6 Ottobre 2021
L’offshore, in sé, non è illegale, ma è importante mettere anche questo aspetto nel contesto di un sistema politico – economico sempre più grave
Aggirare il fisco è un lusso da ricchi. A cinque anni dai Panama Papers, la nuova inchiesta dell’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ) – ribattezzata Pandora Papers – dimostra ancora una volta quanto sia florido il business dell’offshore.
Dal vaso scoperchiato sono emersi milioni di documenti, castelli e ville a Malibu e centinaia di personalità coinvolte: leader mondiali e politici di più basso rango, criminali e celebrità.
“Questo leak è come i Panama Papers, ma sotto steroidi”, è stato il commento del direttore di ICIJ, Gerard Rye. I Panama Papers riguardavano l’attività di Mossack Fonseca & Co., studio legale panamense e vero e proprio impero della consulenza in materia di sistemi offshore, chiuso nel 2018 a seguito dello scandalo.
Nel 2017 i Paradise Papers svelarono le attività della società Appleby, con sede principale alle Bermuda, in cui erano coinvolti numerosi personaggi famosi (inclusa la famiglia reale britannica) e multinazionali (Nike, Walmart, Allianz, Siemens, Disney, Facebook, Twitter, Yahoo!, Apple, Uber e via elencando). I Pandora Papers rivelerebbero dati relativi a ben 14 società specializzate in servizi per l’elusione fiscale e operazioni finanziarie tra l’illecito e il controverso.
Offshore, infatti, indica sostanzialmente un regime di fiscalità “straordinaria” e tendenzialmente favorevole a chi apporta considerevoli flussi di denaro.
Di per sé, sfruttare i vantaggi offerti dall’offshore o semplicemente trasferire i propri soldi dove sono meno tassati non è necessariamente un’attività illegale. Il fatto che ciò possa essere usato a copertura di riciclaggio o attività criminali non implica che tutti gli utilizzi siano di quel tipo.
Fiat-Chrysler Automobiles, per esempio, ha sede sociale nei Paesi Bassi e sede fiscale in Gran Bretagna e la decisione della società fu annunciata senza sotterfugi, perché di fatto resa possibile dalle normative.
Non è “soltanto” un problema di corruzione e illegalità, sebbene il criminale e il politico possano risultare istintivamente più antipatici dell’amministratore delegato. In un regime di mobilità internazionale dei capitali, il denaro ha la possibilità di muoversi dove più conviene. All’interno di questa zona grigia, si ricerca la soluzione che consente di pagare meno tasse o acquisire beni e proprietà di lusso in maniera più agevole.
Per quanto possa suonare retorico, è un problema di sistema, un sistema composto da molteplici attori: governi che tra sistemi offshore et similia si contendono i flussi di denaro transnazionali, perseguendo un modello di sviluppo diseguale, escludente e disfunzionale; studi legali e società che prosperano con servizi di consulenza per facoltosi clienti; percorsi di formazione, spesso assai prestigiosi, che insegnano che il mercato, il profitto e il cliente hanno sempre ragione; narrazioni diffuse per cui il potere economico non va regolato nemmeno quando eccessivo perché frutto del “merito”.
Lo illustra molto bene un libro di recente pubblicazione della studiosa Katharina Pistor, “Il codice del capitale. Come il diritto crea ricchezza e disuguaglianza”. Le leggi consentono di creare società per pagare meno tasse, accumulare capitali, acquistare proprietà di lusso. Basta essere sufficientemente ricchi per pagare qualcuno che abbia le competenze per usare le normative nel più profittevole dei modi.
Dalla proposta di global tax del G7 all’abito-manifesto di Alexandria Ocasio-Cortez in occasione del Met Gala 2021, la tassazione “dei ricchi” (che si parli di patrimoni, profitti o altre forme di reddito) è un tema che sta lentamente e con fatica prendendo spazio nella discussione pubblica a livello internazionale. Intervenire sulle varie forme di sistemi offshore in giro per il globo è indubbiamente un nodo cruciale in questa discussione, senza però trascurare di interrogarsi su come si siano originati i redditi e i patrimoni che si intendono tassare.
Per citare un caso noto, Amazon beneficia sia di agevolazioni e scelte furbe in termini di fiscalità, sia di pratiche di forte compressione salariale e sfruttamento della manodopera. Il dibattito sulla tassazione non può quindi essere disgiunto da quello sulla questione lavorativa su scala mondiale.
La consueta obiezione alle proposte di tassazione su redditi e patrimoni elevati riguarda il timore che punendo la ricchezza si darebbe un freno agli investimenti e quindi alla crescita economica e allo sviluppo. È doveroso sottolineare come l’evidenza empirica – a cominciare da studi OCSE – non rilevi fughe di capitali a seguito di aumenti della tassazione di questo tipo, mentre al contrario conferma che il maggiore gettito fiscale potrebbe generare effetti positivi e addirittura virtuosi.
In secondo luogo, senza aprire lunghe parentesi sulle dinamiche del capitalismo finanziario contemporaneo, una sommaria prima lettura dei Pandora Papers suggerisce che l’utilizzo del denaro sfuggito ai vari regimi fiscali nazionali non abbia ricadute sullo sviluppo cosiddetto inclusivo. A meno di riuscire a spiegare come la compravendita di immobili di lusso sia da preferire a sistemi di welfare e salute pubblica.
È pur sempre vero, tuttavia, che miliardari come Jeff Bezos, Richard Branson e Elon Musk conducono la loro corsa allo spazio per lucrosi interessi personali di fronte ai riflettori. E ancora, è cosa nota che multinazionali come Google, Apple, Facebook o Amazon paghino tasse per una cifra irrisoria rispetto al loro volume di affari. A titolo d’esempio, il generoso trattamento fiscale irlandese o la favorevole regolamentazione societaria olandese sono temi ampiamente sollevati dal dibattito in sede UE.
I Pandora Papers non sono un’anomalia del nostro mondo e delle nostre società, sono parte della struttura. Qualunque atto di indignazione che si voglia anche solo minimamente trasformativo non può prescindere da ciò.
La foto di copertina è di OCCRP