Memorie di un pre-pandemia indiano

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5 Agosto 2021

L’uso di ‘variante indiana’ è una discriminazione, che alcuni italiani hanno vissuto sulla loro pelle all’inizio della pandemia

In questi giorni sento dire in giro che questa “variante indiana” ci sta facendo ritornare nel caos…

Eppure, il 31 Maggio 2021, l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva pubblicato un articolo nel quale incoraggiava le nazioni e i media ad introdurre l’utilizzo di una nuova nomenclatura che consisteva nell’utilizzo di lettere greche per indicare le varianti del virus SARS-COV2.

Questo aveva lo scopo di creare una terminologia semplice per riferirsi alle varianti in contesti non prettamente scientifici, evitando così apposizioni geografiche del nome del paese in cui queste erano state individuate per la prima volta.

Tale novità aveva il pregio di evitare la stigmatizzazione e la discriminazione dei presunti paesi di origine delle varianti e delle loro popolazioni.

Queste considerazioni mi hanno fatto tornare in mente che ancora all’inizio di questa storia, il COVID-19 era stato di nazionalità italiana. In quei primi giorni di Marzo 2020 mi trovavo in India, nella città di Varanasi:

dopo un lungo periodo in India ero desiderosa di tornare a casa, vedere la mia famiglia e i miei amici… purtroppo però proprio in quei giorni l’Italia registrava la prima ondata di COVID-19. Pensai di posticipare tatticamente di qualche giorno il mio viaggio; ero infatti piuttosto certa che tutto si sarebbe sistemato entro una settimana o due. Correvo così da un angolo all’altro della città nella frenesia di fare le carte necessarie per l’estensione del mio visto che stava per scadere: in questo modo avrei potuto prolungare la mia permanenza in India.

In quei giorni, il COVID-19 stava entrando nell’immaginario indiano come la malattia italiana e – per estensione – la malattia dei turisti e degli stranieri in generale. Questa idea nasceva principalmente dalla notizia che, all’inizio di marzo, 13 turisti italiani erano stati trovati tutti positivi al COVID-19 durante un viaggio nel nord dell’India.

Ovunque a Varanasi iniziava a sorgere il sospetto nei confronti degli stranieri. Non vedevo tragicità nella situazione, e così continuavo a muovermi in città per fare le mie carte. Ciononostante, avevo iniziato a prendere qualche precauzione: ad esempio avevo smesso di viaggiare nei rickshaw condivisi e utilizzavo ora solo quelli privati, in modo tale da non trovarmi stipata come una sardina tra sei o sette persone in un metro quadro.

Mi ci erano voluti alcuni giorni prima di trovare una mascherina decente, e dovetti per giunta pagarla un’enorme quantità di denaro: potevo del resto entrare in ben pochi negozi, dato che alla mia vista, molti gestori mi allontanavano con incomprensibili borbottii.

 

 

Non racconto questi episodi per puntare il dito della discriminazione contro chi mi mandava via o mi ignorava. Il modo in cui ero trattata non era dettato dall’odio o dalla repulsione, ma piuttosto da una pura e semplice paura della malattia.

In quei giorni era in corso una sostanziale alterazione dell’immaginario della ‘donna straniera e bianca’. Durante i miei precedenti soggiorni nella città indiane, la mia carnagione chiara mi aveva spesso concesso una sorta di immeritato “VIP status”.

Questo “status speciale” è sempre stato accompagnato da una rassegnata consapevolezza di differenza e mancanza di inclusività, ma, in fin dei conti, non dover fare la fila nei negozi, e attirare la curiosità delle persone mi sembrava un modo piacevole per essere “diversi”.

Anche se nei contesti religiosi hindu ortodossi, gli stranieri sono spesso disprezzati per la loro mancanza di istruzione in materia di purezza rituale, una carnagione chiara è spesso equiparata a purezza e status elevato.

Negli ultimi giorni prima del lockdown, questo nesso andava rapidamente dissolvendosi. I resoconti dei media che incolpavano gli stranieri per la diffusione del virus stavano avendo ripercussioni immediate.

La mia carnagione chiara – associata nella mitologia indiana alla carnagione di molte divinità – era diventata da un giorno all’altro qualcosa da evitare, da cui stare lontani, qualcosa da non toccare.

Ovunque andassi, questa trasformazione continuava ad accelerare: le persone restavano ben lontane da me e quando i passanti attraversavano il mio cammino per strada, si coprivano il naso con un foulard per proteggersi da quello che percepivano come un potenziale diffusore di virus. A quel punto avevo iniziato a sentirmi piuttosto a disagio.

Cercavo di essere veloce nei miei lavori ed evitavo inutili escursioni in città. Non mi sono mai sentita in pericolo, ma indesiderata direi di sì.

Negli ultimi giorni di libertà, prima che fosse imposto il lockdown nazionale del 24 marzo 2020, si poteva tagliare la tensione nell’aria con un coltello: tutti i volti noti intorno alla mia residenza si nascondevano da me, in modo che non fossi tentata di avvicinarmi per chiacchierare con loro.

Ricevevo messaggi da alcuni amici del posto che mi chiedevano con preoccupazione come stesse la mia famiglia a casa, come fosse realmente la situazione in Italia. Alcuni di loro mi inviavano delle foto che circolavano su WhatsApp che mostravano la tragica situazione dell’Italia: c’era una foto di una piazza cittadina disseminata di cadaveri con la didascalia “La pandemia in Italia”. Un’altra immagine ritraeva una foto del presidente brasiliano Bolsonaro con la didascalia “Il presidente Conte piange le vittime italiane: solo Dio può salvare il nostro Paese ora!”

 

 

Tutte queste immagini e notizie (a volte decisamente false) sconvolgevano l’immaginario di molti; la paura aumentava di giorno in giorno. Domenica 22 marzo 2020, il presidente del Consiglio Modi proclamava un giorno di coprifuoco.

Verso la sera di quello stesso giorno, Modi chiedeva agli indiani di spegnere le luci delle loro case, e salire su balconi e tetti a celebrare con candele accese nel buio l’unità nazionale nella lotta contro il COVID-19.

Ero in casa quando Varanasi spense tutte le luci: anche i lampioni si spensero. Per alcuni secondi la città fu completamente buia. Poi, milioni di candele iniziarono ad accendersi, ḍamarus (tamburi a due teste) e conchiglie rituali suonavano forte, accompagnati da tonanti invocazioni al dio Shiva, e da tutte le parti risuonava: “Hara hara Mahadev! Hara hara Mahadev!”.

Potevo sentire distintamente il rumore di padelle battute con i mestoli della cucina accompagnato dallo scoppiare dei petardi. Il resto erano suoni sconosciuti. Questo rituale dava vita ad una scena poetica, creava una sensazione di sicurezza, istituiva la percezione di uno spirito nazionale, forte e coeso contro il COVID-19.

Per me, la scena aveva del surreale: tutti festeggiavano come a celebrare la fine di un incubo… Ma eravamo stati un giorno soltanto in casa… Qualcos’altro stava per accadere: due giorni dopo, un primo blocco di 21 giorni fu applicato all’intero paese.

Due assai caldi mesi dopo, uscivo di nuovo per la prima volta. Avevo un po’ paura a tornare in strada e ad incontrare gente (cosa a cui non ero più abituata). Temevo possibili ritorsioni generate dalle difficoltà degli ultimi due mesi, ma non accadde niente del genere.

In strada, lo stigma dello straniero come “quello con il virus” era sparito. L’atteggiamento dei giorni precedenti il lockdown era stato sostituito dalla triste rassegnazione che eravamo tutti nella stessa situazione.

Quella era ormai diventata una pandemia globale, un problema del mondo nella sua interezza. Vigeva adesso la regola che i negozi nella via principale vicino a dove abitavo aprissero a giorni alterni in base alla loro ubicazione da un lato o l’altro della strada. Mentre camminavo lungo la strada principale, la mia presenza veniva notata perché ero l’unica straniera in giro, ma non mi sentivo a disagio. Tutto era calmo: c’era meno gente del solito per strada, e quelli che facevano la spesa al mercato sembravano rilassati.

La maggior parte delle persone aveva escogitato modi creativi per proteggersi dal virus. Il panorama era piuttosto vario e si potevano vedere passamontagna indossati sotto il sole cocente, così come mascherine trasparenti indossate “efficacemente” a coprire il mento.

Mi trovavo in una zona della città relativamente benestante, il che probabilmente mi risparmiava la vista di situazioni drammatiche. Avevo preso l’abitudine di uscire a fare la spesa due volte a settimana. I negozianti erano tornati ad essere gentili e loquaci: la paura iniziale era stata sopraffatta da una desolata rassegnazione. Pensavano all’Italia e all’Europa come i primi paesi dopo la Cina ad essere stati colpiti dalla pandemia e quindi continuavano a chiedermi: “Come sono le cose a casa? Le cose sono tornate normali li da voi? Quando finirà tutto questo?”

“Spero molto presto” rispondevo ripetutamente “…molto presto davvero.”