici, una biblioteca e un centro di ricerca, i cui risultati vengono catalogati e aggiornati attraverso l’utilizzo di un database che attualmente raccoglie più di tre milioni di record.
La raccolta dati è finalizzata anche a promuovere la riabilitazione dei prigionieri politici, perseguiti sulla base di accuse false. Ad oggi l’associazione stima che circa 12 milioni di vittime del terrore politico nell’ex Unione Sovietica sarebbero ancora in attesa di riabilitazione ufficiale.
La difesa dei diritti dei prigionieri politici ha segnato il superamento del campo della storia da parte di Memorial che ha iniziato a occuparsi, già alla fine degli anni Ottanta, dei tanti detenuti politici che ancora scontavano la loro pena, per i quali venivano presentati appelli al Pubblico Ministero oppure condotte iniziative pubbliche.
Nel 1991 all’associazione si è aggiunto il Centro per i Diritti Umani Memorial.
Ben presto, il tumultuoso presente che scuoteva i paesi dell’ex-URSS nei primi anni della loro esistenza ha moltiplicato i campi di intervento di Memorial, che è stata chiamata a intervenire su molti dei fronti insanguinati che hanno spaccato lo spazio post-sovietico. Durante la prima guerra cecena 1994-1996 Memorial ha lavorato sul campo in Cecenia, svolgendo le funzioni dell’Ufficio del Commissariato Russo per i Diritti Umani. Uno dei suoi membri, Oleg Orlov, è stato parte del gruppo di negoziatori inviati a Budennovsk nel 1995, quando la città della Russia meridionale fu attaccata da un gruppo di separatisti ceceni che presero in ostaggio circa millecinquecento persone per chiedere il ritiro dalle truppe russe dalla Cecenia.
Memorial è stata inoltre presente nel conflitto del Nagorno-Karabakh, nel sud del Caucaso, dove nella prima parte degli anni Novanta si si sono scontrati con grande violenza Armenia e Azerbaigian.
Poi, a operazioni militari terminate, Memorial è rimasta a occuparsi dei civili sfollati a causa dei conflitti. Nel 1996, Memorial ha istituito un programma dedicato per aiutare migranti e rifugiati. Il flusso di rifugiati in fuga dei conflitti armati negli anni è diminuito, ma la rete di Memorial ha continuato a operare, attraverso trentatrè centri di accoglienza in tutta la Russia, per prestare assistenza ai lavoratori migranti costretti ad affrontare condizioni di lavoro estremamente difficili.
Poi nei primi anni nel nuovo secolo l’atteggiamento delle autorità nei confronti di Memorial è cambiato, facendosi sempre più ostile. La pressione su Memorial è aumentata rapidamente negli anni Duemila e si è tradotta più volte in atti di violenza, spesso estremi, verso i membri dell’associazione ed specialmente nel Caucaso settentrionale russo.
Nel 2007, Oleg Orlov del Memorial e i giornalisti di REN TV sono stati prelevati da un hotel in Inguscezia e picchiati. Per il crimine, nessun colpevole è mai stato identificato. Nel 2009 l’attivista Memorial Natalija Estemirova è stata rapita e uccisa in Cecenia. Gli autori dell’omicidio non sono mai stati trovati, ma i suoi collaboratori sostengono che dietro il gesto ci fosse la mano delle autorità cecene.
Da allora la pressione non accenna a diminuire. Al contrario, nel tempo la battaglia contro Memorial e altre organizzazioni per i diritti umani è diventata parte di un programma politico ben preciso messo in atto dallo stato. Nel 2012 è stata approvata una legge che definisce “agente straniero” ogni organizzazione che riceve supporto finanziario e donazioni dall’estero. Con l’entrata in vigore della legge, il nucleo centrale di Memorial, Memorial International, è stato inserito nella lista degli “agenti stranieri”, con l’intenzione di colpirle l’associazione con lo stigma che questa accusa porta con sé.
La formula “agente straniero”, infatti, fa parte del lessico dello stalinismo e delle grandi purghe, nelle quali si trovava spesso associata all’espressione “nemico del popolo”.
La mossa del governo si è rivelata una dichiarazione aperta di ostilità verso Memorial, che negli ultimi anni ha subito attacchi sempre più serrati. Nel 2018 il capo dell’ufficio ceceno di Memorial, Oyub Titiev, è stato arrestato per presunto possesso di droga. Una settimana dopo il suo arresto, l’ufficio di Memorial nella vicina Inguscezia è stato bruciato.
Come conseguenza, la sede cecena dall’associazione è stata chiusa per motivi di sicurezza. Nel 2020, il capo dell’ufficio della Carelia di Memorial, lo storico Jurij Dmitriev, è stato condannato a 13 anni in una colonia carceraria di massima sicurezza con l’accusa di aggressione sessuale ai danni di un minore.
I suoi collaboratori rimangono convinti del fatto che il caso sia stato costruito ad arte per motivi politici. Pochi mesi fa, nell’ottobre del 2021, l’ufficio di Mosca del Memorial è stato preso d’assalto nell’ottobre 2021, durante la proiezione di un film sull’Holodomor, lo “sterminio per fame” di sei milioni di persone, provocato dalle autorità sovietiche nel 1932-33 in Ucraina per piegare le resistenze della popolazione locale alle politiche di collettivizzazione. La polizia, intervenuta sulla scena, si è preoccupata solo di interrogare i partecipanti alla proiezione per scoprire come fossero venuti a conoscenza della proiezione del film. Secondo Memorial, i responsabili dell’attacco sono stati semplicemente rilasciati senza alcuna conseguenza.
Un mese dopo, nel novembre 2021, l’Ufficio del Procuratore Generale ha chiesto alla Corte Suprema russa di liquidare Memorial per violazioni sistematiche della legge sugli agenti stranieri, In particolare l’organizzazione è stata accusata di aver violato la legge omettendo di dichiarare il proprio status di “agente” sui materiali pubblicati.
Il 28 dicembre 2021, al termine del processo, la Corte Suprema ha decretato la liquidazione forzata di Memorial Internazionale. La liquidazione è stata disposta anche per il Centro per i Diritti Umani. Nelle dichiarazioni conclusive, il Pubblico Ministero ha inoltre accusato Memorial di “creare un’immagine falsa dell’URSS come di uno stato terrorista” “e di contribuire a coprire e riabilitare i criminali nazisti.
Ora l’associazione attende l’esito dell’appello, che potrebbe confermare la chiusura. L’appello è previsto per febbraio; nel mentre, i suoi membri proseguono le attività nonostante l’incertezza.
Se con la pronuncia in appello dovesse arrivare la conferma della chiusura, questa sarebbe perfettamente coerente con le iniziative messe in atto dalla Russia per oltre un decennio con l’obiettivo creare una versione della storia che non si limita a negare la memoria delle vittime, giustificando e minimizzando la crudeltà della macchina repressiva sovietica, ma punta apertamente a ripulire e ammantare di gloria l’immagine del più noto dei carnefici, Stalin.
Nei testi scolastici, redatti secondo linee guida dettate dal governo, il terrore staliniano è descritto come “il prezzo per i grandi risultati dell’Unione Sovietica” e la violenza come lo strumento che ha permesso di raggiungere la massima efficienza della classe dirigente. Allo stesso modo, il giudizio sulla figura di Stalin nel discorso pubblico è sempre temperato dal mito radioso del condottiero vittorioso che ha sconfitto i nazisti.
Nel settembre 2020, all’apertura dell’anno scolastico il presidente Putin ha tenuto una lezione di storia online a tutti gli studenti, concentrandosi su due punti chiave: il patto Molotov-Ribbentropp come una scelta obbligata a cui Stalin non poteva sottrarsi e il ruolo decisivo giocato dall’URSS nella Seconda Guerra Mondiale, ruolo non abbastanza riconosciuto dagli altri stati coinvolti. In compenso, però, il presidente non perde occasione di sbandierarlo come elemento fondante dell’identità e dell’unità nazionale della Russia contemporanea. Oltre che come simbolo della grandezza russa sullo scenario internazionale.
Non è un caso che in diverse città russe siano spuntati negli ultimi anni molti monumenti a Stalin. Solo in Ossezia del Nord, nel Caucaso, se ne contano più di due dozzine. I busti e le statue sorgono spesso per iniziativa di privati, ma in molti casi vengono installate con il supporto delle autorità locali. Vengono invece chiusi i luoghi di memoria che testimoniano i crimini sovietici, come il museo ricavato dal campo di lavoro dismesso Perm-36. Nel 2015 il museo, inizialmente dedicato alle vittime della repressione, è stato chiuso e poi riaperto con un assetto diverso, finalizzato a documentare il sistema del campo e l’impegno dei lavoratori che contribuivano al suo funzionamento. Ovvero a perpetuare il sistema repressivo.
Lette sullo sfondo di questi eventi, sono chiare le ragioni che hanno spinto le autorità a cercare di liberarsi di Memorial, un fastidioso ostacolo sul cammino della Russia contemporanea, instradata pericolosamente verso un’idea di società in cui i cittadini possono essere facilmente sorvegliati, perseguitati, “disumanizzati” e sacrificati per la sopravvivenza del sistema.